di Sandro Moiso

James C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 332, 20 euro

L’ultimo testo di James C. Scott pubblicato da elèuthera è particolarmente importante poiché, a cinquecento anni dalla guerra dei contadini tedeschi (1524-1526) contro le insopportabili condizioni di sfruttamento e oppressione, cui contrapposero la rivendicazione dell’abolizione della servitù della gleba, la libertà di caccia e di pesca e la diminuzione delle tasse insieme a quella dell’istituzione di una sorta di repubblica contadina, la ricerca di Scott si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi comuni non soltanto della resilienza, parola oggi fin troppo abusata, ma anche della resistenza e della rivolta delle società contadine tra precapitalismo e avvento del capitalismo stesso e della sua forma Stato.

James C. Scott (Mount Holly 1936 – Durham 2024) è stato docente di Scienze politiche e di Antropologia nell’Università di Yale e ha fatto ricerca sul campo soprattutto nel Sud-est asiatico. In questa veste ha contribuito a riportare, in ambito accademico, un riequilibrio nelle Scienze politiche tra gli studi di tipo quantitativo, preponderanti, e quelli di tipo qualitativo. Ha pubblicato numerosi libri dei quali in italiano sono usciti Le origini della civiltà. Una controstoria (2018) e L’arte di non essere governati. Storia anarchica degli altopiani del Sudest asiatico (2020) per Einaudi e Il dominio e l’arte della resistenza (2021 n.e.), Lo sguardo dello Stato (2019 qui), Elogio dell’anarchismo (2014 e n.e. 2022 qui) e L’infrapolitica dei senza potere (2024 qui) per elèuthera, oltre che I contadini tra sopravvivenza e rivolta (1980) per Liguori. Nel 2020 ha ricevuto l’Albert O. Hirschman Prize per il suo importante contributo interdisciplinare in antropologia, economia e storia, mentre, tra una lezione e l’altra, allevava pecore nella sua casa in Connecticut.

L’infrapolitica di cui si tratta fin dal titolo del libro riguarda una politica considerata piccola, minore, quella appunto dei senza potere e dei diseredati dello stesso che, troppo spesso, nelle analisi puramente quantitative rischia di essere relegato sullo sfondo oppure di sparire del tutto. Sì, perché infrapolitica non significa affatto assenza di politica o sua mancanza, ma piuttosto definisce una necessaria capacità di gestione delle società a livello locale, là dove queste devono ancora essere sottomesse del tutto al potere di controllo dello Stato oppure che ancora gli si oppongono in forme estremamente varie, dall’inganno al mascheramento delle proprie convinzioni religiose o politiche fino alla lotta aperta e dichiarata. Comunque sempre lontane dalle istituzioni politiche e religiose e dallo Stato. Una sorta di autentica e diffusa resistenza naturale alle imposizioni esterne che Scott spiega così:

I missionari delle “grandi tradizioni” religiose o politiche si trovano tipicamente alle prese con uno spinoso dilemma quando tentano di diffondere il loro messaggio tra i contadini. Ammesso che il messaggio e il suo emissario vengano accettati, questi saranno sussunti in uno schema già esistente di significati, simboli e pratiche che spesso stravolgono il messaggio cosi com’è inteso dai suoi sommi sacerdoti nella capitale. Questo abisso cognitivo può essere irrilevante se la “conta” dei convertiti ha piu importanza dell’ortodossia ideologica. Dopotutto, il potere sociale di una Chiesa o di un partito politico può dipendere tanto dal numero dei suoi seguaci quanto dall’effettivo livello di assimilazione del suo catechismo. Ma quando si tratta di qualità delle convinzioni – cioé a dire la loro ortodossia misurata sul metro della dottrina formale – i contadini hanno messo a dura prova la pazienza tanto degli arcivescovi quanto dei commissari politici.
Buona parte della storia del cattolicesimo, per esempio, si potrebbe scrivere nei termini di una tensione tra l’ortodossia ecclesiastica e l’eterodossia popolare, per non dire eresia conclamata, cui la sua espansione diede luogo. In questa storia rientrerebbero le grida di disperazione per quanto e accaduto alla fede nel corso della sua diffusione. Il tono tipico e esemplificato da questo lamento sull’uso delle preghiere e dei santi cattolici da parte dei vuduisti haitiani: «Non siamo stati noi a cristianizzare il popolo, ma il popolo a tramutare il cristianesimo in superstizione». Per non rischiare di liquidare questo esempio come esotico, faremmo bene a ricordare che nella stessa Europa occidentale un’intera congerie di credenze e pratiche precristiane non soltanto sopravvisse ma permeò la cristianità popolare fino a evo moderno inoltrato2. La resistenza della popolazione rurale all’ortodossia cristiana era una tale spina nel fianco del primo clero che l’origine stessa della parola “pagano” (da paganus, cioe abitante delle campagne) è associata ai contadini1.

Considerazioni che ci proiettano efficacemente in un mondo, quello contadino di epoca preindustriale e/o coloniale, che si fonda su convinzioni destinate probabilmente a sopravvivere per lungo tempo a quelle emanate da un potere religioso, culturale e politico che si rivela destinato ad essere transeunte, nonostante la forza dei suoi mezzi di regolamentazione, oppressione e convizione. Come affermava sir James Frazer, citato da Scott, nel suo Ramo d’oro2.

[…] è possibile che tutte le tecnologie elaborate, i riti solenni, i templi imponenti che oggi suscitano la reverenza o la meraviglia dell’umanità, siano a loro volta destinati a scomparire come “la svanita gerarchia dell’Olimpo” citata da John Keats nella sua Ode a Psyche e che la gente semplice continuerà a osservare le semplici fedi dei propri antenati senza nome e senza storia, a credere nelle streghe e le fate, nei fantasmi e i folletti, a mormorare i vecchi incantesimi e compiere antichi gesti scaramantici quando i muezzin avranno cessato di chiamare i fedeli alla preghiera dai minareti di Santa Sofia, e quando i devoti avranno smesso di radunarsi nelle lunghe navate di Notre Dame e sotto la cupola di San Pietro3.

Questa affermazione, che potrebbe apparire poco scientifica o materialistica agli occhi di una modernità sempre piuttosto evanescente e ambigua, è quella che accompagna, però, le ricerche di Scott che, anche se quasi sempre si sono svolte tra le popolazioni e i villaggi degli altipiani del Sudest asiatico, dalla Birmania alla Malesia fino al Vietnam, sono riuscite a rifondare gli studi delle resistenze delle moltitudini contadine che, certo, non sono passate come vorrebbe la grande Storia oppure le grandi ideologie senza lasciar traccia di sé.

Proprio come è successo con la guerra dei contadini tedeschi, guidati da Thomas Müntzer, che pur sconfitti riuscirono comunque ad imprimere un corso diverso alla Storia contro cui si erano ribellati, visto che la loro sconfitta sarebbe comunque servita da lezione e guida per le rivoluzioni successive, a partire da quella inglese del 1644-1648 fino alla “Grande paura” dell’estate del 1789 durante la Rivoluzione francese e ancora oltre. Dopo aver rovesciato il senso della dottrina luterana che già aveva incrinato il potere e l’ortodossia della Chiesa di Roma.

In una società complessa, la religione popolare e la cultura contadina non sono solo una variante sincretica, addomesticata e localizzata di un sistema di pensiero più vasto. Quasi invariabilmente, contengono i semi di un universo simbolico alternativo – un universo che a sua volta rende meno ineluttabile il mondo sociale in cui di fatto vivono i contadini. Gran parte di questo simbolismo radicale è spiegabile solo come reazione culturale alla situazione dei contadini come classe. Di fatto, questa opposizione simbolica rappresenta la cosa più prossima a una coscienza di classe nelle società agrarie preindustriali. E come se quanti si trovano sul fondo della scala sociale sviluppino forme culturali che promettono la dignità, il rispetto e il benessere economico di cui sono privi nel mondo così com’è. Un modello reale di sfruttamento produce dialetticamente la propria immagine simbolica speculare all’interno della cultura popolare.
[…] A volte, in Vietnam e altrove, questa possibilità latente all’interno della tradizione popolare ha trovato espressione esplicita in iniziative religiose millenariste, di forma quietistica o violenta. In genere i profeti di queste sette, al pari del loro seguito contadino, aspiravano a un nuovo ordine secolare con implicazioni rivoluzionarie. Religione e politica si univano in una visione utopica. L’elemento piu notevole era che, diversamente dal buddismo, dall’islam o dal cristianesimo, le cui dottrine si concentrano sul premio nella prossima vita, queste sette nutrivano ambizioni del tutto mondane di salvezza in terra. Cosi, come all’interno della piccola tradizione il buddismo veniva spesso piegato a scopi animisti secolari, allo stesso modo il messaggio di salvezza della religione di grande tradizione veniva spesso trasformato dai suoi seguaci popolari in un messaggio di liberazione nel qui-e-ora.
Il che non significa che questo tipo di visioni religiose radicali sia stata la forza motrice di tutti o della maggior parte dei movimenti contadini. Al contrario, molte lotte contadine per la riduzione dei canoni d’affitto, per un minor numero di tasse e per l’autonomia locale si possono considerare tentativi piuttosto chiari di difendere o istituire diritti entro il contesto di un ordine sociale o di una gerarchia incontestati – una versione contadina di “sindacalismo”, se vogliamo. Sostengo però che esista spesso un’intesa o una base religiosa con obiettivi rivoluzionari di ben fondamento ideativo dei movimenti contadini.
La visione radicale cui faccio riferimento é notevolmente uniforme, a dispetto dell’enorme varietà delle culture contadine e delle diverse grandi tradizioni cui partecipano. In sostanza, invoca una profanazione dell’ordine secolare esistente – un capovolgimento delle cose cosi come stanno. In questo senso, la visione radicale e riflessiva: il suo punto di partenza e il modello di sfruttamento sperimentato. Sarebbe persino possibile, lavorando a ritroso, dedurre la struttura reale dei rapporti sociali in una società dalla visione utopica creata per fungere da sua immagine speculare4.

A questo punto l’autore si ricollega a titolo di esempio alla “tradizione” europea delle lotte contadine, dalla Russia al resto del continente, cosa che spiega quanto sostenuto poc’anzi a proposito ancora dei contadini tedeschi e degli sviluppi successivi della loro rivoluzione “fallita”.

Gli elementi di classe della tradizione millenarista appaiono perfettamente evidenti nella configurazione utopica condivisa da contadini, artigiani e parte del basso clero. Per prima cosa, le schiere dell’Anticristo andavano distrutte. Per i Taboriti del xv secolo, queste includevano «tutti i signori, i nobili e i cavalieri», che andavano «abbattuti e sterminati nelle foreste come fuorilegge», ma anche gli abitanti delle città, i mercanti e i padroni assenteisti. In altri tempi e luoghi l’elenco poteva includere gli esattori fiscali, l’alto clero e gli usurai. Dalle ceneri del vecchio ordine sarebbe sorto un regno religioso senza tasse, canoni d’affitto o tributi feudali e, soprattutto, senza proprietà privata. I Taboriti profetizzavano «il ritorno di un ordine anarco-comunista perduto», senza ranghi: «Vivremo insieme come fratelli, e nessuno sarà sottoposto a un altro».
Spesso questo universo simbolico comprendeva un prototipo della teoria del valore lavoro e della ridistribuzione delle ricchezze: «I principi, sia della Chiesa sia secolari, e i conti e i cavalieri dovrebbero possedere solo alla pari con la gente comune, e in questo modo tutti avranno abbastanza. Verrà un tempo in cui i principi e i signori lavoreranno per guadagnarsi il pane». Altrove, il millennio di felicita prometteva il libero utilizzo di pascoli e boschi. In breve, la sua immagine poteva variare in funzione delle esigenze e aspirazioni dei contadini e dei ceti inferiori, ma era sempre in un rapporto simbolico diretto con le circostanze del loro sfruttamento come classe.
[…] La proprietà in comune e forse il principale tema economico della tradizione millenarista. Affonda le sue radici nel pensiero utopico cristiano, come osservato da Bloch: «Le forme, quasi sempre analoghe, di queste ribellioni erano tradizionali: sogni mistici, vigoroso sentimento originario di un’eguaglianza evangelica, che non attese certo la Riforma per imporsi alle anime degli umili». Il concetto di proprietà comunitaria non era solo parte della tradizione religiosa, ma era da sempre incorporato nelle prassi dei poveri rurali5.

Ecco allora che le credenze religiose, più che il «gemito degli oppressi» di marxiana memoria, finiscono col costituire la base di un programma politico minore ma tutt’altro che minimo, come avverrà, ad esempio, anche per una parte dei movimenti più radicali espressi dalla Rivoluzione inglese della metà del XVII secolo.

Durante la guerra civile inglese, gran parte dei movimenti agrari popolari sottoscrisse questa o quella forma di collettivismo. […] La questione della proprietà era tra «le principali preoccupazioni delle classi più povere», che furono entusiastiche sostenitrici degli appelli a una «eguaglianza dei beni e delle terre» e a una ridistribuzione delle proprietà almeno una volta l’anno a tal fine. In Inghilterra e altrove queste convinzioni dovevano tanto alla storia popolare e alla religione popolare. Così, Winstanley, il popolare leader dei Diggers, vedeva la proprietà in comune sia come il ripristino della «legge pura o della giustizia prima della Caduta», sia come un ritorno all’eguaglianza che aveva prevalso prima della Conquista normanna, quando ogni famiglia aveva il necessario per la sussistenza.
[…] Nella piccola tradizione, il tema della proprietà in comune è indissolubilmente legato alla contrapposizione tra consuetudini locali e legge. Una fitta schiera di cambiamenti minacciosi – che spaziavano dall’imposizione di nuove tasse, all’estendersi delle proprietà fondiarie, alle restrizioni su accesso e utilizzo delle foreste, all’espandersi del debito – si presentava ai contadini sotto forma di nuove leggi e di nuovi funzionari, che affermavano il primato degli statuti scritti sulle prassi tradizionali. Quando ha inciso sulla vita contadina, la legge è stata quasi sempre lo strumento dei pochi privilegiati e alfabetizzati che operava per spogliare delle sue terre, dei suoi beni e dei suoi diritti consuetudinari la moltitudine analfabeta6.

Ma la guerra civile o rivoluzione inglese avveniva in un momento in cui l’affermarsi del capitalismo mercantile, che la stessa rivoluzione avrebbe contribuito a liberare nella sua successiva potenza commerciale ed economica, aveva iniziato a sviluppare ancora di più tecniche di compravendita delle terre e di scambio e circolazione monetaria, potenzialmente “immateriale”, che indebolivano ancora di più la “concreta” materialità dei contadini poveri.

I Diggers, alla pari di altre sette radicali, vedevano la legge come uno strumento di oppressione: «La legge e la volpe, i poveri le oche; essa strappa loro le penne e di loro si ciba». Nell’utopia elaborata da Winstanley, la pena di morte sarebbe rimasta valida solo per chi avesse «scelto il mestiere di avvocato o di parroco». L’odio per la legge scritta appare in modo eclatante nella frequenza con cui i contadini ribelli distrussero i registi fiscali e gli elenchi di oneri feudali, nel tentativo di cancellare il contrassegno formale della loro oppressione. Posto che dalla prospettiva contadina la legge aveva imposto il dominio dei privilegiati in luogo di consuetudini stabilite per libero consenso, la nuova società non avrebbe avuto alcun bisogno di questa mistificazione o tirannide.
A mano a mano che la crescita del commercio e dei mercati aprì la strada a nuove insicurezze, frantumando la tenuta delle consuetudini locali, la visione utopica dei contadini prefiguro sempre piu una società in cui, come nel tempo passato, la “compravendita” sarebbe scomparsa. “Comprare e vendere” erano ovviamente associati a tutti gli effetti classici dell’espansione di un’economia di mercato: l’aumento nella disparità di ricchezze, la concentrazione della proprietà fondiaria, il prestito, il lavoro salariato e l’eliminazione dei diritti economici consuetudinari.
[…] L’annullamento di questa minacciosa e crescente economia di mercato e parte integrante delle utopie radicali adottate dai contadini inglesi nel XVII secolo. Secondo il commonwealth comunistico di Winstanley, «la vera dignità umana sarà possibile solo qualora venga istituito il possesso comune, e cessi la compravendita di terre e lavoro», equiparata all’omicidio e alla violenza carnale, tutti delitti da punire con la pena capitale. Il mercato, insieme alla proprietà, era visto come parte della Caduta che aveva reso possibile lo sfruttamento. Posto che la preservazione dei diritti tradizionali alla terra, al lavoro e alla sussistenza era l’obiettivo centrale di molti grandi movimenti contadini nell’Europa del primo evo moderno, non sorprende che anche la più restrittiva economia precapitalistica costituisse un obiettivo utopico attraente7.

Ma anche se il testo di Scott cela tra le sue pagine infiniti esempi e riflessioni sulla forza intrinseca delle strutture morali, economiche e politiche delle società contadine, si avvicina il momento di chiudere una recensione sicuramente insufficiente nel riassumere la ricerca nella sua interezza. Per questo occorre ritornare a quel Sudest asiatico da cui erano partite le principali indagini sul campo dell’antropologo americano.

Il Sudest asiatico è ricco di movimenti millenaristi almeno quanto l’Europa. I fattori di innesco sono grosso modo gli stessi, posto che i contadini di questa regione hanno vissuto molti degli stessi eventi traumatici determinati dalla creazione di uno Stato intrusivo e dallo sviluppo di un’economia agraria commercializzata. In questo ambito, possiamo considerare la storia coloniale del Sudest asiatico come una variante provinciale della storia economica mondiale, sebbene lo sconvolgimento sociale sia stato più traumatico, perché compresso in un periodo più breve e presieduto, fino a tempi recenti, da stranieri. I temi millenaristi hanno avuto un maggior impatto nei paesi piu direttamente governati e penetrati dalle forze di mercato: Birmania, Filippine, Indonesia e Vietnam. […]
La colonizzazione e la cristianizzazione delle Filippine hanno cospirato per produrre una storia di settarismo millenarista quasi senza confronti nel Terzo Mondo. […]
La prima sollevazione su vasta scala scoppiò nel 1841 e, come tanti movimenti successivi con sfumature millenariste, cominciò con la formazione di un’organizzazione cattolica laica. Il suo leader, Apolinario de la Cruz, che si era visto negare una carriera ecclesiastica dalle politiche restrittive della Chiesa, fondò la Cofradia de San Jose, che reclutò molti dei suoi seguaci dalle province meridionali dell’isola di Luzon: Tabayas, Batangas e Laguna. Quando, temendone il potenziale eretico tanto in religione quanto in politica, le autorità ecclesiastiche intervennero per abolirla, la confraternita assunse un atteggiamento più minaccioso. Riuniti quattromila seguaci armati, Apolinario e il suo vice, che si era dato il nome di “Purgatorio”, fondarono una teocrazia locale. Giro voce che Apolinario si fosse proclamato “re dei Tagalog” e “sommo pontefice” e avesse promesso ai credenti che la terra si sarebbe aperta e avrebbe inghiottito i nemici del nuovo credo. Dopo la vittoria in un tafferuglio, i suoi seguaci furono sconfitti in un bagno di sangue che fece mille vittime. I superstiti ripararono sulle montagne vicine, dove istituirono il villaggio Terrasanta che divenne meta di pellegrinaggi annuali da parte di migliaia di abitanti delle pianure. Con il nuovo nome di Colorum (da saeculorum), i sopravvissuti contribuirono alla diffusione in tutta Luzon di culti popolari forse implicati in molte ribellioni successive8.

Al di là di un’altra similitudine con le conseguenze della guerra dei contadini tedeschi, con la città-stato anabattista di Munster retta da Giovanni di Leida che dopo l’esperienza di autogoverno teocratico tra il 1534 e il 1535 fu riconquistata nel sangue dalle truppe imperiali, anche le ultime osservazioni di Scott obbligano chiunque si occupi di lotta contro la tirannia del capitale e della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione ad interrogarsi su alcuni aspetti dati talvolta troppo per scontati dai teorici della lotta di classe di impianto rigidamente marxista.

Una volta individuati, infatti, nelle tradizioni comunitarie il motore della resistenza e delle lotte contadine contro l’avvento del Capitale e dello Stato c’è da chiedersi se la cosiddetta “coscienza di classe” più che a fattori esterni non sia piuttosto da individuare nelle credenze e forme di organizzazione collettiva tipiche di quelle tradizioni, ricordando come, nel caso dell’Europa, quelle aspirazioni giunsero fino alla prima Lega dei Comunisti di Weitling, in diretta discendenza, o quasi, dal movimento degli anabattisti tedeschi.

Aggiungendo che, se così fosse, molto ci sarebbe da ripensare a proposito della coscienza di una classe operaia che, una volta allontanatasi storicamente e geograficamente dalle proprie origini comunitarie e contadine, non ha avuto a disposizione altra comunità che quella suggerita dal Capitale e dal suo ideale di sviluppo e che è giunto ad essa anche per il tramite del marxismo. Un argomento, quest’ultimo, su cui si può disquisire sicuramente a lungo e che rende estremamente affascinante e interessante la lettura del saggio di James Scott.


  1. J. C. Scott, I «modi» della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione religiosa, in J. C. Scott, L’infrapolitica dei senza potere, elèuthera editrice, Milano 2024, pp. 25-26.  

  2. J. Frazer, The Golden Bough, vol. 2, Spirits of the Corn and of the Wild, London 1912, p. 335 [trad. it. parziale Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012]  

  3. J. Frazer, cit. in J.C. Scott, op. cit., p. 27. 

  4. J. C. Scott, I temi della politica contadina. Rivolta agraria e piccola tradizione: la dimensione politica, in J. C. Scott, op. cit., pp. 116-118.  

  5. Ibidem, pp. 123-124.  

  6. Ivi, pp. 125-126. 

  7. Ibid., pp.127-128.  

  8. Ivi, pp. 132 -134.