monicaali.jpgmonicaalibl.jpgA beneficio dei (parecchi) operatori editoriali che seguono Carmilla, segnaliamo un esordio letterario davvero significativo, nell’ammasso caciarone degli esordi letterari che, in tutto il pianeta, danno l’idea che chi si occupa di narrativa sia un entomologo perplesso che osserva una miriade di larve in un termitaio. Monica Ali, ancora inedita, era stata segnalata dalla prestigiosa rivista Granta quale grande promessa della letteratura inglese. Per essere onesti, la promessa l’ha già mantenuta. Il suo primo romanzo, Brick Lane (Doubleday, 12.99 sterline), è bellissimo: personaggi strutturati, psicologie approfondite, una trama avvincente, la storia di una comunità che conquista emotivamente e conoscitivamente, uno spessore filosofico raro al giorno d’oggi. Ed è divertente, Brick Lane – senza risultare irritante perché non è soltanto il divertimento a fare di questo romanzo uno degli esordi più interessanti in questa stagione di afasia emotiva (l’espressione è di Helena Janeczeck…). Infatti Monica Ali non è la nuova Zadie Smith.

Qualche accenno di trama giova sempre. Nazneen viene spedita dal Bangladesh in Inghilterra, scopo matrimonio con Chanu, disponendo di un bagaglio lessicale che consta di due espressioni solamente: “grazie” e “scusa”. Monica Ali riesce a rendere a tutto tondo i personaggi di Nazneen e di Chanu: lei è una donna mandata allo sbaraglio nel mondo, sensibilissima e intelligente, la cui sottomissione alle regole del matrimonio tradizionale viene messa a repentaglio non soltanto dalla situazione oggettiva, ma anche dal suo istinto sottilmente eversivo rispetto a ciò che il mondo – il suo mondo di provenienza – dà per scontato; Chanu è un personaggio cialtronesco, sfigato, energico e irresistibilmente comico.
Intorno ai due protagonisti si muove un universo etnico scoppiettante, che Monica Ali governa con demiurgica levità e con irreprensibile verve umoristica: sorelle, figli, candidati amanti, incarnazioni di pregressi debiti esistenziali. A sconvolgere un mazzo di carte già tanto anarchicamente distribuite sul tavolo, c’è la tragedia. La morte di un figlio, un rapimento, la prostituzione forzata, la droga: questo è un romanzo che non emenda dal suo corpo la metà oscura del mondo. E tuttavia l’approccio alla tragedia – significatamente di segno femminile – è intriso di una speranza tale e di una così intensa vivacità che, come accade quasi sempre nella buona letteratura, il pendolamento tra l’oscurità e la spinta vitale raggiunge un equilibrio che incanta e che trascina secondo i ritmi forsennati della lettura vorace. Perfino l’imminenza di un repentino ritorno nel Bangladesh viene sottratta alle spire dello psicologismo sfigato e deteriore, tipico dei racconti di emigrazione in salsa postcoloniale.
Nulla viene risolto, al termine. Potrebbe esserci una continuazione. Senza malizia o furbizia da parte di Monica Ali, però: l’autrice non cerca alcuna serialità. Il suo Mulino del Gange convince e convincerà anche se questa dovrebbe dimostrarsi soltanto la prima puntata di una saga multifamiliare.