da Progetto Memoria A. II n. 3, primavera 1989

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Dunque ce lo eravamo sognato. Nella “lotta al terrorismo” che seguì gli anni ’70 non vi fu alcuna legislazione “d’emergenza”, non vi furono processi sommari, non vi fu repressione. Ce lo spiegano con abbondanza di parole e risparmio di fatti gli innumerevoli commentatori (anche stranieri, ma soprattutto italiani) che per fare emergere Cesare Battisti come mostro, cancellano tutto ciò che gli stava attorno.
Wu Ming 1 ha già dimostrato, in un editoriale fitto di dati incontrovertibili, quanto ciò sia menzognero. Ora ripubblichiamo un articolo che cerca di delineare il quadro globale che accompagnò la repressione, nel passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80.

Gli anni Settanta si chiudono con migliaia di arresti, decine di migliaia di denunce, sequestri di periodici, incriminazioni di avvocati, giornalisti, docenti universitari, intellettuali. E’ la grande stagione della caccia al “fiancheggiatore”. In realtà, che nel mirino del potere non vi siano solo i gruppi armati e i loro simpatizzanti, ma l’intera sinistra rivoluzionaria italiana, da cancellare una volta per tutte, è dimostrato dal numero degli incriminati: oltre 40.000, un numero di gran lunga eccedente quello degli appartenenti all’area della lotta armata.


E’ questo della repressione uno di quei casi in cui l’aneddotica aiuta a comprendere la fase storica meglio di qualsiasi statistica o ricostruzione neutra. Viene arrestato un giovane che, in una pizzeria, ha scarabocchiato una stella a cinque punte su un tovagliolino di carta; negli scrutini elettorali si vagliano gli iscritti alle sezioni in cui le schede sono state annullate con scritte eterodosse, fino a individuare e arrestare i presunti colpevoli; a un docente universitario, Enzo Collotti, i carabinieri mettono a soqquadro la casa e sequestrano l’archivio di schede relative alle sue ricerche, riguardanti in prevalenza la storia del nazismo; la partecipazione ai funerali di una compagna caduta in uno scontro a fuoco, magari persa di vista da anni, diventa capo d’accusa e pretesto per alcuni fermi; una vecchietta ottantenne finisce dietro le sbarre per collusione con le BR (morirà subito dopo il rilascio); si sequestra persino il gioco di società “Corteo”, tanto pericoloso che pochi mesi dopo sarà rilevato dalla Mondadori; e così via. Si potrebbe continuare per pagine e pagine a elencare episodi all’apparenza folli o grotteschi, ma in realtà coerentissimi con il progetto di giungere a una “soluzione finale” del problema dell’esistenza di una sinistra rivoluzionaria in Italia.
Episodio saliente di questa sistematica campagna di eliminazione è il caso “7 aprile”. D’un colpo solo si cerca di decapitare (riuscendovi in gran parte) la sinistra di classe italiana non sotto il profilo organizzativo, col quale gli arrestati hanno poco a che vedere, ma sotto il profilo intellettuale, criminalizzando e togliendo dalla circolazione gli studiosi che più si sono adoperati per la precisazione delle tesi dell’estrema sinistra e per conferire a quest’ultima dignità culturale; e dal momento che non si sa bene di che accusarli (i verbali d’interrogatorio dimostrano con chiarezza che magistrati e testi a carico non riescono a capire né le idee, né il linguaggio degli arrestati) si modifica più volte il capo d’imputazione cercandone uno adeguato, per poi finire col ricorrere ai “pentiti” quale unica via per uscire dal vicolo cieco. Proprio il “caso 7 aprile”, e la pletora di “casi” paralleli che gli fanno ala colpendo centinaia e centinaia di militanti, rivelano l’identità di un inedito co-regista dell’ondata repressiva: il PCI. Nell’area di quel partito si collocano i principali magistrati impegnati nella caccia alle streghe; a quel partito appartengono i testimoni a carico; attorno a quel partito gravitano molti dei docenti impegnati a denunciare i loro stessi colleghi.
La guerra contro l’estrema sinistra, una guerra di sterminio in cui ogni colpo è lecito, viene condotta dai vari Pecchioli e Cossutta (autore a suo tempo del motto “i gruppuscoli sono pidocchi nella criniera di un cavallo di razza”) con una spregiudicatezza che varca i confini della denigrazione, per approdare a quelli della delazione. Le sezioni del PCI si fanno carico della sorveglianza sui presunti fiancheggiatori, passano liste di nominativi alle forze dell’ordine, distribuiscono questionari formulati come vere e proprie professioni di fede, tali da rendere automaticamente sospetto chi non risponde a tono, o non risponde affatto. L’apparato inquisitorio statale ha così la copertura a sinistra che gli è indispensabile per attuare liberamente il giro di vite. Non ci dilungheremo sugli aspetti fenomenologici della repressione, premendoci piuttosto vederne gli effetti. Per comprenderli a fondo occorre tenere presente che la sinistra di classe italiana non aveva mai avuto la struttura e la compattezza di un partito, salvo che in specifici spezzoni, ma si era sempre presentata nelle forme di un movimento, con tutti i pregi e i limiti di una tale configurazione. Ciò significa, anzitutto, che ruolo preponderante al suo interno aveva giocato, più che la compagine dei militanti “duri” e convinti, la fascia enorme dei simpatizzanti (chiamati “cani sciolti”) che si accostavano ad essa con un grado variabile di convinzione e con un’adesione che poteva rivolgersi non all’assieme delle sue tematiche, ma a questo o quell’aspetto delle stesse, o anche solo a quel clima – umano, culturale, giovanilistico, ecc. – che si respirava al suo interno o ai suoi margini.
E’ proprio la fascia dei “cani sciolti” a essere la più colpita dall’ondata repressiva, che pure materialmente si abbatté in primo luogo sui “militanti”. D’improvviso attaccare un manifesto può implicare un fermo, distribuire un volantino può significare un arresto, frequentare o aver frequentato certi ambienti può costare anni di prigione; e così collaborare a radio private, partecipare a una manifestazione, scrivere un trafiletto, esprimere un parere nel luogo sbagliato, tenere in casa un’arma giocattolo, avere certi indirizzi in agenda. Cui vanno aggiunte forme repressive apparentemente “minori” come le perquisizioni, divenute prassi costante con precipui fini di deterrenza, che specie per soggetti giovani possono comportare crisi con i familiari, discredito presso i vicini, impossibilità di tenere diari o indirizzari, stati di costante tensione.
E’ logico che il timore si diffonda, che molti preferiscano rifluire nel privato in attesa che l’uragano passi, che la fascia dei “cani sciolti” si assottigli di mese in mese, esponendo chi non cede ad una repressione ancora più acuta; mentre parallelamente prende piede una cultura del sospetto e della diffidenza che è letale per le forme di socialità che il movimento era riuscito a instaurare, e che costituivano una componente fondamentale del suo potere di attrattiva. Comportandosi in tal maniera, lo Stato esercita semplicemente il proprio mestiere di macchina repressiva al servizio di una classe; ma molte delle “libertà democratiche” che vengono così ibernate, pur non eccedendo il perimetro di una società borghese, erano state conquistate dal proletariato italiano in decenni di lotte durissime. Accettando la loro svendita e cooperando all’azione repressiva statale, il PCI svende dunque la parte più nobile del proprio patrimonio. Credendo di uccidere la sinistra rivoluzionaria e così legittimarsi agli occhi della classe media, la sinistra istituzionale in realtà uccide anche se stessa, perché è l’idea stessa di “sinistra” ad essere colpita.

La ristrutturazione
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La ristrutturazione economica che fa da sfondo all’isteria repressiva richiederebbe una trattazione non esauribile in poche righe. La complementarità dei due fenomeni è comunque abbastanza evidente. Anche se alla fine degli anni Settanta la composizione sociale della sinistra di classe si presenta composita, si tratta pur sempre di un movimento che ha avuto le proprie origini nelle fabbriche, e a cui le fabbriche continuano a fornire buona parte dei militanti più decisi e preparati. Ora, l’azione repressiva di tipo poliziesco, se si esercita in ogni campo, risulta più efficace nei confronti dei soggetti radicati prevalentemente nel sociale, e cioè delle componenti studentesche, giovanili e marginali estranee alla produzione, la cui moltiplicazione territoriale è assicurata da meccanismi che vanno oltre il rapporto produttivo diretto, investendo un ventaglio di fattori culturali, comportamentali o ambientali. E’ invece il rapporto produttivo immediato che deve essere incrinato, se si vuole impedire la riproduzione di quei segmenti di classe operaia che assicurano al movimento antagonista, se non il suo profilo globale, la sua continuità.
Gli anni Ottanta vedono affiancarsi al decentramento produttivo interno e al lavoro nero e precario, tipici meccanismi di recupero del profitto del decennio precedente, un intensificato decentramento produttivo internazionale, accompagnato dall’introduzione massiccia di innovazioni tecnologiche tali da ridurre drasticamente non solo l’entità numerica, ma il peso della forza-lavoro. Si diffonde non tanto e non solo la disoccupazione, quanto piuttosto la minaccia della di: sottoccupazione; nel senso che il capitale, cui è come non mai legittimo attribuire un profilo omogeneo, si dota di strumenti tali da far capire agli operai che può in qualsiasi momento prescindere dalla loro presenza attiva nel processo produttivo, sostituibile o con l’apporto lavorativo a basso costo dei reparti.decentrati al Terzo Mondo, sede delle tecnologie mature tuttora indispensabili, o con la pura e semplice automazione, capace di assorbire le produzioni ad alto tasso tecnologico.
Se il livello d’inflazione è talora termometro indiretto della forza operaia, come taluni non a torto sostenevano in un recente passato, il suo progressivo abbassamento nel corso degli anni Ottanta, indice di una flessione della domanda, segna la drastica emorragia contrattuale della forza-lavoro della grande industria, ricattata dallo spauracchio di un’esclusione dalla produzione e compressa dall’emergere di un esercito di quadri, di tecnici e di figure intermedie di cui una situazione di tecnologia avanzata esalta la funzione. .
Tutte le conquiste operaie ottenute a partire dall’ “autunno caldo” vengono vanificate nel giro di pochi anni: nelle fabbriche ritorna la legittimità di licenziare al minimo pretesto, viene reintrodotta la più ampia mobilità, cala una cappa di disciplina militaresca, sono sfrontatamente lesi i più elementari diritti sindacali; infine, a coronamento del quadro, viene prima ridimensionata e poi liquidata la scala mobile, ultima e quasi simbolica barriera alla recuperata onnipotenza padronale.
Ancora una volta, l’operazione di sterminio delle avanguardie può contare su un complice occulto (ma non poi tanto): il sindacato. La rivincita del capitale non avrebbe potuto aver luogo
se, con l’adozione della cosiddetta “linea dell’EUR”, il. sindacato non si fosse fatto carico di un
contenimento della conflittualità entro limiti compatibili con un recupero di forze da parte del
padronato, e ciò in cambio di un’illusoria cogestione dell’economia e di un’altrettanto illusoria
prospettiva di benessere generalizzato in presenza di alti livelli di profitto (la più vecchia e scontata delle bugie del liberalismo).
L’acquiescenza al licenziamento di 61 avanguardie di lotta della FIAT, in anni in cui è ancora possibile contrastare operazioni del genere, è l’inizio di una catena di cedimenti, dapprima volontari, e poi sempre più spesso obbligati via via che il padronato recupera, col consenso sindacale, quella forza che nel corso degli anni Settanta sembrava definitivamente incrinata. Anche in questo caso la sinistra si suicida, credendo così di acquisire legittimazione e di avere accesso a una porzione di potere. Quando il sindacato si accorge (solo parzialmente) dell’errore commesso è troppo tardi: il padronato ha ripreso completamente il controllo della fabbrica, la classe operaia sta disperdendosi nel settore dei servizi dequalificati e mal retribuiti, lasciando dietro di sé nuclei indeboliti e grati del salario irrisorio che viene loro elargito, e i pensionati sono gli unici soggetti che le organizzazioni sindacali possono ormai mobilitare. Si scorge in tutto ciò il vecchio errore di fondo della sinistra istituzionale: la convinzione che il capitale sia incapace di pianificazione, e possa superare le proprie crisi solo con l’ausilio del movimento operaio, il quale ultimo è così legittimato a ottenere in cambio fette di potere. Illusione che l’estrema sinistra aveva sempre contestato sostenendo l’esatto opposto, e cioè che il capitale odierno è anzitutto capacità di previsione e di programmazione, e che compito primario delle forze antagoniste è bloccare questa sua funzione vitale.
Incapace di comprendere questa verità elementare e prigioniero del dogma riformista, il sindacato consegna se stesso e la classe operaia a una ristrutturazione da tempo pianificata per cancellare dalla scena italiana entrambi i soggetti. Mentre la sinistra rivoluzionaria, decimata e braccata, non ha più voce nemmeno per gridare un platonico “Ve l’avevamo detto”.

Le culture sociali

Se eliminare fisicamente un protagonista sociale è relativamente facile, meno facile è cancellare persino il ricordo delle sue idee, in modo che non abbiano più a riproporsi. Se il potere ha successo in questa sua operazione, tanto da creare quel salto di generazioni oggi così palpabile e quel vuoto di memoria e di cultura che rappresenta la principale caratteristica degli anni Ottanta, lo si deve sia agli effetti collaterali della ristrutturazione avviata in campo economico-sociale, sia a un progetto preciso e sapiente di riconquista del terreno culturale, sotteso da un voluto e irreversibile travaso dell’ambito sovrastrutturale in quello strutturale. Gli “effetti collaterali” di una ristrutturazione industriale tesa al risparmio di forza-lavoro sono facilmente intuibili. L’allargamento mostruoso dell’area della disoccupazione e di quella del lavoro mal retribuito, specie nel settore dei servizi minori, ha un effetto deterrente che eccede il perimetro della fabbrica per estendersi all’intera società. Se la classe operaia, svenduta dalle sue organizzazioni, è sulla difensiva e si scinde in una miriade di singoli individui disposti ad accettare qualsiasi condizione salariale e normativa pur di preservare un’occupazione decorosa, per segmenti giovanili presto destinati a divenire maggioritari l’obiettivo di un posto ben retribuito, o comunque di un posto, è tale da trasformare l’iter scolastico o l’apprendistato lavorativo in una corsa individuale, le cui regole sono l’adesione acritica ai valori dominanti e la conflittualità esasperata tra i concorrenti.
Si incrinano così, fino a crollare, le culture basate sulla solidarietà, sulla cooperazione, sull’idea elementare che ciò che non è alla portata di un singolo può ben essere alla portata di un gruppo; mentre si diffondono a macchia d’olio sottoculture aventi al centro l’idea di supremazia individuale e il disprezzo anche morale per il perdente, un tempo tipiche del solo mondo anglosassone.
Non è un caso se il “rambismo” in tutte le sue varianti, emblema di conflittualità interindividuale condotta allo spasimo, assume un posto preminente nell’immaginario collettivo, mentre la croce celtica si afferma come espressione prevalente nella simbologia giovanile, e ciò non tanto per le sue derivazioni ideologiche (l’estrema destra subisce la crisi delle ideologie al pari della sinistra), quanto piuttosto come indice di pura e semplice volontà di sopraffazione e di arrogante qualunquismo.
Va notato, a beneficio di chi persevera nell’illusione di un capitale acefalo, che gli “effetti collaterali” descritti erano stati a suo tempo previsti e teorizzati a grandi linee. Prima gli economisti monetaristi, poi i loro rozzi epigoni fautori dell’ “economia dal lato dell’offerta” (supply siders), avevano descritto gli effetti dì “stimolo” che una momentanea carenza di possibilità occupazionali avrebbe avuto sulla classe operaia, spezzandone la forza organizzata e abbassando i costi della forza-lavoro, con effetti di fluidificazione del mercato. Se la ricetta da loro proposta – consistente in una drastica riduzione dell’intervento statale e nell’abbandono delle aziende “decotte”, oltre ad azioni restrittive della massa monetaria – trova applicazione integrale solo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, buona parte dell’Occidente ne adotta brandelli o singoli aspetti, riducendo taluni benefici sociali della spesa pubblica e privatizzando quanto è possibile privatizzare.
Un’ideologia reazionaria e restauratrice induce quindi a scompaginare, con una gamma di strumenti che vanno dall’automazione alla privatizzazione selvaggia, le file della classe operaia; e l’erosione di quest’ultima conduce alla diffusione di un’ideologia restauratrice e reazionaria nell’intero corpo sociale, con effetti di progressivo imbarbarimento civile.
Da ciò emerge che buona parte dei tristi connotati degli anni Ottanta in Italia non sono riconducibili alle sole peculiarità nazionali, ma si ricollegano agli inizi e agli sviluppi della cosiddetta “era Reagan”, che segna l’apertura di una fase storica contrassegnata dalla generalizzazione delle culture asociali, militaristiche e competitive, sintomo, causa ed effetto dello smembramento delle forze antagoniste.

L’industria culturale.

L’offensiva culturale scatenata dal potere non è però limitata agli esiti indiretti delle scelte di ristrutturazione, e nemmeno affidata al solo propagarsi del reaganismo. Accanto a queste direttrici maggiori, che conferiscono agli anni Ottanta le loro caratteristiche salienti, si hanno forme di intervento diretto nel terreno culturale indirizzate a una normalizzazione del tutto complementare alla repressione in atto. Che tutto ciò risponda ad un preciso progetto non è considerazione suggerita da elucubrazioni dietrologiche alla Pendolo di Foucault (titolo che citiamo non a caso, ma quale estremo prodotto degli anni del riflusso), bensì constatazione che scaturisce dalla semplice analisi dei fatti.
Sostanzialmente, l’opera di restaurazione culturale agisce secondo sette linee prevalenti, così riassumibili: a) demonizzazione delle culture antagoniste; b) imposizione di un punto di vista ideologico presentato quale anti-ideologia; e) educazione all’accettazione acritica dell’innovazione tecnologica; d) selezione del ceto intellettuale; e) corruzione del ceto intellettuale preesistente; f) demolizione e successiva sussunzione in forme alterate di aspetti della cultura di sinistra; g) censura diretta. Tutte le linee di tendenza citate operano simultaneamente. E’ solo per comodità, e per ragioni di chiarezza, che le esamineremo brevemente una ad una.
a) La prima operazione ad essere attuata dal potere – prima non in ordine cronologico, ma in
ordine di priorità – è la demonizzazione delle culture a esso avverse. Il pretesto è il terrorismo, particolarmente comodo perché permette in qualsiasi momento uno scivolamento dal terreno della discussione alla sfera giudiziaria.
Elevata la lotta al terrorismo a massima emergenza nazionale, si cerca di criminalizzare, agli occhi dell’opinione pubblica, non solo le tesi cui i fautori della lotta armata si ispirano, ma tutti i filoni teorici che, prevedendo un’acuta contrapposizione tra le classi, con quelle tesi presentano una seppur minima attinenza. Prima a essere colpita, in questo caso senza discussione alcuna, è come si è già visto l’area intellettuale vicina all’autonomia operaia, di cui si ottiene il silenzio arrestandone o costringendone all’esilio i più noti esponenti. Ma non è che l’inizio. Dopo l’autonomia e i suoi “cattivi maestri”‘, l’atto di accusa del sistema e dei suoi strumenti di comunicazione si estende a tutte le forme di cultura antagonista degli anni Settanta, presentate come matrici di violenza e di indiscriminati spargimenti di sangue. Sul banco degli imputati, in questo caso metaforico, finiscono non solo gli scontri di piazza del passato decennio, ma persine le battaglie sindacali di quel periodo (ora definite “estremistiche”) o la politica allora condotta dai partiti di sinistra.
Parallelamente, le esperienze dei paesi a “socialismo reale” (con cui la sinistra rivoluzionarla italiana ha poco a che vedere, essendo sempre stata duramente critica nei loro riguardi), vengono deformate fino a metterne in rilievo i soli aspetti negativi, indicati quale necessario portato di ogni concezione egualitaria. L’operazione viene poi dilatata fino a includere il concetto stesso di rivoluzione, presentato quale aberrazione storica che, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi latitudine, produce solo oceani di sangue.
Infine è la nozione di “ideologia” (usata contro il marxismo, che pure rifiuta simile definizione) a cadere nelle grinfie degli inquisitori. Chiunque indaghi sotto la superficie delle cose, o cerchi razionalità che non coincidono con l’apparente, viene collocato di peso nel campo di coloro che propugnano il terrorismo, la divisione in classi e il “socialismo reale”, e dunque nel girone degli omicidi potenziali.
Una generazione viene così ossessivamente addestrata ad associare sangue e cambiamento, sangue e riflessione, sangue e capacità d’indagine, sangue e ribellione.
b) Si è già detto che la repressione culturale sfocia nella messa sotto accusa del concetto stesso di “ideologia”, intendendo ambiguamente con l’espressione qualsiasi corpo dottrinario o sistema interpretativo non teso a legittimare l’esistente. In cambio viene proposta una presunta anti-ideologia, in realtà più ideologica che mai, che esclude ogni suggestione utopica riconoscendo solo la dimensione del quotidiano, e identifica il progresso con la soluzione dei problemi spiccioli che non escono dal quadro socio-istituzionale dato.
E’ una sorta di No future padronale, in cui la morale oscilla tra il cinismo e l’innocua carità di matrice cristiana, la politica tra il disimpegno, il partitismo più bieco e l’impegno su temi parziali e circoscritti, la cultura tra la pura evasione e l’attenzione a una forma che non racchiude alcuna sostanza. Il vero intellettuale, il “buon maestro”, in simile contesto, diviene il giornalista più o meno sponsorizzato, detentore della sola chiave interpretativa della realtà ritenuta valida: il “buon senso” dei tempi andati, riproposto quale massima espressione di modernità. Descrivere e non interpretare è la direttiva primaria imposta a chi deve orientare una società chiamata ad accettare e non discutere.
e) Proprio la funzione del giornalista gioca un ruolo cruciale nell’introdurre in maniera indolore innovazioni tecnologiche capaci di produrre contraccolpi sociali dal costo umano altissimo. In nessun paese come in Italia le tecnologie fondate sull’automazione e l’informatizzazione vengono accolte da un tale coro di osanna da far pensare all’avvento di un nuovo Rinascimento. Giornalisti come Giorgio Bocca alternano invettive contro le situazioni di lavoro in cui la classe operaia cerca di difendere conquiste quasi secolari (vedi il porto di Genova) a entusiastici reportages su fabbriche azionate da un solo operaio, su computer in grado di sostituire interi uffici, su minuscole officine capaci di produrre quasi quanto la FIAT. E’ un delirio di felicità, un’infatuazione collettiva, un’esplosione di giubilo che travolge l’obsoleta preoccupazione di chi si chiede che fine possa fare la manodopera sostituita, e come mai un progresso tecnologico che potrebbe operare a beneficio dell’intera collettività incrementi invece i profitti di alcuni e la povertà di molti.
[…]
d) Per modificare la mentalità collettiva non basta però operare a basso livello: occorre selezionare un corpo intellettuale che legittimi ai livelli più alti l’operazione, sostenendola col peso del proprio prestigio e indicando i futuri campi cui può essere estesa. Tralasciando il già citato settore giornalistico, terreno privilegiato su cui incidere è l’Università, sia perché in Italia sembra non darsi cultura fuori dell’Università, sia perché proprio in essa, nel corso degli anni Settanta, si erano manifestati alcuni dei fermenti che nel decennio successivo si intende spegnere a ogni costo.
Trascorsa la fase della repressione brutale e diretta, i cui risultati sono solo parziali, il potere sceglie la via della sottigliezza. Intanto, come ha acutamente rilevato Sergio Bologna, copre di denaro il corpo docente facendone un nucleo di vestali cariche di privilegi cui si accede attraverso concorsi apertamente truccati (e dunque per cooptazione, in modo che l’élite riproduca eternamente se stessa). Inoltre, seguendo un progetto che viene via via precisandosi, sì punta a privilegiare una concezione utilitaristica del sapere, ponendo al centro della funzione universitaria le facoltà nelle quali più facile è l’aggancio con l’industria privata (umanistiche o scientifiche che siano) e che dunque possano divenire culla di quella “cultura d’impresa” di cui tutti parlano senza saperne precisare i tratti.
Il progetto, che ha il suo coronamento chiassoso e volgare nella concessione di lauree ad honorem a industriali e finanzieri colti quanto delle zucche, è analogo a quello che in Francia e altrove ha abbassato il livello degli studi universitari al disastroso standard statunitense; ma mentre in quei paesi non mancano autorevoli voci di protesta, il ben ammaestrato corpo accademico italiano fa a gara per inchinarsi allo strozzino di turno coronato d’alloro, chiamandolo a tenere conferenze e cicli di lezioni e ascoltando devotamente, nelle aule magne, la parola e le reprimende della Confindustria.
Tutto ciò non è privo di riflessi sul piano strettamente scientifico. Nelle facoltà di Economia e Commercio persino Keynes viene espulso a calci, mentre due terzi delle lezioni riguardano il tran tran quotidiano dell’azienda di papà, altrimenti detto marginalismo; le filosofie della “crisi della ragione” e poi del “pensiero debole” si impongono anche ai non specialisti come il tema del momento […] e così via. Non c’è praticamente campo del sapere che non venga inquinato dalla furia restauratrice spacciata per anti-ideologia; e il corpo docente viene premiato non solo con le ricompense materiali cui si accennava, ma anche con un accesso ai mezzi di divulgazione un tempo riservato a pochissimi eletti.
e) Oltre a selezionare un corpo intellettuale funzionale alla restaurazione, il potere fa largo uso dell’arma del “pentitismo”, e cioè di una forma di corruzione mascherata. Le pagine dei giornali, gli schermi televisivi, le vetrine delle librerie si affollano di reduci del ’68 e degli anni successivi (più di rado del ’77: il ’77 non è facilmente riciclabile) che si affannano a spiegare quanto ha sbagliato la sinistra, estrema e non, e quanto invece è bello l’attuale stato di cose, che solo un pazzo potrebbe pensare di modificare al di fuori dei limiti consentiti dal sistema stesso. Il tutto spacciato come esempio di grande libertà intellettuale, allorché costituisce solo un adeguamento alla moda e a quanto il padrone richiede.
E’ una parata indecorosa di squilibrati, di opportunisti, di professionisti dell’abiura, di logorroici, assoldati per essere esposti in vetrina a condannare le generazioni passate e ad ammonire quelle future, cantando le virtù del profitto e condannando tutte le rivoluzioni, da quella francese in poi. In cambio viene concesso loro di uscire dal silenzio (la cosa che più temono) e di diventare titolari di rubriche, editorialisti, docenti, saggisti acclamati, consiglieri politici.
Chi gestisce l’operazione è in primo luogo il PSI, che arruola in massa simili personaggi e finanzia il passaggio da “Lotta Continua” (quotidiano) a “LC”, poi divenuto “Reporter”, vero e proprio portavoce ufficiale del riflusso; ma anche radicali e verdi fanno la loro parte. Caratteristica di questi soggetti è accusare i propri ex compagni, che di sicuro hanno meno responsabilità di loro, infierendo contro di essi proprio nel momento in cui non c’è organo dello Stato che non infierisca a sua volta. Salvo talora, come nel “caso Sofri”, divenire vittime inattuali di settori particolarmente reazionari della magistratura, e allora guardare il padrone con gli occhi del cane che non capisce perché lo si prenda a calci, lui che è tanto buono e ubbidiente.
f) Tipico di un sistema repressivo “intelligente”, e cioè non guidato dalla sola istintualità, è assorbire deformandoli aspetti della cultura che sta distruggendo. […] Ci limitiamo a ricordare come le radio libere (allora così chiamate con cognizione di causa) e gli stessi videotapes iniziassero ad essere diffusi in Italia per iniziativa della sinistra di classe, quali esempi di comunicazione antagonista, precorsi e divulgati da teorici dell’uso alternativo dei media come Roberto Faenza e Pio Baldelli.
Con gli anni Ottanta non solo Berlusconi e soci si appropriano di quegli strumenti, ma assumono personaggi particolarmente creativi nel decennio precedente, inserendoli nelle proprie reti di comunicazione. L’ironia, l’amore per il paradosso, il peculiare umorismo proprio del movimento nel suo lato “esistenziale”, vengono così travasati in trasmissioni e spettacoli all’insegna del qualunquismo e del disimpegno (vedi “Drive In”) e trasformati, da veicolo di critica, in strumenti di pura evasione del tutto organici alle forme in cui si stanno rimodellando la società e la mentalità collettiva.
g) Da ultimo (ma non in senso cronologico) si integrano i metodi più complessi di riconquista dello spazio della cultura e della comunicazione con la censura diretta. Mentre tutti i maggiori organi di stampa, con l’avvio degli anni Ottanta, tacciono sistematicamente sulle lotte e le manifestazioni che hanno a protagonista la sinistra rivoluzionaria (salvo che in caso di scontri), vengono boicottati ed emarginati libri e pubblicazioni che ad essa fanno riferimento. E’ il caso, per fare un esempio, dei romanzi di Nanni Balestrini, che per quante copie vendano non ottengono alcuna recensione. Ma se Balestrini riesce bene o male a farsi pubblicare, altri autori urtano contro il muro di case editrici convertitesi a una produzione innocua prima ancora che
il mercato lo imponesse (Feltrinelli, Mazzotta, ecc.).
[…]
Come si dovrebbe aver compreso, ben pochi dei punti da noi elencati possono essere attribuìti al caso o all’iniziativa di singoli. Si tratta invece di misure adottate in forma coordinata e simultanea in tutti i settori della cultura, di cui per la prima volta il capitale coglie a fondo l’importanza strutturale ai fini della difesa del sistema e dunque dell’estrazione del profitto. L’industria culturale si sviluppa enormemente, assorbendo una massa abnorme di operatori e divenendo uno degli assi strategici dell’intero decennio. Il tempo libero accresciuto dall’automazione non ha quindi modo di favorire atteggiamenti “sovversivi” (minaccia per il capitale già adombrata da Marx nei Grundrisse), dal momento che viene completamente invaso dagli strumenti di condizionamento allestiti dal potere.