liberazione.gifburgess.jpgdi Nico Gallo (da Liberazione)
“Nel 1945, al ritorno dal fronte, in un pub di Londra ho sentito un cockney ottantenne dire di qualcuno che era “sballato come un’arancia meccanica” (queer as a clockwork orange). L’espressione m’incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale. Per quasi vent’anni avrei voluto utilizzarla come titolo per qualche mia opera: ne ho avuto poi l’occasione quando ho concepito il progetto di scrivere un romanzo sul lavaggio del cervello.” Anthony Burgess è certamente famoso per il romanzo da cui Stanley Kubrick ha tratto la sua Arancia meccanica, quella storia violenta e sconvolgente che travolge il lettore per l’eccesso di spunti, per le troppe domande che pone.

Il giovane teppista Alex, lo ricordiamo, vive in una Londra stravolta, una metropoli che sembra collocata in un lontano futuro, ma che, allo stesso tempo, ci è troppo familiare per sembrarci davvero lontana. Il degrado urbano dilaga, le famiglie si rinchiudono in casa consolate dalla televisione, uno stato di polizia interviene solo attraverso la repressione, la classe politica è corrotta e opportunista. Per Anthony Burgess il futuro assume tutto il fascino e la potenzialità della tradizione di Aldous Huxley e di George Orwell, gli consente di flettere le proprie storie e di adattarle ai propri apologhi morali. Il futuro deforma, ingrandisce, analizza. Come l’isola di Utopia si esponeva al viaggiatore quasi attraverso una rigorosa radiografia, consentendo quello straniamento brechtiano che permette di astrarre gli elementi basilari della realtà, così una certa narrativa inglese ha dovuto collocare le proprie storie in un mondo immaginario affinché fossero sufficientemente radicali. Ne risulta una narrativa straordinaria, forte, coraggiosa, che non teme di misurarsi con la politica, la religione, la metamorfosi della vita sociale e la morale, una narrativa che, certamente, nasce dalle estrapolazioni scientifiche di Herbert George Wells, prosegue nelle visioni de Il mondo nuovo, riflette sulla complessità del totalitarismo e della propaganda come in 1984.
Pubblicato in Gran Bretagna nel 1962, Il seme inquieto (The Wanting Seed) manca dalle librerie italiane da quasi trent’anni e ora è ripubblicato con una nuova traduzione da Fanucci (pp. 298, 14,00 euro). Come altre opere di Anthony Burgess si tratta di un romanzo di fantascienza, ovvero di una storia ambientata nel futuro e in un contesto politico-sociale in cui vigono regole diverse dalle nostre, ma che potrebbero esserne una coerente evoluzione. Quella di Burgess è una visione del futuro spaventosa, paradossale, cinica. Il mondo futuro è sovrappopolato all’inverosimile, i morti immediatamente cremati per ricavarne preziosi sali minerali dalla Sezione Recupero Fosforo del Ministero dell’Agricoltura, la procreazione è scoraggiata e lo stato incentiva l’omosessualità, il cibo disponibile è ridotto a un intruglio. Come in un altro romanzo di Burgess, 1984 & 1985, questa società disperata è retta da una sorta di socing (quel Socialismo Inglese inventato da Orwell e che deriva dalla denuncia politica delle aberrazione della società stalinista). Il socing, scrive Burgess, è un’ideologia totalitaria che sostiene che “sia i dati dei sensi sia le idee sono soltanto fantasmi soggettivi”, e l’unica visione del mondo ammessa è quella del Grande Fratello. “L’individuo deve imparare ad accettare senza discutere, senza neppure esitare, la visione del partito”. La vita quotidiana sotto il potere tirannico del socing, come accade ne Il seme inquieto, è totalmente preordinata dal potere, non esiste l’autodeterminazione dei singoli o dei gruppi, non esiste vita privata, non è previsto l’esercizio dei basilari diritti democratici e politici. Solo una ristretta burocrazia detiene il potere assoluto dell’organizzazione dello Stato e di stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Se pensiamo ancora a 1984, uno degli elementi più deprimenti del libro è rendersi conto che l’opposizione al Grande Fratello altro non è che una macchinazione di agenti provocatori. Rendersi conto che l’opposizione non esiste è forse la più crudele delle rivelazioni.
Leggere Il seme inquieto pone innumerevoli domande, stimola una giustificata curiosità verso questo controverso letterato. Anthony Burgess, pseudonimo di Jack Wilson, è nato nel 1917 a Manchester. Di religione cattolica, si è laureato in letteratura e filologia, è stato pittore e musicista. Dopo aver combattuto nell’esercito per tutta la Seconda Guerra Mondiale, si è stabilito in Indocina e Borneo dove ha lavorato come insegnante. Dalle sue esperienze in Estremo Oriente nasce la Trilogia malese, un gruppo di romanzi estremamente interessanti per cogliere la crisi del modello coloniale e l’insorgere inevitabile di una nuova identità. Nel 1959 gli viene diagnosticata una malattia incurabile, e Burgess inizia a scrivere a raffica una serie di romanzi che lo farà diventare famoso come Un’arancia a orologeria, La dolce bestia, MF. La diagnosi si rivelò assolutamente sbagliata e Anthony Burgess morirà nel 1993, all’età di 76 anni. Oltre a libri di successo come La fine della storia (una divertente e problematica ucronia che ricorda certe opere di Kurt Vonnegut jr.), Gli strumenti delle tenebre, Shakespeare, Un cadavere a Deptford, L’antica lama e La vita in fiamme, Burgess è stato l’autore della sceneggiatura di Gesù di Nazareth, il film di Zeffirelli. Oltre trenta romanzi che sono capaci di disorientare il lettore, traboccanti di temi e di contraddizioni, che rendono difficile attribuirgli una precisa posizione politica e religiosa. Chi leggerà Il seme inquieto si troverà, per esempio, di fronte a tre grandi tematiche. La prima parte politica e antiutopistica che descrive il tracollo del modello liberale, l’inganno del socialismo di stato, l’incubo della guerra fredda; la seconda parte è quasi un viaggio picaresco attraverso un’Inghilterra rurale di bande cannibali, riti orgiastici, religioni perverse; la terza parte, quanto mai attuale, è completamente dedicata all’inganno della guerra.
“Il socing ha bisogno di nemici come uno schiaccianoci ha bisogno di noci”, scrive Burgess sempre in 1984 & 1985, richiamando quel paradigma orwelliano secondo il quale “la guerra è pace”. Allenatasi con la Guerra Fredda e la Caccia alle Streghe, la società occidentale ha elaborato un sistema di potere basato sull’uso politico dei media della comunicazione in cui la figura del nemico è indispensabile a mantenere lo status quo e a distrarre le popolazioni dal fallimento della politica neoliberista. Come l’inesistente Goldstein di 1984, oggi occupano l’immaginario violento e xenofobo nuovi mostri provenienti dal terzo mondo. La metafora del televisore orwelliano, utilizzato sia per trasmettere sia per osservare, è lo strumento più efficiente della psicopolizia, una struttura repressiva che non conosce confini, che ha giurisdizione fino a dentro la mente delle persone. Come notano Michael Hardt e Antonio Negri in Impero, la nuova polizia internazionale (che non usa più il termine obsoleto di guerra) si estende oltre ogni confine geografico infrangendo qualsiasi regola di sovranità, si pone al di sopra delle leggi (riconoscendo solo a se stessa il diritto di possedere armi di distruzione di massa e di utilizzarle), persegue crimini e criminali sulla base di una potenziale volontà d’infrangere leggi che non sono mai state promulgate (superando le stesse profezie di Philip K. Dick in Minority Report, dove la polizia “arresta persone che non hanno violato la legge”). Ne Il seme inquieto la guerra simulata è il meccanismo di regolamentazione della popolazione, lo sterminio di massa un programmato approvvigionamento alimentare, l’arruolamento coatto un’utile occasione per sbarazzarsi di elementi problematici e poco inclini all’obbedienza cieca. Se oggi Anthony Burgess leggesse i nostri quotidiani, non vedrebbe altro che un Truman Show di dimensioni planetarie e troverebbe Il seme inquieto, il suo romanzo del 1962 un imbarazzante presagio.