di Walter Catalano

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, pp. 340, euro 39,00 stampa.

Diciamocelo francamente, se non portasse la firma di Bob Dylan un libro, piuttosto brutto e piuttosto inutile, come questo chi se lo leggerebbe ? Quasi nessuno, credo, e magari solo perchè illuso da un titolo, Filosofia della canzone moderna, che ben poco ha a che vedere con il contenuto effettivo. Niente filosofia infatti – se con questo termine intendiamo una teoria coerente e sistematica – ma piuttosto un flusso incontrollato di elucubrazioni a ruota libera, spesso di una banalità sconcertante, e neanche troppa canzone moderna, visto che il pezzo più recente di cui si parla è London Calling dei Clash (1979) e che la grande maggioranza dei brani selezionati risale a un periodo compreso fra gli anni ’20 e i ’60: canzone moderna sì, ma per un ottantenne !

Dylan ha semplicemente elencato a casaccio, senza il minimo ordine o criterio – cronologico, tematico, musicologico – che sia, una serie di canzoni gradite affiancandole ad immagini e fotografie anche queste, a parte una comune estetica retrò, generalmente appiccicate con assoluta arbitrarietà. Ad ognuna è accoppiata (ma non proprio sempre, dipende evidentemente dagli scartafacci che nonno Bob aveva per le mani…) una prima parte che, chissà, vorrebbe essere “lirica“ e una seconda che, di nuovo chissà, vorrebbe essere “critica”. Se la seconda potrebbe avere talvolta – raramente in verità – qualche vago spunto di interesse, la prima è solo un conato simil-stream of consciousness di immagini e storielline stereotipate in stile beatnik e, come quasi tutto quanto abbia mai prodotto il bluff letterario della Beat Generation, praticamente illeggibili. Forse se affrontate in originale inglese queste pagine potrebbero – ci auguriamo – anche avere almeno il fascino dello slang bizzarro, del calembour linguistico, dell’idiom inaspettato, ma tradotte in un italiano discutibile fanno un effetto davvero ridicolo e deprimente. Qualche esempio: “E perché quella capretta non se ne va una buona volta ? La vuoi straziare e mutilare, la vuoi vedere in agonia, anzi vuoi pompare l’intera faccenda finchè sarà così gonfia che ci potrai passare le mani dappertutto e strizzarla finchè non collassa” (su Pump It Up di Elvis Costello); “Non si muovono e non parlano, ma sono vibranti di vita e contengono il potere infinito del sole. E mi vanno bene come il giorno che le ho trovate. Forse ne avete sentito parlare, delle scarpe di camoscio blu. Sono blu, blu reale. Non blu deprimente; sono blu assassino, come quando la luna è blu, sono un tesoro. Non cercate di soffocare il loro spirito, comportatevi come un santo, cercate di starne più lontani che potete” (su Blue Suede Shoes  di Carl Perkins); “Giochi a campana a ritmo di boogie, il boogie della rumba, il boogie tacco e punta, all’assalto del mistero del sole, tutti a fare il boogie. Mamme e papà, anzianotti e vecchie glorie, Schulberg, Gaugin, Picasso e Little Miss Muffet, tutti fanno il boogie, ma nessuno lo fa come voi due” (su Feel so Good di Sonny Burgess); “Questa canzone scioglie tutto, lo brunisce e lo frigge ben bene; mungerà la mucca fino a farle dare sangue. E’ uno spirito guida e sarà la tua interprete in terre straniere”. (su Keep My Skillet Good and Greasy di Uncle Dave Macon); “E’ lei l’antica rana che vede col naso e annusa con la lingua; sa benissimo cosa ti fa infuriare e ti chiama testa di cazzo, segaiolo o tappetto. Quella vecchiaccia maledetta ha uno spirito volubile, ha bandito dalla tua vita tutto ciò che è sacro e puro, ti fa regredire a uno stadio infantile. E’una peperina sexy dal gusto sgradevole, una pazza furiosa, e ti ha fatto prigioniero dei tuoi demoni interiori” (su Witchy Woman degli Eagles); e via di questo passo. Per quanto può tirare avanti senza annoiarsi, con tutta la buona volontà, il povero lettore ? E cos’avrà in cambio alla fine ? Ha imparato qualcosa, si è emozionato, si è divertito ? La risposta è assai dubbia.

Destano almeno curiosità anche i gusti musicali dylaniani che hanno determinato le inclusioni: si va da Volare di Domenico Modugno, a Strangers in the Night di Frank Sinatra; da Black Magic Woman dei Santana (in realtà del grande Peter Green), a My Generation degli Who; da Mack the Knife di Bobby Darin (versione americana di Mecky Messer dall’Opera da tre soldi di Brecht/Weill), a Tutti Frutti di Little Richard. Prevalgono comunque pezzi di Country e Bluegrass o di mainstream melodico in genere del tutto sconosciuti al pubblico italiano e per questo non particolarmente coinvolgenti.

Famose o ignote che siano le canzoni, comunque, il premio Nobel per la letteratura ha ben poco da raccontare su di loro. Poco di interessante almeno. Massimo rispetto per il Dylan compositore, per il Dylan paroliere (poeta se vogliamo, ma sempre con la musica sotto…), bisogna però con altrettanta sincerità avere il coraggio di dichiarare che il Dylan scrittore vale poco e che un libro come questa pretesa “Filosofia della canzone moderna” non era affatto necessario.

 

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