di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a Lo specchio (Zerkalo, 1974), in cui dietro le ambigue e vampiresche parvenze dell’arte di Leonardo da Vinci si celano baratri che spalancano orrori. Una vera e propria esplosione, anche musicale, accompagna in questo film l’improvvisa apparizione dell’immagine del leonardesco ritratto di Ginevra Benci dietro al quale si cela l’orrore della guerra che ha inghiottito nelle sue spire di morte il personaggio del padre. D’altra parte, lo spettro della guerra compare sullo schermo anche sotto la forma di immagini di repertorio che mostrano i soldati dell’Armata Rossa che avanzano nel fango trascinandosi dietro armi e cannoni, strumenti di morte che decreteranno il loro stesso annientamento. Sempre in un contesto di immaginario di guerra compare anche l’inquietante ricordo della fanciulla dai capelli rossi: il protagonista, infatti, rammemora i momenti in cui da ragazzo, in tempo di guerra, era costretto ad esercitarsi col fucile. Nella campagna invernale, fra gli alberi, a un certo punto vede una ragazza segnata da una ferita sanguinante alle labbra, terribile e affascinante apparizione vampiresca. Nel contempo, ecco riemergere di nuovo la presenza inquietante dell’arte sotto le vesti dei Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio. La macchina da presa, allora, si esibisce in una carrellata ravvicinata sul quadro mentre in sottofondo sentiamo una musica tagliente dagli accenti metallici che quasi connota il paesaggio del dipinto, i personaggi, gli alberi e gli uccelli presenti in esso come i possibili messi di un’apocalisse incipiente.

In Stalker (1979), l’orrore di una possibile apocalisse compare nella volontà del personaggio dello scienziato di distruggere la Stanza, il luogo della Zona (un territorio misterioso forse provocato dal passaggio di extraterrestri; il film è infatti lontanamente ispirato al romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada) dove possono essere esauditi tutti i desideri, mediante un piccolo ordigno nucleare. Nell’immagine dello scienziato che vuole distruggere un luogo onirico e misterioso intravediamo l’orrore di Tarkovskij per una scienza e una tecnologia che appaiono come le basi di una “civiltà che minaccia di distruggere l’umanità” (secondo le parole dell’autore), come leggiamo nel “piccolo dizionario tarkovskijano” posto all’inizio del “Castoro” dedicato al regista1. Di fronte all’insondabile e all’inesplicabile, al mistero forse giunto da altri mondi, l’essere umano tecnologico, l’uomo a una dimensione di marcusiana memoria non conosce altro che la distruzione, spinto verso una irrefrenabile volontà di annientare l’altro da sé. Ciò che non si conosce, che non si comprende – sembra voler affermare il regista – deve essere distrutto. D’altra parte, scorci di distruzione operata dall’industrializzazione e dall’inquinamento indiscriminato sono presenti ovunque nel mondo ‘normale’, al di fuori della Zona. Se quest’ultima, infatti, nell’immaginaria trasposizione tarkovskjiana del romanzo dei fratelli Strugackij, era connotata da un ambiente naturale quasi intatto, sfolgorante di intricata vegetazione, il mondo fuori della Zona è squallidamente rappreso in ambienti spogli e tetri, come il bar in cui si ritrovano i personaggi all’inizio e alla fine del viaggio, o in lande malinconiche e fangose percorse da jeep militari e da soldati armati, emblema dello spettro di un pervasivo controllo e di una guerra che si trovano sempre in agguato. Al di fuori della Zona vi è un mondo squallido e inesorabilmente perduto nei suoi ritmi di quotidianità scontata e allucinante: basti guardare la sequenza in cui lo stalker porta sulle spalle la sua bambina che non riesce a camminare perché nata con una malformazione congenita. Lo sfondo è una grigia periferia industriale, solcata da nebbie e da ciminiere, da tetri treni merci, da fabbriche e industrie che inquinano e devastano l’ambiente. Lo squallore e la devastazione che aleggiano ogni dove sono rimarcati da una musica sinistra e tagliente che accompagna come un lugubre requiem l’incedere peregrino dello stalker.

In Nostalghia (1983), l’orrore si cela ancora una volta dietro la forza dirompente dell’arte. Il protagonista Gorçakov, un poeta sovietico giunto in Italia per seguire le orme di un musicista russo del ‘700, rifiuta infatti di recarsi a vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, emblema di quell’arte italiana che contemporaneamente affascinava e inquietava il regista. Secondo un aneddoto riportato da Francesco M. Cataluccio, infatti, il regista, agli Uffizi, riusciva a vedere soltanto le prime sale, la pittura sacra medievale, mentre doveva fermarsi all’inizio della pittura rinascimentale2. La Madonna del Parto irrompe sulla scena quasi come la Ginevra Benci ne Lo specchio, trasmettendo al protagonista orrore ed angoscia. Ma gli scorci di apocalisse, in Nostalghia, affiorano soprattutto nei momenti in cui il poeta si incontra con Domenico, un ex internato che appartiene al mondo ‘acquatico’ della follia e della ‘disragione’, per utilizzare un termine foucaultiano ricalcato sul francese “déraison”. Secondo lo studioso francese, infatti, “la follia è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”3. Egli emerge da un lungo internamento in manicomio ed è attratto dall’acqua, dalle pozze, dagli anfratti acquorei e dalla pioggia che penetra ogni dove nella sua casa, dalla vasca termale della piazza del paese di Bagno Vignoni, luogo al giorno d’oggi oggetto di una folle gentrification e turisticizzazione e che nel film possiamo contemplare ancora silente ed intatto, immerso nei suoi ritmi antichi e medievaleggianti. Il suo internamento manicomiale segue un altro lungo, stavolta volontario, internamento durante il quale aveva tenuta segregata in casa la sua famiglia per sette anni per proteggerla dalla “fine del mondo”, un’apocalisse che sarebbe stata provocata probabilmente da quella “rocciosa ragione” alla quale egli si oppone. Ecco che nella casa del ‘folle’ Domenico si fronteggiano il poeta ed il pazzo, il primo intrappolato nella sua lancinante nostalgia, il secondo impietrito da un’angoscia provocata da un profondo orrore per la ragione in tutti i suoi aspetti, mentre un suono meccanico e ossessionante si fa largo sullo sfondo sonoro come un vitreo ed evanescente fantasma.

Domenico, però, non appare esclusivamente imprigionato nelle dinamiche intime e ‘private’ di una solitaria angoscia ma si fa latore di una possibile via di fuga dall’universo carcerario della follia nel quale era stato relegato da un sistema basato su una presunta ‘normalità’. A Roma, sul Campidoglio, il personaggio organizza una manifestazione alla quale partecipano – sembra – molti altri ‘folli’ come lui, presumibilmente degli ex internati usciti dagli ospedali psichiatrici tra fine anni settanta e inizio anni ottanta (il film è del 1983) in seguito alla legge Basaglia. Domenico grida ai folli ormai liberi – parafrasando una frase di René Char – di esercitare la loro “legittima stranezza”: per scongiurare una catastrofe, una guerra nucleare, forse l’avvento di nuovi campi di sterminio di massa – dice Domenico – è necessario tornare uniti, è necessario che i cosiddetti ‘normali’ si mescolino ai cosiddetti ‘pazzi’, ai ‘diversi’. Pensiamo a come suona significativo l’appello del folle Domenico oggi che sono trascorsi anni in cui sono scoppiate guerre (e ancora scoppiano e sono in corso), in diverse parti del mondo (un mondo – bisogna dire – preda del distruttivo meccanismo capitalistico), a causa dell’odio di matrice etnica, a causa dell’incapacità di non riconoscere come simile il proprio ‘vicino di casa’, abitante di un territorio confinante. I ‘folli’, allora, non sono ‘folli’ ma sono forse gli unici capaci di riconoscere un fratello, un amico, un vicino anche in ciò e in chi appare come totalmente diverso. Se i normali e i folli non si rimescoleranno – dice Domenico – il mondo si autodistruggerà perché è giunto ormai già sull’orlo della catastrofe.

Una catastrofe che, alla fine, avviene davvero in Sacrificio (Offret / Sacrificatio, 1986), testamento cinematografico di Tarkovskij, in cui il protagonista Alexander, interpretato da Erland Josephson, lo stesso attore che impersonava Domenico, muovendosi lungo il baratro dell’apocalisse, verrà internato in manicomio per aver dato fuoco alla sua casa nel tentativo di salvare non soltanto la propria famiglia come Domenico, ma l’umanità intera. Nel giorno del suo compleanno, giunge infatti la notizia dello scoppio di una guerra nucleare che molto probabilmente condurrà all’estinzione totale dell’umanità. Anche Alexander, come Domenico, si oppone alla “rocciosa ragione” e, ergendosi a difensore dei valori umani e naturali (nel film è presente una forte impronta ecologista), riuscirà a scongiurare la distruzione e l’apocalisse mediante il rituale del fuoco. Anche in Sacrificio è l’arte rinascimentale, rappresentata ancora una volta da Leonardo, ad aprire squarci di inquietudine. L’autore, secondo l’aneddoto sopra ricordato, agli Uffizi riusciva a vedere soltanto l’arte medievale mentre il Rinascimento per la prima volta liberava la strada alla “rocciosa ragione”, rappresentata dalla tecnica, dalla precisione, dal mercantilismo e dagli scambi commerciali che si stavano sempre più diffondendo nell’intera Europa, per non parlare degli incontri con i ‘diversi’ al massimo grado, gli abitatori delle nuove terre dove era approdato il conquistatore europeo. Se pensiamo alla frase pronunciata dal personaggio di Harry Lime (Orson Welles) ne Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed, l’arte di Leonardo appare inserita in una curiosa – parafrasando Adorno e Horkheimer – “dialettica del Rinascimento”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Leonardo da Vinci apparirebbe quindi, dialetticamente, come l’altra faccia della guerra, del terrore e dell’omicidio. È L’adorazione dei magi, in Sacrificio, a introdurre lo scenario d’apocalisse; si tratta di un quadro, tra l’altro, menzionato dallo stesso regista nei suoi diari come particolare conduttore di una personale e distruttiva sindrome di Stendhal4. La riproduzione del quadro presente nella casa di Alexander, su cui si muove lentamente la macchina da presa inquadrandola attraverso una sottile membrana vitrea (il vetro della cornice o la superficie della finestra), in modo che appaia come visto ‘dall’esterno’, appare quasi come l’estremo lembo di una terra di nessuno nella quale possono avvenire inenarrabili catastrofi.

Nelle inquadrature iniziali vediamo il personaggio annaffiare un albero secco in compagnia del suo bambino ed esibirsi in un monologo-dialogo con quest’ultimo (simile, per certi aspetti a quello di Domenico) sulla necessità di una comunanza dell’uomo con i suoi simili e, soprattutto, con la natura. Così leggiamo in un racconto dal titolo Sacrificio che riprende diverse frasi e momenti del film (ma che non si può considerare una sceneggiatura): “La prima cosa che l’uomo ha provato nel momento in cui si è sentito un uomo è stata la paura. Aveva paura di tutto – delle belve, della tempesta e del buio. Ma, invece di imparare a vivere con la natura, a condividere con lei la sua sorte, a esserle amico, l’uomo ha preferito difendersi”5. Come già notato, il cinema del regista russo dispiega, in certi momenti, l’apertura a una comunanza con la natura e l’ambiente che possiede alcuni aspetti di matrice ecologista che non sono stati ancora indagati a fondo. Sempre nella parte iniziale del film, in una sequenza onirica che appare ad Alexander, vediamo una strada in preda al disfacimento e un’automobile rovesciata, mentre gruppi di persone si muovono disordinatamente, in fuga. Su un giornale abbandonato per strada è forse possibile leggere la parola “Černobil”, con un probabile riferimento al disastro alla centrale nucleare sovietica avvenuto appunto nel 1986, anno di uscita del film. L’apocalisse affiora dal magma di una “rocciosa ragione” che, illuministicamente, allontana sempre di più l’uomo dalla natura, poiché quest’ultimo si percepisce come un corpo estraneo sia alla natura che all’ambiente i quali vengono progressivamente trasformati in strumenti d’uso e di consumo, fino all’attuale sistema di produzione capitalistico. Anche dall’allontanamento dell’uomo dalla natura emergono le catastrofi, come la guerra nucleare che avviene nel film. Nel momento in cui la televisione, prima di spegnersi del tutto, annuncia l’inizio del conflitto, i personaggi, nel salotto di casa che molto ricorda certi interni ‘teatrali’ di Bergman (tra l’altro il film è stato girato in Svezia), assumono una posa granitica, preda di una ragione che sì è rocciosa ma che anche può trasformare in pietra, può rendere gli esseri umani tetri automi e burattini della paura e dell’angoscia. Nel contempo, il suono di sottofondo assume connotazioni devastanti: sentiamo infatti i rumori dei motori di cacciabombardieri in assetto di guerra che sfrecciano provocando sommovimenti tellurici che ad altro non preludono se non ad un’autodistruzione della società umana.

Di fronte a questa pietrificazione, a quest’orrore annichilente provocato dall’uomo, il personaggio oppone il movimento incessante del fuoco, un fuoco immerso in catartiche volute che distruggono quella stessa casa abitata dall’angoscia e dalla paura, dall’orrore del passato e del presente, da lembi di lancinanti ricordi. Il personaggio effettua in bicicletta un percorso sinuoso e serpentino nelle nordiche e nebbiose lande per recarsi dalla ‘strega’ Maria e scongiurare la catastrofe, come suggerito dal postino Otto. Alexander in bicicletta si muove in bilico su quegli stessi scorci di apocalisse, mentre in sottofondo risuonano cupe sirene di navi, e giunge alfine a compiere un atto erotico con la ‘strega’ che appare come un salvifico ricongiungimento con la natura. Dall’eros al fuoco: è il fuoco a espandersi e a levarsi in alto come in molti film di Tarkovskij. È la catarsi che avviene, una salvezza da un’apocalisse che comunque resta sempre in agguato, coi suoi borborigmi ctonii. E Alexander alfine si consegna alla mostruosa disragione e quindi agli abissi della follia e dell’internamento scegliendo per sempre il silenzio, unica risposta che una società basata sul controllo e sulla punizione può offrire a chi ha danzato sui baratri dell’apocalisse, dell’autodistruzione dell’umanità e, muto, annichilito dalla silente prigionia, adesso non può neppure riferirne l’orrore.


  1. Cfr. T. Masoni, P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 7. 

  2. Cfr. F. M. Cataluccio, Tarkovskij e l’Occidente, il Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema tra poesia e profezia, a cura di P. Zamperini, La Casa Usher, Firenze, 1989, pp. 34-35. 

  3. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996 p. 74. 

  4. Cfr. A. Tarkovskij, Diari. Martirologio, a cura di A. A. Tarkovskij, Edizioni della Meridiana, Firenze, 2002, p. 274. 

  5. A. Tarkovskij, Racconti cinematografici, Garzanti, Milano, 1994, p. 279.