kissingerhitchens.jpgdi Giuseppe Genna

kissingerusa.jpgE’ finalmente uscito in Italia, a più di due anni dalla sua pubblicazione, The Trial of Henry Kissinger di Christopher Hitchens (il titolo italiano è Il processo Kissinger, Fazi editore, 12 euro). Christopher Hitchens, giornalista di The Nation, è una persona eccezionale e il suo è un libro eccezionale che, nel momento in cui si impone una letteratura civile di estensione planetaria, diventa velocemente un testo-archetipo: la dimostrazione che la controcultura è la cultura e che è in grado di fare male. Fare male a chi? Al Potere. Fare male come? Denunciando. Denunciare il Potere, le sue perversioni assassine, i suoi tecnicismi raggelanti, le sue storture etiche, i massacri che provoca con indiscriminata liberalità, la carne dei molti e dei poveri di cui si nutre spargendone il sangue ovunque sul globo: questa è l’opera necessaria che Hitchens assolve, rischiando di suo concretamente (Kissinger ha commentato in maniera raggelante il libro: “Lo trovo trascurabile”). Non intendo, tuttavia, recensire Il processo Kissinger: la recensione, nel nostro complesso presente, mi pare un genere critico morto o mortuario. Intendo lanciare, invece, dalla prospettiva di Hitchens, un appello ai narratori: prendiamo il testimone dalla saggistica di impatto civile, intercettiamo i nuclei fondanti della nuova sconfinata comunità che emerge – e raccontiamoli.

C’è, tra le molte che mi hanno colpito, una frase assai emblematica che Wu Ming 4 pronuncia nell’intervista su Mitopoiesi e azione politica che abbiamo pubblicato su Carmilla qualche giorno addietro: “La domanda quindi è questa: come è possibile impedire che i miti si cristallizzino, si alienino dalla comunità che li vuole usare per raccontare la propria lotta di trasformazione del mondo, ritorcendosi contro la comunità stessa? La nostra risposta (e non può che essere una risposta parziale, per non ricadere nell’errore assolutistico di cui sopra) è: raccontando storie. Non bisogna mai smettere di raccontare storie del passato, del presente o del futuro, che mantengano in movimento la comunità, che le restituiscano costantemente il senso della propria esistenza e della propria lotta. Storie che non siano mai le stesse, che rappresentino snodi di un cammino articolato attraverso lo spazio e il tempo, che diventino piste percorribili. Quello che ci serve è una mitologia aperta e nomadica, in cui l’eroe eponimo è l’infinita moltitudine di esseri viventi che ha lottato e che lotta per cambiare lo stato delle cose”. Da questa prospettiva, che a me pare imprescindibile, vorrei partire per parlare, più che del Processo Kissinger, degli usi narrativi che se ne possono fare. Sia chiaro: la proposta non intende esprimere alcun imperativo categorico. Intendo soltanto evocare alcune possibilità che già oggi la letteratura sta esprimendo e leggerle soltanto nella prospettiva di una costruzione narrativa del mito del tutto particolare: la mitologia narrativa del Male.
kissingermassone.jpgWu Ming 4 risponde a una domanda sulla categoria “eroica” nel mito: e lo fa richiamando il necessario corollario epico che sostanzia ogni mitologia letteraria. Questa vecchia lezione di ogni scrittura (sia sacra sia laica) rende implicito ciò che lo è in massimo grado: il Male è sempre occulto, secondo differenti inclinazioni e strategie che utilizzano anche l’opposto dell’occultamento. Mentre l’attenzione è, come ovvio, sul popolo che varca il deserto quale network eroico – questa, in ultima analisi, la sostanza più che la struttura del mito epico -, è ogni volta difficile individuare le forme con cui qualcosa si oppone all’attraversata del deserto del reale. Si tratta dello stesso deserto? E’ il faraone che bandisce e insegue? Oppure sarà il limite estremo del deserto medesimo, la sua inarrivabilità? In parole povere: chi è il Nemico? E’ interiore? E’ esteriore? E’ davvero il Nemico? Esiste?
Certo, si tratta della sponda paranoide di una lettura dell’epica. Paranoide in quanto primaria, però: a qualcuno tocca sempre fare il lavoro sporco e, in pieno deserto, mettere le mani nel fango. A qualcuno tocca iniziare la lunga catena della favola che esorcizza il Male.
kissingerpinochet.jpgIl Male è storia. Non esiste nulla al di fuori della storia. Non esiste nulla al di fuori dell’uomo. Il Male è sempre male: un male umano, via via riconoscibile storicamente, individuabile, additabile. La letteratura è una forma di delazione e attacco nei confronti di questo Male. Ecco dunque l’invito che formulo: individuiamo le forme storiche, oggi, del Male. Denunciamole. Facciamo ruotare le storie intorno all’emisfero oscuro. Non emendiamo a priori le nostre storie dal Male.
E’ proprio questa la nevrosi difettosa che manifesta molta letteratura contemporanea – intendiamoci: letteratura di ogni lingua, letteratura planetaria: sembra che l’esorcismo sia impossibile o soltanto immaginario. Penso all’ultimo romanzo di Zadie Smith, L’uomo autografo: è sempre una memoria borghesemente intrisa di finta collettività e ipocritamente individualista a fare le trame e a risolverle. Non intendo affermare che ogni storia debba necessariamente essere storica: allora chiediamoci però che cosa ci sia al di fuori di una storia storica, in qualche modo epica, in definitiva “mitopoietica”. Non è che la letteratura offra poi così tante soluzioni, vista l’univocità a cui tende, che è proprio la sua funzione mitopoietica. Personalmente, non ravvedo alcuna possibilità al di là della chance epica: che si declini poi in storia allegorica (per esempio: tutta la fantascienza è allegorica) o in storia stilistica (tutto il moderno borghese è stilistico) è del tutto secondario. Bisogna sempre storicizzare: Victor Hugo è moderno? – cioè: è ascrivibile a una storia di stile? No, non lo è, la sua vocazione allegorica esprime una potenza che, se non prima almeno poi, risulta epica: risulta essere l’immagine che irradia una collettività in movimento.
hyperkissinger.jpgCosa c’entra Henry Kissinger con queste considerazioni (per forza sintetiche e, quindi, magari poco chiare: me ne scuso) che pertengono a una percezione del tutto personale della letteratura? C’entra. Henry Kissinger è il Male. Qui fuoriesco dalle mie predilezioni in materia d’allegoria: dico oggettivamente che Henry Kissinger è il Male, senza tema di smentita. Quale Male? Il nostro: quello del nostro tempo, del nostro ex presente che sta per essere infranto dal movimento della collettività planetaria. Scrive Cristopher Hitchens nella prefazione all’edizione economica inglese di The Trial of Henry Kissinger: “Se c’è un uomo che riassume la storia del secondo Novecento – una storia di corruzione e malvagità -, questi è Henry Kissinger”. In quell’atto di riassumere un tempo che sta passando, io ravvedo la potenza allegorica della bambola-Kissinger. Egli è il malvagio traghettatore: quello che dà inizio alla tragedia dei desaparecidos in combutta con Guzzetti, quello che martoria il popolo cileno con un complotto appoggiato dal Vaticano e intriso di sangue sin dagli esordi, quello che apre una delle ferite più insanabili della storia contemporanea in quel di Timor Est, e quello, infine, che viene designato a gestire la pseudocommissione governativa sugli attentati dell’11 settembre prima di essere sepolto dallo scandalo del suo conflitto di interessi (sepoltura che non seppellisce nulla: Kissinger piazza un suo uomo, in questi giorni, al comando del “nuovo” Iraq, in sostituzione di Jay Garner, generale fintamente immolato al finto conflitto tra Powell e Rumsfeld). Uomo dei segreti, Kissinger non è anzitutto un uomo (è una funzione mitologica e macchinica, funestamente antiumana: la funzione di rappresentare tutta la storia del Male contro l’uomo) e non ha a che fare coi segreti, bensì col Segreto: che non è segreto per nulla, è soltanto la decisione che il Potere crede di imporre all’umanità in movimento. Egli è il cristallizzato: come ogni buona scimmia di Dio, traduce la sua ambizione di eternità in un radicamento identitario, museale, mortifero. Kissinger rappresenta il rischio collettivo a cui ogni comunità e ogni individuo si espongono continuamente: il rischio di un’identità definita, rigida, anchilosata, creduta vera in quanto stabile, priva della paura e del desiderio che sono le forze motrici dell’umanità.
hyperkissinger2.jpgHenry Kissinger è questo Male storico (in quanto rappresentante della totalità dei mali storici, è il Male metafisico: ogni metafisica è soltanto umana e afferisce alla totalità delle storie dell’uomo). Henry Kissinger è potenzialmente, come Hitchens indica senza posa nel suo straordinario lavoro di denuncia, un Egisto, un Riccardo III, un Frollo, un Blicero, un Howard Hughes. E’ una sagoma vuota che perverte il vuoto, tenta di convincere che il vuoto è pieno, stabile, fermo. Converte la vita, che deve morire, in morte vivente: l’unica forma di eternità che riesce a produrre, da cattivo demiurgo qual è.
Ecco, dunque, l’appello: trasformate la controcultura in controletteratura. Usate Henry Kissinger, o chi per esso, per dare rappresentazione alla vocazione più sordida che il Potere esprime nel corso della storia umana: fermare la storia fermando l’umanità. Impedite che il serpente pronunci il suo sibilo persuasore. Dissolvete le catene che il Potere tenta di applicare con scientifica determinazione a coloro che varcano il deserto: cioè noi tutti. Raccontate storie, affinché la storia si muova. Leggete Il processo Kissinger come una didascalia piuttosto significativa del lugubre funzionamento di questa macchina antiumana che è il Potere.

PS. Premessa non dichiarata a quanto scritto qui sopra: da scrittore, io ho tentato di fare di Henry Kissinger un’allegoria del Male. Non mi pare di essere riuscito nel mio intento. Però non è nemmeno la riuscita il premio all’attività letteraria: è il processo. Che il processo di scrittura finisca per coincidere con il Processo a Henry Kissinger è poi una soddisfazione supplementare e quasi paradisiaca.
PS 2. C’è un giovane scrittore, Raul Funky Tarroni, che su Carmilla ha pubblicato un racconto che ha per protagonista il bastardo di cui sopra: Kissinger Overload.