[Il testo che segue, inedito in Italia e concesso a RaiLibro (da cui lo riprendiamo) da Fanucci Editore in una stesura non ancora definitiva, è tratto da Tredici storie, tredici epitaffi, che verrà presto pubblicato nella traduzione di Chiara Belliti e Simona Vinci]

vollmann.jpgSud

… dove l’oceano non faceva altro che salire e salire e nere pinne di delfino di tanto in tanto scivolavano a pelo d’acqua e i delfini cominciavano a giocare e a fischiare proprio come ricordavo che facevano quando avevo quattro anni a Los Angeles e mia madre mi portava a passeggiare sulle colline dorate a vederli al centro di ricerca e i delfini sembravano eccitati nel vedermi e cominciavano a balzare e a saltare nella loro vasca e il sole era caldo sulle ombre erbose delle colline; e così qui a Long Beach un quarto di secolo più tardi i delfini erano ancora felici e le radio suonavano a tutto volume in inglese e spagnolo mentre gli aerei passavano su in cielo e lunghe petroliere sembravano immobili in lontananza come i pezzi del puzzle di un qualche orizzonte costiero.

A causa del ricordo dei delfini riuscivo a persuadermi, per brevi intervalli di tempo, di essere ancora a casa: qualsiasi posto in California, uno stato nel quale ho trascorso metà della mia vita, era quasi bello come San Francisco.
— Se, comunque io, o meglio tu, dovessi andare più a sud (dovevi essere tu a partire; io sarei rimasto a San Francisco), allora la Santa Ana Freeway vi avrebbe fatto attraversare una foschia tanto brillante da farvi lacrimare gli occhi; il cielo aveva il colore del cemento, gli alberi mezzo chilometro più avanti erano azzurri come in un’istantanea sbiadita, proprio come le sagome azzurre dei grattacieli nel centro di Los Angeles dove i ristoranti giapponesi si nascondevano dentro gli alberghi, fingendo che l’inquinamento non esistesse mentre ti servivano fegati di anguilla su vassoi laccati di rosso, e però i ristoranti coreani a un piano e i saloni di bellezza erano sparpagliati coraggiosamente lungo tutta la strada che conduceva ai Pozzi di Catrame di La Brea, e nonostante i loro condizionatori rombassero tutto il tempo potevi ancora sentire il sapore infernale e sulfureo dello smog sulla lingua non importa quanti dolci di riso avevi mangiato per strada — non che non ci fosse una certa GRANDEUR nelle immense rampe delle autostrade o nelle vibranti sudice brezze serali e nei centri commerciali simili a luoghi puliti e freschi, ma ogni pomeriggio era un’agonia di caldo verso cui dovevi essere riverente mentre la tua macchina sportiva sobbalzava e si scuoteva accelerando lungo la strada come un cane che aspetta di asciugarsi; e il sole scottava in quella foschia venefica e gli alberi di palma si ergevano sopra le stupide case dai tetti piatti e il traffico si inspessiva sull’autostrada mentre sempre più Buick e camper e vecchi pick-up e U-Hauls e camion brontolanti si mescolava, e fumo bianco usciva dalle fabbriche e faceva sempre più caldo e l’aria diventava sempre più irrespirabile e tu hai oltrepassato a gran velocità il cartellone pubblicitario che reclamizzava un prodotto per capelli e i capelli e la faccia della donna nella fotografia erano chiazzati di nero per i fumi di scarico e hai cominciato a fare i respiri più corti possibile, e i palazzi si riflettevano sulle fiancate scintillanti dei camion che superavi, e il cielo barbagliava di un bianco sempre più feroce e ti bruciavano gli occhi e sudavi e avevi la nausea e ogni volta che inspiravi sentivi un solletico in fondo alla gola e ti sentivi così nauseato che hai desiderato davvero che i missili del nemico si sbrigassero e spazzassero via tutto quanto; ma, se insistevi oltre San Clemente allora il traffico cominciava a diradarsi, prosciugato dalle voraci strade di case nuove negli ex-pascoli e sulle colline lussureggianti di erba verde intorno a San Diego, e alla fine saresti arrivato al cartello sospeso sopra l’autostrada che diceva SOLO DIRETTI IN MESSICO e poi il cartello che diceva ULTIMA USCITA PER GLI STATI UNITI e a quel punto ci sarebbe stato il ponte pedonale e le alture basse e chiazzate di cespugli; e poi oltre il confine nella foschia azzurrognola c’era lo scintillio offuscato di Tijuana con il suo mucchio di case basse bianche o grigie sulla collina e quasi non c’era spazio tra l’una e l’altra, e i suoi negozi ti dicevano BENVENUTO in caso tu ti fossi già dovuto fermare, i baracchini dei tacos su ruote agli angoli delle strade, gli uomini con i larghi cappelli che spingevano tra il traffico carretti pieni di carne ancora fumante, i ragazzini che correvano tra le macchine in coda sperando di riuscire a lavarti i finestrini, e la giornata era caldissima e gli uomini agitavano le grosse braccia scure. A un angolo, un ragazzo montava la guardia a un carretto pieno di fette d’anguria. Hai visto donne grasse con splendidi visi arancioni. Un uomo era in piedi a un angolo vendendo giocattoli semoventi con voce speranzosa e poi c’erano uomini con cappelli da cowboy e donne grasse e altre donne grasse e tante altre donne grasse, e nel caldo sciamava lo scintillio argenteo degli sferraglianti pullman messicani. Ragazzini indios dalla faccia triste con le facce sporche di polvere vendevano gomma da masticare, cinque pacchetti per un quarto di dollaro. Seduto in un caffè a un isolato di distanza dalla tenda dello spettacolo burlesco, bevevi Cuervo Gold da una grossa tazza di plastica e annuivi agli uomini che tentavano di venderti mazzi di fiori avvolti nella plastica, mentre dalle verande dei locali al secondo e al terzo piano tuonava incessantemente la musica, e nei negozi di liquori vedevi bottiglie scintillare gialle come zanne. — Quanti, amico? ti ha detto un uomo in tono brusco, mostrandoti un mucchio di braccialetti. — Zero, hai risposto. Nelle porte delle case, i messicani se ne stavano a gambe larghe, osservandoti, sistemandosi i baffi, accarezzandosi i capelli. Hai fatto finta che tutti i tuoi amici fossero lì, ma nemmeno tu ci credevi; ti sentivi molto smarrito. Desideravi San Francisco come Ken desidera ancora Satoko e la sua bocca piccola e i suoi denti bianchi e scintillanti e la soffice peluria nelle sue narici e le lentiggini sul suo naso, i suoi zigomi larghi e pallidi, i suoi occhi neri che lo fissavano mentre lo baciava — ma Ken avrebbe saputo cosa fare in Messico: avrebbe cominciato a fare fotografie e nel giro di cinque minuti li avrebbe avuti tutti a pendere dalle sue labbra. Margaret, d’altra parte, avrebbe portato delle cose. Era venuta con te due volte, una per comprare un taccuino di cuoio e l’altra per comprare una coperta grigia incredibilmente bella che tu ricordavi poi di aver visto sul divano del suo soggiorno con il sole che ci batteva sopra mentre Margaret era seduta a ascoltare la radio e a lavorare aspettando che arrivasse il suo ragazzo e la portasse a Sonoma per il weekend, dove loro due avrebbero bevuto vino e sarebbero andati a passeggiare dietro una cascata che lui conosceva, e Margaret stava canticchiando a bassa voce nella luce del sole; aveva sorseggiato una birra allo stesso tavolo dove tu eri seduto adesso e una ragazzina aveva tentato di rubarle i soldi dalla borsetta. — Ma Margaret ora era a San Francisco, dove tu non saresti mai tornato. Meglio non pensarci ora — eri FELICE! Dopotutto, tutti erano puttane, in quel posto; e a te piacevano le puttane. Hai dato dei soldi a un bambino e sua sorella è venuta al tavolo tenendosi il mento tra le mani; poi è arrivata la sorella di lei con la sua faccia di mogano, e i loro occhi brillavano, e i ragazzini ti hanno abbracciato e il maschio è tornato per venderti di nuovo della gomma e la ragazzina ha tentato di rubarti la gomma che avevi già comprato e la bambina che vendeva le rose ti ha accarezzato dolcemente la schiena e ti ha tirato la sedia. Soldati americani con occhiali a specchio camminavano lungo i marciapiedi con le loro ragazze. Erano i padroni di tutto. Si radunavano come giocatori di football in mezzo alle strade, gridando: Andiamo! Andiamo! — Ti sei chiesto come i messicani riuscissero a non ucciderli. La piccola venditrice di rose ha agitato il ditino davanti alla tua faccia e, sorridendo, ha iniziato a saltellare su un piede solo lungo la strada, tenendosi ben stretta i suoi quattro mazzi di rose; se fossi stato a San Francisco gliele avresti comprate tutte e ne avresti offerto uno a ogni punto cardinale, ma lì non potevi farlo; stavi roteando e vomitando; non eri al Centro. — Sei andato in un negozio in cui la porchetta sibilava su uno spiedo e hai ordinato un taco. Hanno tagliato delle belle fette di carne, e la carne era tenera e croccante come bacon al suo interno; hanno aggiunto dei condimenti e poi hanno guarnito il tuo taco con fresca salsa guacamole. — Sì, tutto sembrava molto bello lì, ma era tutto molto bello solo perché ti eri convinto con l’inganno a restare in piedi su una gamba sola, per usare una metafora, con l’idiota sicurezza del fenicottero che non si rende conto che ogni passante potrebbe scalciargli via da sotto l’unica zampa che ancora lo sostiene; e in quel momento, improvvisamente, hai iniziato a sentire un prurito di ansia triste e malata, sapendo che se anche fossi stato uno di quegli uccelli che riescono a ruotare la testa del tutto per becchettare i parassiti che hanno tra le scapole saresti stato comunque senza alcun potere; non saresti riuscito a calmarti nemmeno comprando una dozzina di portafogli di pelle di maiale, cento cinture di pelle di serpente, mille coltellini con pettine annesso o corni per bere o coltelli a scatto, ma hai tentato di fingere di poterci riuscire vagabondando disperatamente nel lungo tunnel del bazaar e sperando che quella stupida musica a volume troppo alto potesse soffocare i tuoi pensieri; sei andato da una bottega all’altra, dal magnete M32 all’M33, ammirando la severa lucentezza delle coperte disegnate che dividevano i baracchini, notando che le custodie degli stiletti sembravano essere cambiate dall’anno scorso quando ne avevi comprato uno per Ken e lui l’aveva portato dappertutto facendolo scattare con tanta felice brutalità che tutti l’avevano guardato con la coda dell’occhio e Ken aveva riso e riso e riso; ti sei ricordato di questa cosa quando hai guardato un mucchio di manette dell’esercito sudcoreano e per un minuto ti sei sentito di nuovo a posto; hai pensato alla Regina delle Manette che se ne stava nuda con un anello di diamanti infilato sul suo dito venoso e affusolato e i peli pubici dritti e sfrigolanti di elettricità statica e la testa rovesciata all’indietro nell’atto di emettere un sano urlo liberatorio e i polsi che si tiravano estaticamente negli anelli del suo paio taiwanese, che erano dello stesso tipo delle manette che una volta avevi comprato qui a Tijuana per tre dollari, dopo di che eri tornato subito a casa e avevi ammanettato felice una tazza di sciroppo d’acero allo sportello del frigorifero per farla ridere, e così, sospinto alla deriva verso la Regina da un’onda di nostalgia ammanettata, hai ammirato gli apparati sud-coreani e li hai fatti cliccare uno dentro l’altro come fossero i fantasmi di se stessi e hai chiesto queste quanto vengono? e il messicano serio e silenzioso dietro la teca di vetro ha detto quattordici dollari, e tu quasi le hai comprato per riparare all’ultima volta quando eri andato nel bazaar con Margaret e non avevi comprato altro che una boccetta di essenza di vaniglia—mai sentita! — Vuoi un servizio? aveva detto un messicano. — No, grazie, avevi risposto. — PERCHE’? aveva strillato l’uomo, disperato. Un messicano aveva gridato a Margaret: Prendi questa grossa borsa! È abbastanza grande per tenerci dentro tutti i tuoi soldi! e Margaret si era messa a ridere e non aveva detto niente, così il messicano si era voltato verso di te e, da dietro i suoi grossi occhiali da sole, ti aveva domandato: Non vuoi niente in questo negozio? — Niente, avevi risposto. — Vuoi questa borsa? aveva detto il messicano a Margaret. — Sì, aveva risposto lei, ma è troppo costosa. — Il messicano vi aveva squadrati da capo a piedi con evidente disgusto. Quando aveva distolto lo sguardo, sapevate di averlo tradito per sempre. — Fatti un ragazzo messicano, aveva detto il tipo a Margaret. Lui sì che ti comprerà qualcosa! — E ancora non volevi niente di nessun negozio, eccetto… eccetto… e così il termine operativo per descrivere le tue attività era brachiazione, ovvero il ciondolare delle scimmie alternando le braccia da un ramo all’altro; e a un certo punto avresti mancato la presa e saresti caduto perché San Francisco era l’unico albero della giungla che conoscevi — no, tasformarti in altri animali non ti sarebbe venuto in soccorso; avresti potuto essere un lemure dalla coda arrotolata e dondolarti proprio con quell’appendice a strisce bianche e nere che ti dava il nome, ma a lungo andare non ti sarebbe stato di alcun aiuto; saresti potuto diventare un uccello con la testa arancione, un uccello la cui testa era incoronata da piume verdi come bacche acerbe; ma persino il più brillante e vivace di tutti i pappagalli alla fine avrebbe rinfoderato il ventaglio della coda, esausto, e se la sarebbe trascinata dietro nell’erba terrosa e bagnata; no, non c’era nulla che poteva aiutarti, non una preghiera a Gesù nella cattedrale con le sue tre cupole dorate, ognuna con la sua croce (non eri abbastanza puro di spirito perché la tua angoscia si levasse più in alto della torre campanaria); né la ricetta per dei sonniferi, compilata alla farmacia del garage in cui avevi parcheggiato (fundada en 1950), ti sarebbe stata di alcuna utilità nemmeno se inalavi l’odore del pane appena cotto che si levava verso la tua macchina dalle finestre dei seminterrati — e no, nemmeno la tua macchina poteva aiutarti, perché non ti era concesso di guidare in altra direzione che non fosse il sud — ricordi? —; hai lasciato casa tua e potevi solo allontanarti da essa e nuove cose stavano succedendo ai tuoi amici, cose che non avresti scoperto perché non erano cose abbastanza importanti da esser dette per telefono, solo importanti a sufficienza per cambiare i tuoi amici proprio come tu stesso stavi cambiando dirigendoti verso sud, e poco importa quanto tentavi di conservare te stesso fermandoti a Rosarita Beach con le sue nuvole sospese sul mare e le case color verde limone, contro le quali la gente se ne stava appoggiata a guardarti, oppure a Ensenada, un’ora a sud di Tijuana, dove i ristoranti avevano la vista sul mare e i prezzi erano ancora prezzi americani e il menu era in inglese e le canzoni che la band suonava dal vivo erano in inglese e la birra era fredda (nella storia che circonda questa parentesi la parola “birra” compare tredici volte, e la parola “morte” nemmeno una — bevi, quindi, e vivi!), e la band continuava a suonare, ma a San Francisco in quell’esatto istante i ristoranti stavano chiudendo oppure aprivano, e qualcun altro stava esistendo nel tuo appartamento e Satoko non avrebbe mai più vissuto con Ken nel Tenderloin e Seth si era trasferito nel Tennessee dove si era innamorato di una donna magra quanto lui e il tempo a San Francisco era diverso e i tuoi amici lì ti stavano dimenticando o, quanto meno, se la stavano cavando senza di te; tutto era diverso. La Regina delle Manette in quel momento magari stava mangiando un gelato e stava dicendo: Sono cambiate così tante cose! seduta con le gambe chiuse e i riccioli che le cadevano fin quasi sugli occhi; e i suoi gomiti erano stretti pudicamente vicini al corpo. Probabilmente indossava un vestito azzurro e una collana di perle bianche. Le sue cosce erano morbide e soffici. Finiva il suo gelato e si sedeva tenendo le mani strette tra le gambe, si stava strofinando le cosce l’una contro l’altra e si guardava intorno in cerca di qualcuno che la picchiasse decentemente e tu non c’eri… E più ti spingevi a sud e più le cose peggioravano. È vero che Sheet-Rock Fred di tanto in tanto aveva parlato di andare a vivere a Città del Messico per sei mesi o poco più; se fossi andato lì e avessi aspettato un bel po’ di tempo e avessi avuto fortuna, magari avresti potuto vederlo (sempre che non fosse andato in India, invece, per essere cremato e sparso nel Gange), ma poi che ne sarebbe stato di Megan? o della Regina delle Manette? Una volta eri andato con quella donna molto speciale (di cui persino Ken aveva paura) al South Pole Bar — un postaccio da disperati dove c’erano dei buchi tra una parete dei cessi e l’altra in modo da consentire il passaggio dei soldi e il compimento di altri atti sporchi, un posto dove c’era sempre buio e i bevitori parlavano sempre a bassa voce tranne quando c’era una rissa o una scazzottata; una volta c’eri andato con Fred e l’uomo seduto di fianco a te ti aveva buttato rovesciato addosso la tua Budweiser e ti aveva detto e adesso sorridi un po’, brutto figliodiputtana! e Fred aveva sorriso e ti aveva detto sorridi e tu avevi sorriso — la qual cosa, più tardi, di aveva fatto infuocare per la rabbia e la vergogna; era stato in quel bar che la Regina delle Manette aveva cominciato a giocare a biliardo con te e tutti si erano messi a ridere perché tu giocavi così male; tutti erano stati amichevoli con te e ci avevano provato con la Regina delle Manette, che ti aveva insegnato cose del tipo MAI APPOGGIARSI AL BORDO DEL BILIARDO ALTRIMENTI VIENI PRESO A PUGNI e tu avevi pensato è davvero possibile; se ci provo davvero posso sentirmi a casa ovunque — guarda, lei ci riesce! — Ma più tardi avevi scoperto che lei era nata lì, nel Tenderloin. E non si sentiva a casa da nessun’altra parte. — Né tu ti saresti mai potuto sentire a casa in Messico. La notte, figure scure se ne stavano a testa bassa ai lati della strada. Stavano lì vicino ai negozi di cestini e di souvenir; se ne stavano seduti sui marciapiedi sulle sedie a tre gambe, e c’erano le sagome nere delle colline sopra la strada e il cielo era privo di stelle; i segnali stradali bianchi passavano uno dopo l’altro e tu hai guidato giù per colline ripide e sterrate dove agglomerati di luci giallastre aspettavano di intrappolarti e le famiglie se ne stavano fuori dalla porta di casa nella notte soffocante; hai visto lunghe e strane mura di case bianche; hai visto una ragazza molto giovane e incinta piangere come Elaine Suicide; hai visto una donna che spingeva un passeggino, fumando una sigaretta la cui punta rosseggiava nell’oscurità. E alla fine avresti terminato la benzina, e le sagome oscure ti avrebbero preso. Non c’era niente che tu potessi fare per evitarlo. Non ti era permesso tornare a casa. Se ci avessi provato, se a dispetto delle regole tu avessi doppiato l’estremità settentrionale dell’ago magnetico per tornare verso l’Isola di Bathurst§, allora ti avrebbero obbligato a comprare una barca giocattolo, la Madonna, il modellino di un clipper a tre alberi, e una donna avrebbe mosso silenziosamente le labbra fuori dalla tua finestra con la testa del suo bambino addormentato sospesa nello spazio vuoto alle sue spalle come se il collo del neonato fosse rotto, e lei lì a tenere il bicchiere di plastica in cui raccoglieva l’elemosina… E se in qualche modo tu fossi riuscito a superare lei, o perché la macchina che ti precedeva si era arresa oppure per qualche altro motivo imperscrutabile, come per esempio il fatto che la Rosa dei Venti è vuota al centro dei suoi petali, avresti dovuto affrontare l’uomo che vendeva i gabbiani finti, l’uomo che vendeva le t-shirt con il marchio della Corona (e i passeggeri delle altre automobili si ritraevano dai suoi sorrisi); e se fossi riuscito arrancando a superare loro finché non avessi scorto in lontananza le luci lampeggianti del confine, allora avresti incontrato le ragazze indie che vendevano braccialetti colorati, gli uomini grossi che portavano enormi cesti di roba da vendere mentre gli altri venditori incrociavano le gambe dietro di loro, e tutti non aspettavano altro che trascinarti in un’accozzaglia di finti elefanti e finti cavalli, tovaglie di pizzo bianco e valigie, un hamburger di ceramica a quattro strati, pepe di ceramica, corone d’aglio di ceramica in cui forse ti saresti perso per sempre, tremando e asciugandoti il sudore dalla fronte mentre gli uomini ti cantavano serenate nella speranza di scroccarti dei soldi, mentre uomini camminavano avanti e indietro lungo le code immobili del traffico con chitarre in vendita buttate sopra la spalla come frutti; mentre uomini dispiegavano sottili tovaglie di pizzo come ali davanti ai tuoi occhi; mentre uomini tentavano di venderti coprisedili che somigliavano a biscotti giganti; e tutti i venditori annuivano e si salutavano l’un l’altro e si chiamavano l’un l’altro a gran voce mentre gli americani in macchina parlavano senza volume, sigillati nei loro mondi di vetro; donne ti avrebbero offerto bouquet di rose; una minuscola ragazza india, vestita molto bene, avrebbe tentato di venderti fiale di caglio di latte e quando tu le avessi risposto di no te ne avrebbe scossa una addosso. — Oh, eri comunque già smarrito da molto tempo! — Devo ammettere che il confine si stava avvicinando sempre più; ora potevi sentire il rombo degli elicotteri che se ne stavano sospesi sopra la recinzione per tenere i messicani al loro posto; a volte i loro fari scintillavano sulle carrozzerie smangiate delle auto abbandonate nella Terra di Nessuno; e ora potevi leggere l’insegna bianca e scintillante che diceva APERTA/ABIERTA e i vetri scuri degli uffici al secondo piano, più avanti, guardavano giù verso il Messico. Uomini tentavano di venderti torte nuziali di plastica, coperte, pupazzi imbottiti di gommapiuma, carte da gioco con figure erotiche come quelle di Painter Ben; e attraverso l’orgia delle luci rosse degli stop davanti a te potevi vedere gli schermi azzurrognoli dei computer al secondo piano della stazione doganale di confine, e ogni auto era soffusa dalla nebbia giallastra provocata dagli stop della macchina che la precedeva, ma tu non saresti mai arrivato al confine, e se ci fossi riuscito gli americani non ti avrebbero lasciato passare, e se l’avessero fatto saresti rimasto intrappolato per sempre nel traffico a Anaheim; e se questo non fosse accaduto, allora, come ho detto, San Francisco sarebbe comunque diventata diversa nel frattempo.

Vollmann, William T.
Tredici storie, tredici epitaffi
Fanucci, 2004