di Gioacchino Toni

Al di là delle molteplici forme con cui si manifesta – siano esse quelle di demoni dal ghigno spaventoso, di orribili fantasmi o di antropofaghe vecchie arcigne – e dai linguaggi che lo raccontato – dall’oralità alla scrittura, dal mito al folclore, dalla fiaba al teatro, dal cinema alla televisione e alla cultura pop –, sin dai tempi più remoti il mostro che si aggira per il Giappone è la donna. Di ciò intende dar conto il volume di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese (Mimesis, 2023), proponendo un affascinate e inquietante viaggio alla ricerca del mostruoso femminile che popola l’immaginario giapponese dall’antichità ai giorni nostri cogliendone la messa in discussione dell’idea di normalità e del concetto di identità che strutturano le miopi comfort zone immaginarie in cui ci si illude di trovare rifugio.

Spesso nel mostro è possibile scorgere un corpo che, sottraendosi alla sottomissione, si manifesta come minaccia. I mostri femminili che attraversano la cultura giapponese, al di là della forma con cui si presentano, tendono ad assumere il volto dell’irriducibile Altra. «Un essere femminile che non si piega a un modello imposto, a uno schema previsto» (p. 10). Insomma, nel mostro aleggia un essere fuori controllo che, estrinsecando il suo furore, si trasforma in qualcosa di spaventoso che non può essere imbrigliato. Se di certo tutto ciò non è prerogativa esclusivamente nipponica, ricorda infatti Marangoni come in molte culture si guardi alla donna come fonte di contaminazione e impurità, come a un corpo che attrae e al tempo stesso intimorisce anche per il suo potere riproduttivo, in ambito nipponico assume caratteristiche del tutto peculiari.

Secondo la studiosa, i presupposti culturali della mostruosità femminile in Giappone vanno ricercati nell’ambito del sacro, nel corpus di credenze dell’universo arcaico, contadino, prebuddhista che, a partire dall’epoca moderna, si è soliti denominare shintō, la cui spiritualità ha nella purezza e nella contaminazione due temi fondamentali. Nel mondo arcaico giapponese gli elementi di contaminazione sono soprattutto la morte e il sangue e se quest’ultimo in un primo tempo riguarda indistintamente uomini e donne, lentamente, ma inesorabilmente, con l’affermarsi nel IX secolo di una società sempre più patriarcale, che ha letteralmente espulso le donne dalla ritualità religiosa e dal potere politico, ha preso piede un’idea di contaminazione legata esclusivamente al corpo femminile.

Durante la seconda metà del X secolo, il kegare, la contaminazione del sangue che riguardava, tra l’altro, il parto e le mestruazioni, si trasformò gradualmente in un concetto generale di impurità nelle donne e, dapprima limitato a momenti specifici nel corso della loro esistenza, passò a segnare una totale, definitiva impurità. […] E fu proprio quando i guerrieri presero il potere, alla fine dell’era Heian, che la nozione del kegare femminile si diffuse a livello popolare. Così, in un dato momento della storia giapponese, la donna si ritrova marginalizzata (p. 18).

Di ciò che è stata la donna nello shintō antico sono via via restati soltanto depotenziati ruoli di comparsa e lo stesso buddhismo, nelle molteplici sfacettature con cui si è sedimentato in Giappone, pur avendo nel corso del tempo attribuito anche ruoli importanti alle donne, ha contribuito, secondo la studiosa, al loro sostanziale annichilimento. Se, ad esempio, nel buddhismo primitivo la teoria dei Cinque Ostacoli limita la mobilità spirituale ascendente delle donne, a partire dal IX secolo, nel buddhismo giapponese medievale, con l’interdizione delle donne dai luoghi sacri, si giunge di fatto alla loro esclusione totale dalla buddhità realizzata.

A partire dal VII secolo, i due principali percorsi spirituali che attraversano il Giappone tendono a fondersi in una sorta di sincretismo shintō-buddhista, protrattosi sino almeno alla metà del XIX secolo, che si mescola con gli stereotipi di genere tradizionali.

Se, ad esempio, nel sutra apocrifo di origine cinese Bussetsu daizō shōkyō ketsubon kyō o Il sutra corretto del Buddha sulla ciotola di sangue – tradotto anche come Sutra della Piscina di Sangue – il “problema del sangue” tocca indistintamente donne e uomini, nella versione giapponese, dal momento in cui sono i guerrieri a comandare, viene posta maggiore enfasi sulle mestruazioni e sul parto piuttosto che sul sangue in generale. Insomma le donne vengono ritenute colpevoli, impure per la loro stessa natura. È, secondo la studiosa, proprio dall’affermarsi del concetto di impurità intrinseco alla natura della donna che occorre partire per comprendere la costruzione della sua mostruosità nella cultura giapponese.

Il mito che si sedimenta agli albori della civiltà nipponica si rapporta con la presenza nell’area di elementi della cultura cinese e del confucianesimo dando luogo a un’immagine ambivalente delle figure femminili: potenti e coraggiose ma anche soggette al volere maschile che le riduce al silenzio. Dal momento in cui sono gli uomini a narrare i miti e le storie, la figura femminile tende a essere via via annichilita dalle religioni e dalla civiltà del Giappone: «la donna è estromessa dal potere, allontanata dalla possibilità di compiere azioni di mediazione fra mondo dei vivi e mondo dei morti (ricordo che le prime regine erano anche sciamane) per ritrovarsi relegata a un ruolo decorativo, subordinato, ruolo che è ancora ben presente nel Giappone contemporaneo» (p. 35).

Un personaggio paradigmatico dell’indole femminile secondo la visione maschile che struttura il mito giapponese, presente anche nelle fiabe e nel folclore, è quello della donna dall’indole mutante e ingannatrice che irretisce l’uomo attraverso la sua bellezza nascondendo la sua vera personalità e, in definitiva, la sua mostruosità. Non sono rari i casi in cui la donna si trasforma in animale o si rivela tale. Altro elemento ricorrente nell’immaginario giapponese è quello della donna inafferrabile, costantemente in fuga, come nei casi della yukionna, “donna di neve”, e della kuwazu nyōbō, la “moglie che non mangia”.

La yukionna, diffusasi soprattutto nel Giappone nord-orientale, è una sorta di creatura la cui bellezza cela un essere vampiresco che succhia la vita degli uomini.

Nel personaggio della yukionna si rivela ancora una volta la duplicità della donna, una duplicità che si ravvisa, anche se in modi diversi, un po’ in tutte le storie che possiamo prendere come esemplari in un discorso sul mostruoso femminile. L’incapacità di definire questo Altro che è la donna, la sua inafferrabilità, la sua ostinazione a non voler sottostare alle regole, al controllo, infine l’impossibilità di capirla perché “è lei che non vuol farsi capire”, così come non vuole farsi catturare, imbrigliare in una rete: tutto ciò la rende fonte perenne di preoccupazione, di ansietà, di malessere (pp. 62-63).

Il personaggio della kuwazu nyōbō è presente in numerose varianti in tutto il Giappone: una donna ambita come moglie perché sembra non nutrirsi mai, una donna non problematica, che lavora alacremente senza consumare, ma che poi, osservata di nascosto, si mostra invece una divoratrice insaziabile che, vistasi scoperta, si rivela spietata nei confronti del marito.

L’onibaba, demone femminile vivente, non proveniente dall’aldilà, compare in numerose storie nipponiche sotto forma di donna in preda al risentimento e ad un insopprimibile desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo. Spesso questo demone si rivela come una vecchia dall’aspetto spaventoso.

Altro demone ricorrente nelle favole giapponesi è quello della yamauba, la “vecchia della montagna”, a volte benevola, altre molto meno tanto da rivelarsi un essere mostruoso stupido e crudele, che si ciba di carne umana e incline a bere il sangue dei neonati, spesso descritta come una creatura che vive rintanata nelle montagne a metà tra l’animalesco e l’umano, dai lunghi capelli bianchi scarmigliati, con piedi ferini, denti aguzzi e unghie lunghissime. Quando viene a contatto con gli uomini può avere con loro un atteggiamento passivo (soprattutto quando li riceve nel proprio territorio) o attivo (quando è lei a recarsi nelle abitazioni altrui) rivelandosi antropofaga.

Che si tratti di mostri o divinità, sono frequenti i casi in cui le figure femminili che popolano le storie giapponesi mostrano la loro duplicità, si rivelano indefinibili e mutanti, a volte benevole, altre spietate. La rōjo, ad esempio, è una presenza spettrale di vecchia dai lunghi capelli bianchi che indossa un kimono bianco, diafana, spesso intenta a filare, una figura isolata e liminale in bilico fra la vita e la morte. In alcune fiabe è presente la figura della donna vecchia che, considerata ormai improduttiva, viene abbandonata dai famigliari o dalla comunità; quasi a ricompensarla dell’accantonamento vine dotata del potere di produrre ricchezza materiale che solitamente dispensa a sconosciuti mostratisi compassionevoli nei suoi confronti.

Ricorrenti nelle storie giapponesi sono situazioni in cui la donna si rivela – “per sua natura” – in preda a un sentimento incontrollabile di gelosia che può renderla un essere demoniaco, oppure situazioni in cui la donna soggetta a fantastiche trasformazioni rivela l’incapacità di domare il proprio corpo, di conformarsi al modello di donna deciso per lei dal patriarcato, da tale inadeguatezza deriva il suo allontanamento dalla comunità.

Le forme di spettacolo e di letteratura popolare che si sono sviluppate in Giappone in epoca Edo, spiega la studiosa, hanno le radici tanto nelle antiche forme di religiosità popolare quanto in forme di devozione di derivazione buddhista.

Una delle convinzioni più diffuse e rintracciabili ancor oggi è quella riguardante i goryō, “spiriti inquieti” (o onryō, “spiriti irati”). È, questa, una credenza che sta alla base di molte storie di fantasmi. Alle radici della credenza negli spiriti inquieti è la preoccupazione generalizzata circa la contaminazione da varie fonti di impurità quali la morte, la nascita, il sangue e la presenza delle relative pratiche culturali che circoscrivevano l’impurità (p. 117).

A differenza di quanto accade nel Giappone antico, in epoca moderna, soprattutto nel teatro e nell’arte della stampa dal XVIII in poi, gli spettri sono esclusivamente donne che manifestano una rabbia di tipo interiore derivata dalla gelosia e dal risentimento. Spesso sono rappresentati con con un kimono bianco privo di cuciture, sul modello della veste funeraria, fluttuanti nell’aria accompagnati da fuochi fatui blu, verdi o violacei.

Tradizionalmente, nella cultura nipponica i capelli hanno tanto una connotazione positiva, legata alla forza e alla fertilità, che negativa, rinviante al selvaggio, al corpo incontrollato, dunque alla sessualità. Nel corso del tempo la lunga capigliatura nera spettinata diviene ricorrente dapprima nel folclore, poi nel teatro, dunque nel cinema manifestando la perdita del controllo del corpo e il tormento o il furore delle passioni. I fantasmi femminili che popolano l’inizio del periodo moderno sono dunque in buona parte legati a risentimenti privati derivati da tradimenti o amori non corrisposti.

A partire dal XIX secolo i nuovi personaggi mostruosi femminili non sono più, come accadeva precedentemente, intenti a ritrovare la pace o a riconciliarsi con il passato, quanto piuttosto ad agire nel presente per vendicarsi scatenando la rabbia che li anima contro chi viene individuato come nemico. Ciò che anima questi spiriti femminili è dunque «un desiderio di vendetta per la soddisfazione di veder trionfare la propria rabbia» (p. 126).

L’idea e l’immagine del dèmone spaventoso come la yamanba o la yukionna resta una costante nell’immaginario giapponese, ma alla fine del XIX secolo, con l’ingresso in Giappone di motivi legati ai movimenti letterari e filosofici europei e con il desiderio del Giappone di modernizzarsi anche dal punto di vista culturale smarcandosi dal feudalesimo di periodo Edo, muta velocemente la visione della donna: da dèmone spaventoso a bella e crudele, bella senz’anima. La belle dame sans merci, che si trasformerà in questo periodo di passaggio fra un secolo e l’altro in femme fatale, in dark lady, inizia a comparire nelle pagine della letteratura, dapprima accompagnata, da una vena di esotismo, poi riforgiata come personaggio giapponese (pp. 139-140).

Nel Giappone moderno, tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo, alla donna brutta che popola gli incubi maschili si sostituisce la donna bellissima e seducente che conduce alla perdizione: «bella ma crudele, bella ma glaciale, bella ma priva di morale. È la donna-vampiro, la dark lady, la femme fatale» che, secondo Marangoni, si contrappone

alla donna orripilante delle epoche precedenti perché, in passato, aspetto fisico e aspetto interiore si saldavano in un’unica visione spaventosa, mentre nella modernità si assiste a una separazione fra aspetto fisico – che in generale è di grande bellezza, una bellezza quasi sovrumana o comunque non-umana – e la natura della personalità, inquietante, crudele, malvagia, priva di sentimenti, e quindi capace di grande seduzione ma incapace effettivamente di amare. Una separazione, appunto. Vediamo che la donna è malvagia perché è corruttrice in quanto rende succube l’uomo al potere dell’erotismo, lo porta alla perdizione, a uno smarrimento non solo fisico ma ideale, a perdere di vista i suoi obbiettivi, i suoi schemi morali, per precipitarlo nell’inferno, un inferno di immoralità, di depravazione, di lussuria e così via (p. 141).

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo emerge un inedito desiderio di sovvertire le regole sociali, politiche e sessuali.

si attesta la visione di una nuova donna demoniaca, crudele nella sua arte della seduzione condotta con spietatezza, un personaggio che si sostituisce alle figure femminili del folclore. Non è però meno spaventosa né meno minacciosa di chi l’ha preceduta nell’immaginario fiabesco, poiché rappresenta una nuova sfida nei confronti del patriarcato e soprattutto del nuovo modello di femminilità imposto alle donne del nuovo stato Meiji, donne che devono fare la loro parte nell’avanzata verso la modernità, verso l’industrializzazione, verso la crescita bellica del nuovo Giappone. E il modello è quello, ricordiamolo, della buona moglie e madre saggia (p. 148).

Nel cinema giapponese il personaggio della femme fatale manifesta alcune caratteristiche ricorrenti strettamente collegate tra di loro: erotismo, morte, conflitto di genere. L’uomo, presentato come preda, subisce l’attrazione di una donna altera e sensuale a cui non può resistere ritrovandosi così intrappolato in preda a un erotismo distruttivo che si traduce in morte. In tale rapporto distruttivo l’uomo tende ad essere trascinato verso il baratro da una femme fatale dissimulatrice che, in preda a un desiderio di rivalsa di genere, «gioca, lucida e spietata, con il suo burattino, lo solleva, lo blandisce e in un moto di dispetto, lo abbatte. E trionfa» (p. 162).

Ovviamente, sottolinea la studiosa, in un contesto come quello giapponese, in cui «alle donne era stato imposto un ruolo subordinato non solo nella realtà, ma anche nell’immaginario» (p. 163), un personaggio come quello della femme fatale non può avere fortuna: troppo inquietante per l’immaginario maschile e pericolosa fonte di immedesimazione femminile.

Così la dark lady, che nella cinematografia hollywoodiana è caratterizzata da una potente sessualità e da un potere distruttivo, diventa nel cinema giapponese qualcun altro. Qualcos’altro. Un mostro, un fantasma, una creatura soprannaturale dalla vita breve: incanta l’uomo, lo innamora, lo seduce, e poi se ne va come era arrivata. Scompare come un sogno o, se mostro, viene placato con riti e incantesimi e infine, pacificato, reso inoffensivo, fatto scomparire. Un incubo notturno che la luce del mattino allontana (p. 163).

Le femme fatale fanno la loro breve comparsa nel cinema giapponese non come donne reali ma come fantasmi. Ben altri sono «i personaggi femminili accettabili: l’amante “bambina”, capricciosa e inoffensiva, la moglie diligente e devota, la nuora preziosa e filiale» (p. 166).

Nella cultura giapponese i mostri femminili sono una presenza costante; hanno saputo adattarsi alle epoche esprimendo nuove paure e lo hanno fatto occupando i nuovi media man mano disponibili. Dalle pagine sono via via passati ai cinema, ai manga delle edicole, ai videogiochi fino ai parchi a tema. «I contenuti dell’immaginario si rinnovano e alcuni mostri nuovi escono allo scoperto, rivelando, se ce ne fosse ancora bisogno, che le certezze del nostro tempo hanno piedi d’argilla, che le donne giapponesi faticheranno ancora a lungo prima di brillare. Il XXI secolo, in questo, non sembra molto diverso dal XX» (p. 169).

Sul finire degli anni Settanta del Novecento, nelle campagne della prefettura di Tochigi, a nord-est di Tōkyō, per poi diffondersi nel resto del Giappone, si diffonde una sorta di leggenda metropolitana che rivela inquietanti avvistamenti, riportati dai media, di un altro mostro femminile: la kuchisake onna, “la donna dalla bocca spaccata”, una donna dotata di una bocca spaventosamente larga.

La sua iconografia classica è quella tipica della office lady, indossa un completo da ufficio d’ordinanza (giacca, camicia e gonna), ma presenta a prima vista un elemento discordante. I suoi lunghi capelli neri, infatti, sono scomposti, spettinati in un turbine che già in sé rivela un che di mostruoso. La bocca va da un orecchio all’altro, spalancata, rivela denti aguzzi e un sorriso che più che amichevole è minaccioso (p. 170).

A caratterizzarla è inoltre il ricorso a una mascherina chirurgica, con cui cela la bocca spaventosa, e il possesso di una lama di grandi dimensioni (falce, forbici o  coltellaccio).

Ennesimo mostro femminile capace di terrorizzare. «Cosa c’è di così inquietante in un volto dalla bocca spropositatamente grande? La consapevolezza che non si tratta di un essere umano, ma dell’ennesima espressione femminile della minaccia» (p. 171). Variamente interpretata all’epoca, in questa mostruosità si è preteso vedere una denuncia dei guasti della chirurgia estetica – in voga soprattutto nel corso degli Ottanta –, oppure «una denuncia della kyōiku mama, o educational mama, un comportamento materno sempre più invadente sulla scolarizzazione dei ragazzi, competitivo e castrante» (p. 171). Nella simbologia della bocca larga vi è anche chi ha individuato

un chiaro riferimento alla femme castratrice, quella vagina dentata che è manifestazione delle paure maschili più nascoste. Una donna disposta a tutto pur di mantenersi giovane e bella. Una madre che si trasforma in un mostro malvagio e inibente. Una office lady che nasconde il desiderio delle donne di far carriera, spodestando gli uomini dal mondo del lavoro, dalla vita aziendale. Sostituendosi a essi. Una minaccia terribile. E quanto lontana dalla verità, verrebbe da aggiungere (p. 172).

Insomma, secolo dopo secolo, la donna sembra essere sempre associata a fenomeni empi, disordinati, subumani e sgradevoli, come se contenesse in sé qualcosa che la rende nemica dell’umanità (maschile), estranea alla sua civiltà.

Lo abbiamo visto, un lungo e sottile filo, rosso come il sangue, collega gli yōkai femminili, dalla rabbia esteriorizzata, dalle fauci spalancate e dalle corna minacciose, con le altrettanto – sottilmente ma inesorabilmente – pericolose dark lady delle pagine letterarie di fine XIX, inizio XX secolo. Ma non finisce qui, perché nuovi mostri si creano e la filiazione, dalle yomotsu shikome del mito alla kuchisake onna e oltre, prosegue lungo le linee dell’immaginario (maschile) giapponese (p. 173).

Marangoni conclude riflettendo sulle “cattive ragazze” che attraversano le megalopoli a ridosso del cambio di millennio sfrontate nell’infrangere il modello della “ragazza perbene”, la ojōsama, di buona e abbiente famiglia, istruita senza necessità di lavorare, sfoggiante un dress code classico, dal comportamento composto, cortese, non assertivo. È a tale modello che si contrappongono ragazze moderne, disinibite, spesso proveniente da famiglie di classe medio-bassa, caratterizzate da trucco appariscente, abbronzatura, abbigliamento trasgressivo e atteggiamento attivo, assertivo; una galassia di mutevoli tribù urbane (kogyaru negli anni 1995-1998, ganguro negli anni 1998-2000, yamanba dal 2000, manba dal 2003 ecc.). Sono forse mostri queste ragazze? Diverse letture sociologiche di tali fenomeni giovanili vi hanno individuato una volontà di sfida lanciata verso gli uomini, soprattutto anziani.

Queste sottoculture scardinano l’idea che noi abbiamo del Giappone, di una società omogenea: è quello che ci hanno fatto credere; ce l’hanno fatto credere per tutti gli anni Ottanta, ce l’hanno fatto credere studiosi che hanno voluto presentarci una società che nei loro intendimenti era totalmente armonica, in cui non c’era posto per la diversità, in cui non c’erano elementi fuori posto. […] Mi piace vedere come le ragazze anche quando non sono in gruppo non smettono di manifestare la propria unicità anche con piccoli particolari, lottando contro la sessualizzazione ancora fortissima del corpo femminile, contro la sua mercificazione (pp.175-176)

In comune con i mostri della tradizione queste cattive ragazze hanno il rigetto della società che sta loro attorno. Ma, in definitiva, conclude Marangoni, in cosa consiste la mostruosità della donna?

Creature ambigue, che suscitano in noi sentimenti ambivalenti, contraddittori: orrore/meraviglia, attrazione/ repulsione. Creature liminali, in bilico fra due dimensioni (e, a volte, fra due generi): noi/l’altro, bene/male, passato/presente, questo mondo/l’altro mondo. Creature che mettono in discussione la nostra idea di normalità e il nostro concetto di identità. Queste ragazze che creano la propria moda per le strade delle megalopoli continuano a dirci che i mostri siamo noi, siamo noi nel nostro rifiuto, nella nostra incapacità di comprensione, nella nostra incrollabile fede nel giudizio degli altri e nel nostro desiderio di puntare l’indice contro gli altri senza tentare di capirli (p. 177).