di Paolo Lago

Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955) di Orson Welles è un geniale assemblage di situazioni grandguignolesche e di peregrinazioni picaresche da un capo all’altro del mondo. Il mr. Arkadin del titolo è un mefistofelico miliardario (interpretato dallo stesso Welles) che incarica Guy Van Stratten (Robert Arden), un contrabbandiere e avventuriero americano, di cercare attraverso il mondo notizie sulla propria vita (afferma infatti di non riuscire a ricordare il modo in cui si è arricchito fino a raggiungere la sua straordinaria notorietà). I viaggi di Van Stratten si allineano, si succedono e si mescolano in modo assolutamente libero e disordinato, creando una quantità incredibile di incontri. Le avventure si svolgono in una modalità di flashback: è lo stesso personaggio a raccontarle all’ultimo uomo incontrato nella sua ricerca, l’ex galeotto Jacob Zouk. Van Stratten, come è stato osservato, si presenta come un narratore poco affidabile, caratterizzato da una eccessiva tendenza allo stupore e all’ingenuità; è stato infatti definito «malcerto, confuso, autodistruttivo» per cui «le sue reazioni aumentano l’effetto di irrealtà malsana delle situazioni e degli eventi»1.

Il film ha un aspetto frammentario che accentua ancora di più la casualità del succedersi delle avventure 2. Tale frammentarietà è dovuta sia alle condizioni difficili in cui fu girato (in fretta e con poco budget) sia ad una precisa scelta autoriale3. Le prime inquadrature ci mostrano un piccolo aereo in volo, mentre una voce fuori campo sta commentando la misteriosa apparizione, nei pressi di Barcellona, di un aereo senza pilota (sapremo in seguito che su quell’aereo si trova lo stesso Arkadin). Le immagini dell’aereo, quindi, già di per sé stesse, rimandano all’idea di viaggio; si potrebbero includere, perciò, all’interno dei «sintagmi a graffa». Secondo la definizione di Christian Metz, questi ultimi, appartenenti al tipo dei «sintagmi a-cronologici», servono ad evocare dei concetti che torneranno nel corso del film4. In questo caso, i sintagmi a graffa iniziali evocano in forma allusiva il motivo del viaggio utilizzando le ripetute inquadrature di un mezzo contemporaneo di spostamento come l’aereo. Essi sono a-cronologici rispetto alle vicende della storia in quanto si situano addirittura prima dei titoli di testa: il viaggio e lo spostamento veloce da una parte all’altra del globo saranno quindi le tematiche fondamentali del film.

Dopo le immagini che riprendono l’aereo in volo vediamo Van Stratten che, in una strada innevata di Monaco di Baviera, si sta recando da Jakob Zouk. È proprio a quest’ultimo, come accennato, che il personaggio narrerà l’intera vicenda del film. Il racconto inizia nel porto di Napoli allorché Van Stratten e la sua compagna di avventure Mily incontrano un uomo morente, un tale Bracco il quale confida ai due il nome di Gregory Arkadin. È proprio da questo nome che prenderanno il via le vicende picaresche di Van Stratten; quest’ultimo, infatti, dopo aver scontato la pena per contrabbando a Napoli, si mette sulle tracce del mefistofelico miliardario. La sua ricerca lo condurrà in Spagna dove Arkadin possiede un castello; qui conoscerà la figlia Raina che cercherà di sedurre per arrivare al padre. Il viaggio del personaggio prosegue attraverso le strade del paesino spagnolo di San Tirso; quelle spagnole sono in effetti vicende molto movimentate seguite da una macchina da presa che si muove essa stessa sulla strada offrendo immagini veloci e frammentarie (non a caso Mr. Arkadin sarà uno dei film preferiti dai teorici della Nouvelle Vague). Van Stratten e Raina si rincorrono per le strade correndo e parlando in modo concitato, imbattendosi ora nel gioco di alcuni ragazzi, ora in carri trainati da buoi e in un gregge di capre, poi di nuovo in un gruppo di ragazzi che giocano a palla. La propensione del personaggio a viaggiare viene quindi sottolineata in modo simbolico anche durante questi suoi movimenti più brevi: la velocità e l’andatura zigzagante che si oppone alla regolarità di una linea retta sembrano quasi evidenziare il disordine dei suoi viaggi successivi. In alcune sequenze, lo vediamo imbattersi in una processione di penitenti a San Tirso durante una festa religiosa; da una parte della processione si trova Raina, dall’altra Mily. Van Stratten allora, per spostarsi fra le due donne, si muove seguendo una linea zigzagante che taglia in due la teoria ordinata dei penitenti, che si muovono seguendo una rigida linea retta. Il personaggio si inserisce perciò come un elemento di disordine, libero da ogni vincolo nel suo spostamento, che si oppone all’ordine quasi geometrico scandito dai penitenti. Un movimento che – si potrebbe osservare – anticipa i viaggi attraverso il mondo, disordinati e senza una meta precisa, che successivamente gli commissionerà Arkadin.

Le avventure del film si succedono l’una all’altra con una straordinaria velocità: o i personaggi corrono rincorrendosi lungo una strada (come Van Stratten e Raina nell’episodio sopra accennato) oppure fanno a gara a chi riesce a prendere per primo un aereo per recarsi da una parte all’altra di un continente (come Arkadin e Van Stratten nelle sequenze finali ambientate all’aeroporto di Monaco). Oppure, ancora, gli spostamenti si allineano disordinatamente e iperbolicamente in rapida successione, come vediamo nelle inquadrature che mostrano le tappe dei viaggi di Van Stratten sul tabellone dell’aeroporto. Il personaggio viaggiatore, a San Tirso, capiterà anche (quasi per caso poiché non possiede l’invito) ad una festa in maschera ispirata alla pittura allucinata di Goya, organizzata da Arkadin nel suo castello. È proprio durante la festa, una volta appartatosi con Van Stratten, che Arkadin gli chiede di redigere un «rapporto confidenziale» su di lui, fingendo un’amnesia. È così che hanno inizio i fantasmagorici viaggi del personaggio: una vera e propria erranza nomadica sulla scacchiera del mondo. Il concetto di ‘nomadismo’ lo riprendo da alcune suggestive intuizioni di Deleuze e Guattari in Mille Piani, un’opera percorsa costantemente dal fascino per la dimensione nomadica alla quale i due studiosi applicano una valenza socio-politica. Innanzitutto, essi delimitano il concetto di spazio sul quale agisce il nomade, definendolo come «spazio liscio» da contrapporsi allo «spazio striato»: «lo spazio sedentario è striato da muri, recinti e percorsi fra i recinti, mentre lo spazio nomade è liscio, marcato soltanto da “tratti” che si cancellano e si spostano con il tragitto»5; al concetto di nomadismo viene attribuita una dimensione fortemente politica: il nomade è colui che si oppone all’apparato di Stato tramite una «deterritorializzazione» all’interno di uno spazio liscio-simbolo come il deserto6, possedendo interamente lo spazio sul quale agisce. Le parti del corpo del nomade «occupano e riempiono uno spazio alla maniera di un turbine, con possibilità di apparire in un punto qualunque»7.

Sia Arkadin che Van Stratten hanno la possibilità di apparire in un punto qualunque: il primo grazie al suo enorme potere, il secondo in funzione, appunto, del gioco libero e liberato che egli compie nel viaggiare da un capo all’altro del mondo come se si muovesse su una scacchiera e andasse in cerca delle pedine avversarie. La ricerca degli ex contrabbandieri, criminali, spie che Van Stratten attua attraverso l’Europa e il mondo viene introdotta da alcune immagini che, rifacendosi ancora alla classificazione di Metz, potrebbero essere incluse entro la definizione di «sequenza a episodi» : secondo lo studioso francese, essa mostra una serie di scenette che si succedono in ordine cronologico e che mostrano degli avvenimenti in rapida successione che non potrebbero essere trattati in modo più ampio all’interno della diegesi filmica8. La sequenza a episodi in questione vuole infatti alludere ai rapidi viaggi del personaggio: dopo l’inquadratura del tabellone di un aeroporto con i nomi delle città dove egli si recherà, lo vediamo muoversi in quelle stesse città e interloquire con svariati personaggi. Poi assistiamo agli episodi veri e propri: lo vediamo quindi parlare a Copenaghen con un domatore di pulci ammaestrate; a Amsterdam con un ricettatore; a Parigi con una baronessa decaduta, tutti personaggi che hanno conosciuto Arkadin e che, con lui, sono appartenuti all’universo del crimine di un’Europa postbellica. Il motivo dell’incontro assume qui proporzioni iperboliche: gli incontri sono ripetuti, velocissimi e disordinati e si attuano in brevissimo tempo ai quattro angoli del pianeta. Sembra che il tempo e lo spazio siano ormai ‘liberati’ in virtù di uno spostamento nomadico che assomiglia, paradossalmente, come osservavano Deleuze e Guattari, al rimanere fermi in un posto. La struttura picaresca, nel film di Welles, assume una dimensione antiquotidiana: il tempo ‘liberato’ fa sì che il viaggio possieda la capacità di andare oltre l’angoscia e la disperazione.

I personaggi viaggiano e si incontrano lungo spazi lisci ad una tale velocità che è come se rimanessero fermi in un posto. Basti ricordare la sequenza ambientata in Messico, dove Van Stratten si reca per cercare una vecchia amante di Arkadin: il personaggio telefona al miliardario per dirgli cosa ha scoperto, credendolo in Europa; poco dopo scoprirà che anch’egli si trova in Messico e lo sta osservando col binocolo da un luogo vicino. Il film si chiude riprendendo di nuovo le vicende di Van Stratten a Monaco con Jakob Zouk e, anche qui, avverrà un nuovo incontro con Arkadin: anche a Monaco Arkadin era già arrivato prima. Le sequenze finali ci mostrano un ultimo viaggio, quello fatto dai due per raggiungere Barcellona: all’aeroporto di Monaco essi si contenderanno l’ultimo volo, già occupato da Van Stratten, e il miliardario sceglierà allora di partire con un piccolo aereo alla volta della città spagnola. Ma, pensando che Van Stratten, sfuggito alla morte, abbia già detto a Raina la verità sul suo conto, cioè che egli, prima di arricchirsi, era un malvivente impegnato nella «tratta delle bianche», sceglierà di precipitare insieme all’aereo.

I turbinosi viaggi del film sono terminati; a questo punto possiamo osservare che dovunque si reca Van Stratten va anche Arkadin ed è sempre già là prima di lui. Quello dei due personaggi attraverso il globo è uno spostamento accelerato che giunge quasi ad annullare sé stesso. Essi appartengono a tutto il mondo e lo possiedono quasi senza muoversi dallo stesso luogo. Il viaggio c’è, sussiste sotto forme iperboliche e rapidissime ma è ridotto ad una dimensione ludica, è come se non ci fosse; è come se i personaggi, per percorrere centinaia e migliaia di chilometri, non si spostassero nemmeno dal luogo di partenza. Il movimento, come osserva Deleuze, diventa un «falso movimento»9, un’erranza senza senso sulla scacchiera del mondo.


  1. J. Naremore, Orson Welles ovvero la magia del cinema, trad. it. Marsilio, Venezia, 1993, p. 261. 

  2. Definito da Naremore come «il più frammentato dei film di Welles» (ibid.). 

  3. Cfr. ivi, p. 263: «Lo stile sconcertante e scoordinato del film di Welles è senz’altro in parte dovuto alle condizioni in cui è stato girato, ma è anche quello più appropriato a uno dei temi sotterranei che lo percorrono: la decadenza e la metamorfosi dell’Europa dopo la guerra». 

  4. Cfr. C. Metz, Semiologia del cinema, trad. it. Garzanti, Milano, 1989, pp. 175-177. 

  5. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 452. 

  6. Cfr. ivi, p. 453: «Il nomade è là, sulla terra, ogniqualvolta si forma uno spazio liscio corrosivo che tende a espandersi in tutte le direzioni. Il nomade abita questi luoghi, resta in questi luoghi e li fa crescere. Di conseguenza si può dire che il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui. È vettore di deterritorializzazione. Aggiunge il deserto al deserto, la steppa alla steppa, con una serie di operazioni locali in cui l’orientamento e la direzione non smettono di variare». 

  7. Ivi, p. 452 

  8. Cfr. C. Metz, Semiologia del cinema, cit., pp. 181-182; per illustrare la sequenza a episodi Metz riporta proprio un esempio tratto dalla cinematografia di Welles, da Quarto potere (Citizen Kane, 1941). 

  9. Cfr. G. Deleuze, L’immagine tempo. Cinema 2, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989, p. 161: «Si produce allora un capovolgimento in cui il movimento cessa di farsi forte del vero e in cui il tempo cessa di subordinarsi al movimento e le due cose accadono contemporaneamente. Il movimento fondamentalmente decentrato diventa falso movimento e il tempo fondamentalmente liberato diventa potenza del falso che ora si svolge nel falso movimento (Arkadin sempre già là)».