di Sandro Moiso
David Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 300, 18 euro
In un grande studio cinematografico, chi seleziona veramente le sceneggiature da trasformare in film? Come si sottopone un soggetto a un produttore? Quali sono gli ingredienti per una perfetta scena di inseguimento? Come mai nei titoli compaiono così tanti produttori? E soprattutto: cosa diamine fanno, esattamente? Sono domande che tutti i cultori del cinema, ma anche i semplici spettatori devono essersi posti almeno una volta e a cui David Mamet cerca di dare risposta all’interno del testo appena tradotto da Giuliana Lupi per le edizioni minimum fax.
David Mamet, nato a Chicago il 30 novembre del 1947, con ironia e perspicacia, fornisce risposte dirette, illuminanti e spesso sconcertanti a tali domande, rivelando allo stesso tempo le disfunzioni e i processi reali dell’industria cinematografica, la più grande e redditizia «macchina dei sogni» del pianeta. Mamet, di cui minimum fax ha già pubblicato in precedenza Note in margine di una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro (2012) e I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema (2023), può farlo perché ha ricoperto praticamente tutti i ruoli più importanti che ruotano intorno alla “settima arte”: sceneggiatore, regista, attore, produttore, dedicando tutta la sua vita al cinema e alla scrittura.
E’ stato infatti lo sceneggiatore di film celebri come Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981), Il verdetto di Sidney Lumet (1982), Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e Hannibal di Ridley Scott (2001), solo per citarne alcuni, ma complessivamente ha al suo attivo 28 film (di 9 dei quali è stato anche regista), 34 opere teatrali, 3 fiction per la televisione, 21 saggi, 2 raccolte di poesie, 5 libri per bambini, 11 canzoni. Mentre il suo primo importante riconoscimento era arrivato con l’opera tetrale Glengarry Glen Ross, una feroce rappresentazione del mondo degli affari americano, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1984 e dalla quale avrebbe poi tratto la sceneggiatura per il film Americani, con Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin e Kevin Spacey nel 1992.
Tutto questo, però, non è stato qui ricordato soltanto per sottolineare il medagliere dell’autore e l’importanza della sua personalità per il mondo del cinema statunitense, ma piuttosto per sottolineare come i suoi saggi sul mondo del cinema e della scrittura cinematografica affondino le loro radici in una vasta e pluridecennale esperienza e una profonda conoscenza dello stesso ambiente culturale, economico e sociale che lo circonda e permea.
In tempi di dazi trumpiani che mettono in risalto come i prodotti del cinema non siano in fondo che merci e prodotti destinati al consumo di massa e in un paese, l’Italia, in cui si parla, troppo spesso e senza riguardo per la realtà, di “cinema d’autore”, Mamet si rivela utilissimo, lui che certamente “autore” è stato sia come sceneggiatore che come regista, per comprendere i meccanismi di quella che, in fin dei conti, non è altro che la più importante industria dell’immaginario collettivo, cosa già compresa all’inizio del XX secolo da rivoluzionari come Lenin e Trockij1.
Ma, probabilmente, non ancora qui da noi: in un ambiente socioculturale in cui non solo le tv, pubbliche e private, ma anche le sale cinematografiche snobbano quasi sempre i titoli di coda dei film tagliandoli o eliminandoli del tutto, quasi che il film fosse una sorta di magico prodotto del pensiero dei registi e degli sceneggiatori più celebri oppure, ancor peggio, della fisicità degli attori e delle attrici. Contribuendo così a coltivare nel pubblico il mito borghese e fetente dell’individuo e della sua “creatività”, avulso comunque dai processi della produzione sociale e della collaborazione collettiva. Continuando a separare il lavoro intellettuale da quello manuale, per mera convenienza ideologica di classe, mentre il prodotto di qualsiasi attività umana non deriva che dalla sintesi concretizzante tra i due2.
Non è un caso quindi che il saggio di Mamet inizi proprio da lì, dall’ambiente cinematografico come “fabbrica” in cui il contributo di tutti (operai, costumisti, scenografi, fotografi, attrezzisti, fonici, elettricisti, falegnami, tecnici degli effetti speciali, facchini, montatori, segretarie e segretari di produzione e tanti altri ancora) è fondamentale per la riuscita dell’impresa. Proprio per evitare quell’ignominia del ricordare i marchi delle auto o delle merci senza ricordare la manodopera che ha contribuito a realizzarle oppure le grandi battaglie parlando soltanto dei generali e dei “condottieri” senza ricordare i soldati che le hanno combattute sul campo e le loro sofferenze.
Certo, per gli amanti del “cinema d’autore” così come per i filosofi del demiurgo borghese, è utile alimentarne il culto rimuovendo il sudore, le fatiche, i sacrifici e i contributi, spesso altrettanto creativi, delle maestranza sui suoi luoghi di produzione come Hollywood o Cinecittà, ma non lo è per Mamet che, invece, vuole proprio sottolineare sia il contributo degli “altri” che le pecche dello star system e dei suoi “eroi” e delle sue “eroine”.
Lo diceva Billy Wilder: sai di aver finito di dirigere quando non ti reggono più le gambe […] Ma si affronta il giorno o la notte con un senso di responsabilità verso i propri collaboratori e con il terrore di deluderli. Perché la gente che lavora a un film si spacca il culo.
L’attore protagonista può protestare, e spesso lo fa. Viene coccolato. Giustificato e incoraggiato (con tanto di compenso in denaro) a coltivare la mancanza di controllo dei suoi impulsi. Quando la star fa una scenata […] la troupe rimane impassibile e il regista, io, osserva quello straordinario autocontrollo e pensa: «Ti ringrazio, Signore, di questa lezione».
Il regista, gli attori, il produttore e lo sceneggiatore sono sopra la riga, tutti gli altri sotto.
Esiste un sistema a due livelli nel cinema, proprio come nell’esercito. Chi sta sopra la riga si presume contribuisca al finanziamento o ai potenziali proventi del film molto più delle «maestranze» – cioè i tecnici – che lavorano sul set, in ufficio o nei laboratori.
[…] Parlavo di cattivi comportamenti, qualche film fa, con l’attrezzista capo. Lui mi raccontò di aver lavorato con una star maleducata che, per rallegrare l’atmosfera o in un eccesso di buonumore, si era messa a ballare con gli anfibi sul tetto di una Mercedes nuova di zecca. «Fece quasi diecimila dollari di danni», mi disse, «e ci rimasi davvero male, perché avevo rinunciato al mio giorno libero per cercare un attrezzo di scena: neanche ero pagato».
In alcuni divi non c’è solo belligeranza, ma anche la tendenza a litigare. Ne ho visto uno misurare con un metro a nastro la propria roulotte perché sospettava che non fosse perfettamente uguale (come da contratto) a quella del suo coprotagonista.
E intanto l’attrezzista rinuncia al suo giorno libero per garantire che, lunedì, il portafoglio, il coltello, la valigetta o l’orologio siano perfetti.
Questo, secondo la mia esperienza, non è un esempio isolato, bensì la norma nel mondo del cinema. Mentre la star esce in ritardo dalla sua roulotte, mentre il produttore sbraita al cellulare gridando oscenità all’assistente che, con ogni probabilità, ha fatto un errore nel prenotargli il ristorante, la gente sul set dà il massimo per realizzare un film perfetto. Non credo di esagerare.
[…] Alcuni uomini d’affari ritengono di poter realizzare un film pefetto (vale a dire con un buon ritorno economico) in generale, facendo a meno del rispetto, dell’abilità o dell’umiltà necessari, e ispirati e sostenuti soltanto dall’amore per il denaro.
[…] Mi torna in mente il vecchi adagio: in migliaia hanno lavorato negli anni per erigere le cattedrali, e nessuno ha messo il proprio nome su una sola di quelle costruzioni.
Noi, ovviamente, apprezziamo il film per il lavoro degli identificabili, gli attori, ma non potremmo goderne se non fosse per il lavoro degli anonimi, la troupe.
[…] Mentre riflettevo su questo, pensando alla star, pagata venti milioni di dollari che rovina il tetto di un’auto, e all’attrezzista, pagato ventimila dollari, che rinuncia al suo giorno libero per la riuscita dell’opera, credo di aver iniziato davvero a capire la teoria marxista del plusvalore. Domanda: di chi è il film? Passate una giornata sul set e lo saprete3.
Il saggio di Mamet parla di molto altro ancora e può funzionare come autentico viatico per chiunque voglia avvicinarsi al cinema anche da un punto di vista professionale, occupandosi di produzione, sceneggiatura (e di come presentarla) oppure di come siano state realizzate le migliori scene di film di azione o di guerra e perché, ma è l’attenzione rivolta al lavoro “anonimo” oppure al tentativo di Ronald Reagan di distruggere il movimento sindacale americano per abbassare i costi del lavoro, compreso quello delle troupe cinematografiche, per impedire il trasferimento delle attività produttive all’estero e a minor costo, che fa di questo saggio un testo da cui davvero non si può prescindere per comprendere, con i piedi saldamente piantati in terra, quali siano le basi materiali della “creazione” dell’immaginario contemporaneo.
In cui, però, come ricorda proprio in apertura l’autore, la standardizzazione della produzione industriale di stampo ancora fordista, spinge a ridurre sia la qualità del prodotto che quella delle attività di quel proletariato intellettuale di cui lo sciopero lungo degli sceneggiatori hollywoodiani ha rappresentato la più concreta e visibile manifestazione dello scontento.
Tutti i fiumi sfociano nel mare. Eppure il mare non si riempie. Il cinema, nato come l’ultima trovata commerciale in fatto di divertimento popolare, sembra essere tornato al punto di partenza. I giorni della sceneggiatura volgono al termine. Al suo posto troviamo una premessa alla quale appiccicare le varie gag. Questi eventi, che una volta non erano che ornamenti della storia vera e propria, sono ormai quasi l’unica ragione d’essere del film. Nei thriller gli eventi sono le scene d’azione e le esplosioni; nei film dell’orrore gli squartamenti; nei film polizieschi e di guerra le sparatorie e i bombardamenti. Il cinema basato soltanto sui “punti culminanti” è figlio del cinema porno.
[…] Oggi le case di produzione puntano tutto sui franchise movie, vale a dire sul richiamo di un pubblico che si è già creato autonomamente. Ed è sempre più difficile collocare sul mercato film non quantificabili, man mano che il modello del franchising prosegue la sua avanzata verso il controllo totale dei budget della casa di produzione e , quindi, del mercato. Tutte le attività industriali migrano infatti verso il monopolio, e la ridotta concorrenza provoca inevitabilmente un calo di qualità4.
Si veda L. Trockij, Vodka, chiesa e cinema, «Pravda», 12 luglio 2023, ora in L. Trockij, Opere scelte, vol. 13, Cultura e socialismo, Roma 2004, pp. 87-90. ↩
In proposito si veda il sempre attuale A. S. Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli editore, Milano 1977. ↩
D. Mamet, Il duro lavoro in D. Mamet, Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica, Edizioni minimum fax, Roma 2025, pp. 15-20. ↩
D. Mamet, op. cit., pp.9-10. ↩