di Franco Pezzini


Lorenzo Monfregola, La città dei Serpenti, pp. 440, € 19, Polidoro, Napoli 2025.
Emiliano Ereddia, L’Oltremondo, pp. 302, € 17, Polidoro, Napoli 2025.

Ormai da parecchi anni, il linguaggio della distopia sta affermandosi come uno dei più presenti e spesso fertili nella narrativa di genere, sia in chiave letteraria che paraletteraria: e al primo filone – senz’altro letteratura – appartengono due uscite recenti nella medesima collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate per la napoletana Polidoro, due romanzi che idealmente si parlano pur senza alcuna diretta influenza. Certo, cambiano i contesti, gli spaziotempi: in La città dei Serpenti, senza troppo spoilerare, siamo in un pianeta non-terrestre di un lontanissimo futuro, nel secondo l’Oltremondo si incista in un’Italia futurologicamente prossima e autoritaria dove ai ribelli è possibile intervenire tra le pieghe del tempo. Ma entrambi gli affreschi, di notevole ampiezza e originalità rispetto ai pur individuabili modelli dickiani e ballardiani, cifrano tensioni e provocazioni di un presente inquietantemente vicino.
In entrambi i casi – in modo diverso – la distopia investe in prima battuta lo sguardo, il linguaggio, la voce: come in fondo inevitabile (anche se magari non chiaro a chi di distopie si sia occupato in modo meno profondo), perché sono proprio il modo di vedere e di narrare a costituire il marcatore primo di un mondo collassante. In entrambi i casi l’Homo narrans – protagonista narrante più o meno inaffidabile – si confronta con la ridefinizione di categorie dell’esistenza, di miti, di urgenze personali e collettive: ed entrambi sembrano rispondere in chiave provocatoria al crollo delle istanze del Novecento. Entrambi del resto fanno riferimento a una categoria che sguardo e voce possono scomporre ai minimi termini, ma che resta un’ancora fondamentale al nostro essere Homo, cioè il corpo. Un corpo ibridato nel primo, dove uomo e serpente si mixano, e i regni animale e minerale perdono il rispettivo limes – e non solo nella sfera dell’umano, ma nei serpenti-cavi elettrici, nelle macchine senzienti, nel mistero stesso di una Forza Sovrastante non necessariamente metafisica. Un corpo trattato nel secondo con farmaci e droghe come l’oblivion, e che si sbriciola in un tempo storico magmatico e mai fissato definitivamente, in uno stato perenne di stupefazione. Fino a costringere a domandarci se il protagonista ce la conti giusta, se e quanto sia capace di lucidità. Un corpo in entrambi che alla fine si fa linguaggio, voce – ma non è questa, in fondo, la natura prima di qualunque personaggio letterario? –, traducendosi in comunicazione frantumata e reiterata di stringhe alfanumeriche ne La città dei Serpenti, e in L’Oltremondo in conati espressivi, giochi di parole irriflessi, compulsioni verbali di una mente crackata.
In entrambi i casi, poi, alla storia soggiace una rivelazione radicale, che cioè sia l’essere umano in quanto tale l’elemento distruttivo della realtà: non solo imbullonando orride tecnocrazie autoritarie dove il tradimento e la violenza poliziesca, l’illusione e la menzogna paiono ingredienti fondamentali, ma stabilendo rapporti malsani con meccanismi di servizio e strutture sociali, fino a piagare relazioni personali. In modo diverso e autonomo i due romanzi esplorano l’ambiguità radicale con cui è possibile comprendere il reale: nel primo caso per la scarsa comprensibilità effettiva – a dispetto delle pretese degli “interpreti” – dell’Intelligenza Serpente e le faziosità delle lobby in scena, nel secondo per l’equivoco peso decisionale di intelligenze artificiali brandite da un potere sovranista, per cui a decidere norme e letture ufficiali non sono più camere di confronto umano, ma algoritmi da tecnocrati. Come spiega il protagonista de L’Oltremondo,

succede questo: tutti vorremmo sapere, ma nessuno oggi è più in grado di sapere nulla. È la macchina che sa e che proietta e impone il suo sa­pere intorno all’uomo, creandogli una realtà che lo abbraccia, lo culla, lo ghermisce. Realizzandolo. Rea­lizzando l’uomo.

Tanto più che strumento di distruzione è addirittura quello che offre le due storia come le leggiamo, il linguaggio: ne La città dei Serpenti troviamo esplicitato che

Il vettore della vostra infezione è la tecnologia che voi usate per definire la vostra infezione ▻▻▻ Linguaggio ▻▻▻ il Linguaggio umano usato ora progressivamente adeguato in apprendimento Macchina da noi per comunicare qui ora con la vostra inferiorità ▻ il vostro linguaggio è infetto di infezione ▻ il vostro linguaggio inutile contro la Macchina ▻ la vostra ▻ Parola infetta somministrata emanata in riproduzione tecnologica espansa non necessaria alla Macchina ▻

Cioè comunicazioni ossessive da amministrazione delirante, slogan ripetuti, elenchi di comandi, formule scandite: interessante e dialettico è il rapporto tra la professione di fedeltà degli Agenti della città (“Noi siamo gli Agenti, fedeli ai Serpenti”, una sorta di credo militante alla tutela dell’Equilibrio claustrofobico della città) e la Fede proclamata una volta uscitine. Mentre L’Oltremondo vede contribuire alla grande cospirazione i messaggi di un’influencer ragazzina (username b4by_flu666) e la diffusione del contenuto del Teorema di Lauda, nuovamente a considerare come infezione uomini e linguaggio:

Il professor Lauda, […] osteggiato da tutti gli atenei del mondo e morto in umiliazione e povertà, sostiene che l’uomo sia un virus, al pari del linguaggio ma più letale di esso, come virus. Il lin­guaggio uccide alcune categorie e sottocategorie del pensiero attraverso la selezione di parole e costrutti, dice Lauda, […] mentre l’uomo è con­centrato solo sulla riproduzione della specie, la quale specie si percepisce sempre sul baratro della scom­parsa. Ma la percezione del baratro della scomparsa è dovuta alla modificazione delle leggi naturali che lo sviluppo tecnologico dell’uomo, messo in atto per alimentare la sopravvivenza della propria specie, im­pone al pianeta e all’ambiente da cui l’uomo viene ospitato e di cui l’uomo si fa parassita, dice Lauda, quindi l’uomo fugge la distruzione della specie e lotta contro la sua propria scomparsa che però egli stesso sta architettando in nome di quella stessa sopravvi­venza della specie guidata e garantita dello sviluppo tecnologico che distrugge l’ambiente ospite del virus-uomo […].

In un caso e nell’altro il punto di riferimento con cui fare i conti sono le macchine: a contrastarle, una società ibrida di uomini & serpenti o invece una rete clandestina che tra varie strategie di lotta usa l’oblivion per aprire fenditure nel tempo e versioni modificate della Storia: i serpenti che prendono – tra lo sconcerto generale – a divorare se stessi come urobori evocano in fondo la possibilità che la Storia come la conosciamo sia finita, si riduca al loop di un ciclo e si possa solo stagnarci dentro.
In un caso e nell’altro un potente linguaggio mitico sottostà all’invenzione narrativa. La paranoica città dei serpenti del primo titolo è simbolizzata in un cranio, come il Golgota del cranio di Adamo, e l’ambiguità del serpente dell’Eden è il suo statuto costituzionale: in luogo dello sguardo terapeutico al Nehustan, il serpente di Mosè, sono previste immersioni “terapeutiche” degli Agenti in vasche di serpenti, che insieme possono però far pensare (in chiave di morte rituale, iniziatica) a quella in cui muore l’eroe vichingo Ragnarr catturato da Ælla di Northumbria. Alle vasche di serpenti del primo romanzo corrispondono idealmente i trattamenti farmacologici del secondo – entrambi imposti perché funzionali a equilibri d’un potere. Ma ne L’Oltremondo, persino più provocatoriamente politico e apertamente critico, si recuperano, in un presente racchiuso come nel cerchio uroborico o in un tempo mitico del Sogno, figure storiche (come Osip Ivanovich Komisarov, coperto di imbarazzanti onori per aver salvato la vita dello zar Alessandro II durante un tentativo di assassinio, Gavrilo Princip, lo studente serbo che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, o magari Alberto Magno e la sua testa meccanica) o scorci del passato (Paesi Bassi 1469, Canada 1940, riprese dal set di The Circus del 1928), a iniettare nel presente sovranista elementi di discredito, frattura e fragilità. “Tu sai che il tempo è un sogno, […] e la vita è tempo”.
Certo i due romanzi conducono in direzioni diverse: il fanatico e vigoroso protagonista del primo, l’Agente 1 Kajus, riesce a uscire dalla Città-Teschio dei suprematismi Bianchi e Neri e la storia può continuare altrove, mentre nel secondo più amara è la parabola del povero Don, docente (di storia, non a caso) espulso dall’università, sedato coattivamente in un paese dove la svolta finale autoritaria è imposta – guarda caso – da una riforma della giustizia e il dissenso è liquidato in patologia. Ma in entrambi i romanzi crepitano lingue furiose a concedere al lettore non pigro e non timido davvero molto, in termini di forza espressiva e macchine per pensare.