di Gioacchino Toni

Paolo Sollier, Calci e sputi e colpi di testa, Prefazione di Renzo Ulivieri, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 130, € 12.00

«Jürgen Klopp: “Non voterei mai un partito che promettesse di abbassare le tasse ai più ricchi”. Io sono per Klopp. “Chi è l’Italiano che stima di più, Mazzola o Rivera?” Socrates risponde: “Non li conosco. Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio.” Io ero per Socrates e la democracia corinthiana. “Vogliamo che a fare politica siano tutti in prima persona” diceva Paolo Sollier. Io ero per Sollier». Così si apre la prefazione stesa da Renzo Ulivieri alla nuova edizione del volume di Paolo Sollier uscito originariamente nel lontano 1976 e ora tornato nelle librerie grazie a Mimesis.

Calciatore, allenatore, scrittore e militante di sinistra, Paolo Sollier ha fatto parte del Perugia che a metà degli anni Settanta ha conquistato la sua prima promozione in Serie A. I tacchetti delle sue scarpette hanno calpestato i campi da gioco, quando ancora erano esclusivamente di terra ed erba naturali, soltanto una ventina di volte nella massima serie, mentre in oltre un centinaio di casi lo hanno fatto in Serie B. Pur non avendo conseguito risultati sportivi eclatanti nel corso degli anni Settanta Sollier ha ottenuto una certa celebrità. Quest’ultima, anziché derivare da funamboliche imprese da campione, gli è “piovuta addosso”, senza averla cercata.

È possibile diventare famosi senza fare niente per diventarlo? Pare di sì. Sto diventando famoso perché, udite udite, mi “occupo di politica”. Non dico fare il militante a sangue pieno o il capopopolo, no: solo “si occupa” o “si intende” di politica. Poi perché d’estate vado nei campi di lavoro. Poi perché vivevo in una comune. Poi perché “alza il pugno in campo”. Insomma, da quell’oscuro pedalatore senza pretese che ero sono diventato “il calciatore ultrarosso”, “il compagno centravanti”, “il pugno sinistro (chiuso) di Dio”. Come regolarsi? Tirare avanti e basta è la prima risposta. Migliaia di persone fanno politica, vanno nei campi di lavoro e vivono nelle comuni. Se c’è stupore perché un calciatore fa queste cose è perché il mondo del calcio è in ritardo rispetto al mondo reale. Mondo del calcio vuol dire anche i giornalisti che scoprono il giocatore comunista e lo mettono in una gabbia di righe: toh, guardate il fenomeno, e dopo averlo guardato state tranquilli, gli altri giocatori non sono come lui. Sono su tutti i giornali, per dritto e di traverso. Cosa ne faccio di questa fama? L’unica è usarla per dire quelle quattro cose che ho in testa, di sport, di politica, di vita alternativa. Mica voglio fare il profeta o il professorino; semplicemente sono uno dei pochi, tra quelli che la pensano come me, ad avere accesso a tutto, anche ai giornaletti di carta igienica. Dunque cercherò di usare questo spazio per rompere un po’ le scatole (pp. 39-40).

Ciò che davvero il mondo del pallone, e dello sport in generale, non sopportava e, tutto sommato, ancora non sopporta, è che un atleta non si limitasse ad intrattenitore le folle con le sue performance agonistiche ma pretendesse addirittura di pensare ed esprimersi anche su questioni che esulavano dalla gabbia dorata entro cui doveva restare confinato.

Non si sopportava che sul finire degli anni Sessanta grandi eroi dello sport come Muhammad Ali, Tommie Smith e John Carlos affiancassero alle loro imprese agonistiche prese di parola critiche sulle guerre imperialiste o sul razzismo imperversante nella società e nelle istituzioni, non di meno si poteva mandare giù che un onesto calciatore di una formazione di periferia a metà anni Settanta rivendicasse anche sui campi da calcio la sua militanza politica e non la smettesse di denunciare le mille contraddizioni che toccavano, eccome, anche il mondo dello sport e gli esseri umani che ne facevano parte.

Con Calci e sputi e colpi di testa Sollier intendeva scrivere dei sogni, delle sofferenze, delle contraddizioni che un uomo come lui viveva entro un mondo che non accettava di essere criticato nel timore che il giocattolo potesse rompersi. Scrive Renzo Ulivieri nella prefazione che accompagna il ritorno del volume nelle librerie:

[Sollier] ha preso la penna e si è messo a scrivere con un lessico volutamente poco forbito per contrapporsi al linguaggio raffinato e salottiero dello scrittore borghese, con l’intento di consumare una sorta di rivincita dei proletari che, con meno parole, perché a loro non è consentito l’accesso alla cultura, riescono a esprimere idee di più alto valore morale, umano e politico. Una sfida alla cultura borghese, oltre che nella sostanza anche nella forma, perché il lessico usato viene dalla strada, dalla fabbrica o da un campo da calcio: comunque un lessico proletario (pp. 7-8).

Le riflessioni e le vicende raccontate dal libro vanno inserite nell’ambito della conflittualità che caratterizzava il periodo sin dalla fine degli anni Sessanta, quando anche nello sport si palesarono contraddizioni che ne mettevano in discussione la sua presunta neutralità e separatezza. Se in un primo momento in Italia le strutture organizzate della sinistra più radicale sostanzialmente si mostrano disinteressate alle questioni sportive, successivamente tentarono di intervenire su tale ambito, soprattutto in occasione di eventi internazionali, senza però riuscire a strutturare riflessioni importanti circa le contraddizioni che attraversano l’universo sportivo.

È probabilmente sull’onda delle mobilitazioni contro la partecipazione della squadra italiana di tennis alla finale della Coppa Davis prevista a Santiago nel 1976 contro il Cile in balia del regime di Pinochet che anche i gruppi della sinistra più radicale si trovarono quasi costretti a fare i conti con l’universo sportivo. Testate come «Il Manifesto», «Lotta continua» e «Il Quotidiano dei lavoratori» diedero conto della vicenda appoggiando il movimento di protesta contro la partecipazione italiana all’evento.

Avanguardia operaia dedicò sulle pagine del suo «Il Quotidiano dei lavoratori» un certo spazio alle tematiche sportive, e proprio a tale formazione politica aderiva Sollier, che nell’ottobre del 1976 si azzardò a fare quello che un calciatore evidentemente non doveva: pubblicare un suo libro autobiografico di denuncia delle deformazioni, delle ipocrisie e delle chiusure mentali del mondo del pallone con l’esplicita volontà di rompere quell’isolamento in cui era mantenuto rispetto alle piccole e grandi questioni che attraversavano il resto della società dell’epoca. All’uscita del libro, edito dall’editore milanese Gammalibri, Sollier venne prontamente deferito alla Commissione disciplinare della Lega nazionale calcio “per avere espresso pubblicamente in un libro da lui scritto affermazioni e giudizi lesivi della reputazione di altri tesserati”. Non erano tollerabili punti di vista critici dall’interno del sistema calcistico.

In risposta al deferimento «Lotta continua» mise in evidenza come Sollier fosse balzato agli onori delle cronache non per la sua attività di calciatore ma per il suo occuparsi di politica, per la sua ostinazione a non vivere di solo pallone. Al libro di Sollier, riconosceva il quotidiano, spettava il merito di aver provato a forzare il ghetto entro cui era costretto il calciatore: Sollier, al pari di altri militanti dell’epoca, si poneva il problema di cosa significasse essere rivoluzionari, del “personale è politico” e della sessualità.

Sulle pagine de «Il Quotidiano dei lavoratori», il collettivo editoriale della Casa Editrice Gammalibri bollò il deferimento come “un provvedimento manifestamente incostituzionale e fascista, tendente a dare continuità a uno stato di cose che vede il calciatore come oggetto muscoloso tacitato a colpi di milioni, di fatto utilizzato dal sistema non in senso ricreativo e di diffusione della pratica sportiva, ma quale ‘valvola di scarico’ di conflitti e di contraddizioni sociali e quale diversivo rispetto alla situazione sociale e politica”.

Nel libro Sollier racconta sì di politica, di amori, di partite e di ritiri ma sopratutto racconta la sua storia di essere umano.

All’inizio della mia canescioltaggine, un anno e passa fa, facevo un pensiero al PCI; ma era probabilmente la ricerca di un rifugio, la cosa più facile e comoda da fare. Mi dava l’idea di entrare in un carro armato (senza sottintesi) e al confronto gli extrasinistri erano biciclette col carrettino. Nel PCI tutto è sicuro, hai la linea e la controlinea, i fianchi e il culo coperti, tutto pronto tutto organizzato. Solo che anche gli occhi sono coperti. Insomma il PCI sta sempre peggio e sempre meno risponde alla voglia e alla necessità di lotta; continua a farsi forza della sua tradizione storica, e su quella tanto di cappello, ma con questo lenzuolo di dura tela antifascista, giorno per giorno cucita a morti e a fucilate, con questo lenzuolo per quanto crede di coprire le puttanate di oggi? Il vecchio buon Partito è diventato posato, domestico; fa tutto secondo le regole (borghesi), rispetta i vicini; e sotto sotto fa compromessi e frena. Ingrossa, certo che ingrossa, apre le porte a tutti. Non ho mai visto tanti padroni comunisti come adesso, e scusa la contraddizione. Ma il conto è facile: se sei di sinistra, magari con la giunta rossa, ti ritrovi tanta pace in fabbrica. Vuoi che i lavoratori lottino contro il compagno imprenditore? Non sia mai, niente paura, ci pensa il Sindacato. Perciò riprendo il mio posto in Avanguardia Operaia. Lì troverò anche gli amici. Del resto se non li trovo in mezzo ai compagni dove li trovo? Posizione opportunistica, dice qualcuno. Certo. Ma tra i compiti di un’organizzazione politica c’è anche quello di garantire un ambiente ai propri militanti. Né più né meno (pp. 28-29).

Nel suo racconto Sollier ha il merito di individuare nelle piccole cose, apparentemente banali, le grandi contraddizioni.

Questa degli autografi è davvero una mania pericolosa, proprio perché è considerata una stupidata. È uno dei primi passaggi per accettare le cose come stanno. Il mondo è composto da persone importanti e non importanti. Quelle importanti vanno idolatrate e messe un gradino più in alto. Ed è dovere dei non importanti andare a caccia di quelli importanti e tornarsene con un ricordo […] Questi scarabocchi di fretta sono un esempio di una delle regole di questo sistema: dare valore a cose che non ne hanno alcuno. E per farlo bisogna creare tutta una serie di falsi desideri per falsi bisogni: questo è il più stupido, ma non c’è niente di diverso dalla voglia dell’automobile più bella o dell’abbigliamento più elegante. È un’ideologia che ti bombardano addosso appena nato fino a morto, per magari farti desiderare un funerale di prima classe. Per forza un bambino che viene a chiederti la firma, se rifiuti ti fa la faccia scura. Si sente defraudato di qualcosa di prezioso; gli hanno insegnato che vale chissà cosa. Il non farli mi ha procurato infinite critiche e maledizioni. Dicono che è un fregarsene dei tifosi, prenderli per il culo, darsi arie. Tutto il contrario. Perché è molto più facile fare una firma che fermarsi a spiegare, discutere (p. 32).

Con note di malinconia, Ulivieri scrive nella sua prefazione che il libro di Sollier racconta di un

tempo in cui si gioca con un portiere “murato in porta”, un libero staccato di venti metri che non pone quindi il problema della Var per scovare millimetrici fuorigioco, due marcatori a uomo, un terzino fluidificante, un mediano incontrista, un regista di centrocampo, un rifinitore in zona più avanzata, un ala tornante e due punte: catenaccio e contropiede, giocare la palla in avanti senza tanti fronzoli, evitare di passare la palla al portiere perché viene giù lo stadio dai fischi. È un calcio che non c’è più, semplice, forse più umano. Un calcio, come diceva Socrates, “che si concede il lusso di far vincere il peggiore: non c’è niente di più marxista o gramsciano del calcio” (pp. 8-9).


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