di Sandro Moiso
James C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice, nuova edizione 2021, pp. 373, 20 euro
Arriverà quel giorno! Arriverà quel giorno!… Sento il rumore dei carri! Vedo le vampe dei cannoni! Il sangue dei bianchi scorre sul terreno a fiumi, e i morti sono un mucchio alto cosi! Oh Signore! Affretta il giorno quando i colpi e le ferite e i dolori verranno ai bianchi, e gli avvoltoi mangeranno i loro morti nelle strade. Oh Signore! Spingi avanti i carri e concedi alla gente nera pace e riposo. Oh Signore! Dammi il piacere di vivere fino a quel giorno, quando vedrò i bianchi ammazzati come i lupi che escono affamati dai boschi.
Sono queste le parole, riportate da Mary Livermore una governante bianca del New England alla metà dell’Ottocento, uscite con impeto dalla bocca di Aggy, la cuoca nera della famiglia presso cui lavora la stessa Mary, dopo che il padrone aveva rimbrottato con veemenza, prima, e malmenato, in seguito, la figlia della stessa, accusata di un furtarello nella casa padronale.
E’ l’autentico incipit di un dramma che non va in scena a teatro, ma nella realtà della vita di tutti i giorni in cui, di solito il rapporto tra dominati e dominatori è regolato da regole di rappresentanza formale, quelle che l’autore del saggio definisce come verbale pubblico, a lato del quale però soggiace quasi sempre un verbale segreto ovvero ciò che si pensa ma non può essere detto, se non in momento particolari di tensione o rabbia. Come quello rappresentato dalle parole della schiava offesa dai maltrattamenti non tanto nei suoi confronti quanto piuttosto da quelli riservati alla giovane figlia.
Questo intreccio, stretto, tra rappresentazione formale dei rapporti di classe e sotterranea realtà degli stessi è stato da sempre al centro degli studi di James C. Scott, antropologo e storico statunitense delle società agrarie e senza stato, soprattutto collocate nell’area del Sudest asiatico. Una centralità che gli ha permesso di ricollegare sempre, tra di loro, le differenti narrazioni che derivano dall’ordine discorsivo dei due differenti verbali ed analizzare così le radici e le scaturigini delle rivolte e, talvolta, delle rivoluzioni avvenute a partire dalle società contadine. Per l’autore:
maggiore è la disparità di potere tra il dominante e il subordinato e l’arbitrio insito in essa, e maggiore è la tendenza dei subordinati ad assumere nel verbale pubblico un atteggiamento stereotipato, ritualistico. In altre parole, più il potere e minaccioso, piu la maschera e impenetrabile. Si può immaginare, in tale contesto, una gamma di situazioni che vanno dal dialogo tra amici di pari condizione e potere, da una parte, fino al campo di concentramento dall’altra, in cui il verbale pubblico della vittima porta il marchio di una paura mortale. Tra questi estremi sta la vasta maggioranza dei casi storici di subordinazione sistematica, che sono l’oggetto del nostro interesse. […] questa riflessione sul verbale pubblico ci avverte che esistono diversi aspetti nelle relazioni di potere, ciascuno dei quali verte sul fatto che il verbale pubblico non rappresenta la storia completa. Prima di tutto, il verbale pubblico è una guida incompleta per la comprensione dell’opinione dei subordinati1.
Dato per scontato, però, che esista un verbale pubblico apparentemente comune, occorre anche comprendere come esistano in ogni caso almeno due verbali segreti, quelli i cui non si confermano le cose dette in pubblico ma quelle realmente pensate e condivise da coloro che li producono: i dominatori e i dominati. Ed è proprio rivolta a quelli prodotti da questi ultimi l’attenzione maggiore di Scott. Proprio per provare ad individuare al loro interno i meccanismi narrativi che soggiacciono alle possibili rivolte dei servi, degli schiavi, dei contadini piccoli o senza terra e della vasta schiera di poveri e diseredati che costituiscono le fila dei dominati. Che spesso indossano maschere, verbali e formali, che:
producono un verbale pubblico strettamente conforme al modo in cui il gruppo dominante vorrebbe che le cose apparissero. Questo non controlla mai totalmente la scena, tuttavia i suoi desideri prevalgono. Nel breve termine, e nell’interesse del subordinato assumere un atteggiamento abbastanza credibile, pronunciando le frasi e compiendo i gesti che sa che ci si aspetta da lui. Il risultato è che il verbale pubblico (per evitare una crisi) è sistematicamente orientato nella direzione del copione messo in scena dal dominante. In termini ideologici, il verbale pubblico, attraverso il suo tono accomodante, fornirà tipicamente la prova dell’egemonia dei valori dominanti, dell’egemonia del discorso dominante2.
Ma che non condividono, dissimulando soltanto l’obbedienza al canone culturale e politico dominante, cosa che spinge spesso le autorità o i rappresentanti del potere a sottovalutare le braci che covano sotto le ceneri, pur sapendo che tale armonia non può essere possibile, ma illudendosi che col tempo queste si spengano.
In questo contesto sono proprio i verbali segreti a tenere invece accese le braci dell’odio, del disprezzo e della rivolta nei confronti di chi si sente comodamente assiso ai vertici del potere politico e proprietario. Come afferma George Eliot nel suo romanzo Daniel Deronda (1876), citato da Scott: «E l’odio piu intenso è quello radicato nella paura, che obbliga al silenzio e alimenta vendicatività costruttiva, un annullamento immaginario dell’oggetto detestato, qualcosa come i segreti riti di vendetta con cui i perseguitati danno sfogo oscuro alla propria rabbia». Quella che esplode, ad esempio, nelle parole di Aggy citate in apertura.
Ciò che colpisce è che il suo non è un semplice scoppio di rabbia improvvisa, e piuttosto un’immagine ben descritta e molto visiva di un’apocalisse, un giorno di vendetta e trionfo, un mondo rappresentato capovolto con l’uso della materia prima culturale tratta dalla religione dell’uomo bianco. Si può immaginare che una visione tanto elaborata sia uscita spontaneamente dalle sue labbra senza il contributo di fede e pratica del cristianesimo degli schiavi? Sotto questo aspetto la nostra percezione del verbale segreto di Aggy, se approfondita, ci porterebbe direttamente alla cultura segreta degli alloggi e della religione degli schiavi3.
E questo, almeno a parere di chi qui scrive, costituisce il motivo di reale interesse della ricerca di Scott: comprendere come, dove, con quali forme prende corpo il verbale segreto della rivolta e dell’insurrezione possibile. Un verbale segreto formatosi nei confronto tra pari in luoghi e nel contesto di eventi che sono ritenuti sicuri, lontani dalle orecchie e dallo sguardo del padrone e di chi è al potere. Momenti di confronto in cui un immaginario collettivo, individuale e sociale, formatosi nell’esperienza quotidiana dello sfruttamento e della sottomissione, prende forma e diventa strumento delle strategie di resistenza.
Tale discorso riporta la nostra attenzione sulla cultura fuori scena della classe nel cui ambito ha preso origine. Un singolo individuo che subisca un affronto può sviluppare una sua fantasia personale di vendetta e conflitto, ma quando l’insulto non è che una variante di quelli subiti sistematicamente da un’intera razza, classe o ceto, allora la fantasia puo diventare un prodotto culturale collettivo. Quale che sia la forma assunta (parodia fuori scena, sogni di vendetta violenta, visioni millenaristiche di un mondo capovolto), questo verbale segreto collettivo è essenziale per ogni considerazione dinamica delle relazioni di potere. [Perché] la necessità di «mettere la maschera» di fronte al potere produce, a causa della tensione provocata dalla finzione, una pressione contraria che non può essere trattenuta all’infinito4.
Una condizione di malessere, anche di carattere psichico, su cui indagò Frantz Fanon nella sua opera Pelle nera, maschere bianche (1952) in cui elaborò, anche a partire dall’esperienza personale, una critica storica degli effetti del razzismo e della disumanizzazione, insiti nelle situazioni di dominazione coloniale, sulla psiche umana. Mettendo in luce un doppio processo, quello di spossessamento economico e quello legato all’interiorizzazione del razzismo e del senso di inferiorità. Studio che, se ancor oggi è considerato un classico degli studi postcoloniale, continua condividere un’immagine passiva del soggetto oppresso negandogli l’autonomia di pensiero e azione compresi invece nelle considerazioni di James C. Scott.
Poiché il verbale segreto non è fatto soltanto di attività verbali e di immagini trasmesse dai discorsi, ma da «una intera gamma di attività. Per molti lavoratori agricoli azioni come fare bracconaggio, commettere piccoli furti, non pagare le tasse, lavorare male di proposito per il padrone, fanno parte del verbale segreto. […] Ognuna di queste pratiche contravviene al verbale pubblico di quel certo gruppo e quindi esse vengono il più possibile tenute fuori scena e non dichiarate»5. Forme di resistenza che nelle società preindustriali e successivamente industriali possono prendere le forme del luddismo e del sabotaggio, così come del rifiuto del lavoro. Dando vita a forme, tutt’altro che primitive, di autonomia di classe nei confronti di quella avversa, dei suoi obblighi e della sua ideologia, dati troppo spesso per scontati.
La frontiera tra il verbale pubblico e quello segreto è una zona di lotta incessante tra dominanti e subordinati, e non un muro invalicabile. La capacità dei gruppi dominanti di imporsi, sia pure non totalmente, nella definizione e costituzione del verbale pubblico e di quello fuori scena, è, come vedremo, una non piccola misura del loro potere. La lotta continua che viene condotta su questi confini è forse l’area più vitale del conflitto ordinario, della lotta di classe nelle sue manifestazioni
quotidiane6.
All’interno del verbale segreto e delle sue manifestazioni epifenomeniche possono coesistere aspirazioni millenaristiche, sogni di vendetta e di riscatto individuale e sociale che spesso, ancor prima che dalle difficoltà economiche e o dalla differente distribuzione della ricchezza all’interno di una società, prendono spunto dal senso di ingiustizia, immoralità, offesa e ingiuria contro i singoli o interi gruppi sociali. Un’economia morale che dà vita a forme pre-politiche di reclamo che nella religione, spesso condivisa con gruppi dominanti, ma ribaltata nei suoi scopi e fini, possono trovare ispirazione così come nella speranza nella figura di un sovrano, di un capo, che sia quello autentico e giusto, tenuto nascosto troppo a lungo, come successe nella rivolta russa del XVIII secolo guidate da Emel’jan Ivanovič Pugačëv, un cosacco del Don disertore e fuggiasco che spinse a insorgere, dagli Urali al Volga, russi, cosacchi, baškiri e tatari, proclamandosi pretendente al trono dello zar Pietro III dopo che questo era stato spodestato dalla moglie e futura imperatrice Caterina II nel 17627. Oppure come in quella birmana del ‘900, di cui parla Scott:
Appena pochi anni dopo il servizio prestato da Orwell a Moulmein, gli inglesi sono stati colti di sorpresa da una grande insurrezione anticoloniale. Questa era guidata da un monaco buddista che si dichiarava pretendente al trono e prometteva un’utopia che consisteva essenzialmente nel cacciare gli inglesi e abolire le tasse. La ribellione è stata soffocata con una buona dose di brutalità gratuita e i «cospiratori» sopravvissuti mandati alla forca. Ma una porzione, almeno, del verbale segreto della popolazione birmana ha fatto la sua apparizione sulla scena, manifestandosi apertamente. Sono stati rappresentati sogni millenaristici di vendetta, visioni di regalità giusta, di saggezza buddista e pareggiamento dei conti razziali, della cui esistenza i britannici avevano scarsissimi indizi8.
Scott è chiaro: le possibili similitudini tra verbali segreti e forme di resistenza in società e tempi diversi è possibile soltanto dal punto di vista dell’analisi formale e non si può pensare di trarre insegnamento per la comprensione delle contraddizioni sociali e delle loro possibili e conseguenti eruzioni da uno solo degli esempi riportati nella casistica del libro, valido per ogni caso e in ogni luogo. Ma:
Le rassomiglianze tra contadini francesi, schiavi, intoccabili, servi russi, e anche tra i cargo cults [riti propiziatori diffusi tra le popolazioni della Melanesia – N.d.T.] dei popoli sottomessi alla conquista occidentale, sono troppo evidenti per essere ignorate. La tendenza a credere che la fine del dominio sia vicina, che Dio o le autorità intendano garantire la realizzazione dei desideri, ma che forze maligne impediscono di ottenere la libertà, è un elemento comune, e in genere tragico, delle popolazioni subordinate. Esprimendo in questi termini la propria liberazione, i gruppi vulnerabili esprimono in pubblico le loro aspirazioni segrete, e lo fanno evitando la responsabilità individuale e al contempo alleandosi a qualche potere superiore di cui si limiterebbero a eseguire i comandi. Tali presagi hanno al tempo stesso alimentato innumerevoli ribellioni, quasi tutte abortite. I sociologi che danno per scontato che l’egemonia ideologica faccia apparire naturale la dominazione, perché non esistono alternative possibili, dovrebbero avere qualche difficoltà a dar conto di queste occasioni in cui i gruppi subordinati sembrano cavarsela da soli, con l’aiuto dei propri desideri collettivi. Se i gruppi oppressi spesso fraintendono il mondo, non è solo perché reificano la dominazione, ma perché altrettanto spesso immaginano che l’agognata liberazione stia per arrivare9.
Quello che conviene comunque valorizzare in chiusura è che diventa fondamentale l’attenzione all’immaginario degli oppressi, talvolta condiviso con quello degli oppressori, ma quasi sempre rovesciato di significato. Vale per la religione nel passato, ma anche per la nostra epoca in cui i media e i prodotti del comunicare possono essere reinterpretati sia per quanto riguarda il cinema, i fumetti, la letteratura cosiddetta d’evasione e la musica.
Così come diventa importante prestare attenzione ai luoghi dove un ricco immaginario collettivo poteva esprimersi: osterie, boschi, alloggiamenti comuni, radure ove dar vita a rituali segreti, località aspre e isolate da cui fosse possible osservare in sicurezza il territorio circostante. Motivo per cui converrebbe individuare anche i luoghi di produzione dell’immaginario antagonista attuale, ammesso che esista, e del susseguente verbale segreto che ne deriva, poiché le semplici sedi di partito, sindacato o momenti di ritrovo fortemente canonizzati dal punto di vista politico come le assemblee potrebbero rivelarsi più prossimi alla produzione di verbali pubblici più che segreti nel senso suggerito dall’antropologo statunitense, poiché accolgono al loro interno forme discorsive e narrative fortemente inficiate da quelle pubbliche ufficiali, finendo col far riferimento a canoni e principi generali (diritti individuali, democrazia parlamentare, oggettività scientifica, etc.) quasi sempre vaghi e limitanti per le forme dell’espressione individuale e collettiva. Molto più ricca di quella esprimibile in un contesto delimitato dall’uso di terminologie e ipotesi di lavoro date per scontate, ma ancora lontane dalla vita quotidiana degli oppressi.
Concludendo, possono essere soltanto la lotta e la resistenza degli sfruttati e dei diseredati a produrre una comunità altra nella società moderna, soprattutto in presenza di un soggetto politico ancora estremamente disperso e sempre più sradicato come nel caso rappresentato dall’attuale proletariato migrante internazionale. Cosa che vale altrettanto per i suoi verbali segreti, ben lontani oggi dall’essere accomunati da una precisa codificazione, anche quando si pensa che possano essere espressione di un partito che voglia rappresentarsi come coscienza introdotta dall’esterno in quella stessa classe.
J. C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera editrice, nuova edizione 2021, p. 18. ↩
J. C. Scott, op. cit., p.19. ↩
Ivi, pp. 21-22. ↩
Ivi, pp. 25-27. ↩
Ibidem, p. 33. ↩
Ivi. ↩
In proposito si veda: M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011. ↩
J. C. Scott, op. cit., p. 35. ↩
Ivi, p. 234. ↩