di Francisco Soriano

La caduta dell’Afghanistan nelle mani degli “studenti di dio” sembra aver sorpreso l’intera comunità internazionale, finalmente consapevole dell’errore storico e strategico durato per più di vent’anni senza che vi sia stato un solo risultato positivo frutto della visione di futuro degli americani e delle altre potenze occidentali in quei territori. Una tragica ellissi dal punto di vista politico, militare e umanitario che solo la storia e il tempo potranno definirci nella intensità del fallimento.

A qualcuno era bastato vedere la foto di famiglia fra talebani ed eminenze cinesi di qualche settimana fa per comprendere quello che si sarebbe verificato. Non una sola donna presente in questa straziante cornice di personaggi dell’orrore, già pronti a intessere buone relazioni e patti fraterni sulla pelle di milioni di diseredati, donne e bambini. La Cina all’indomani delle dichiarazioni della partenza degli americani aveva già compreso l’opportunità di insinuarsi in un territorio, dal punto di vista geopolitico ed economico, assolutamente irrinunciabile nello scacchiere delle potenze mondiali. La sete di dominio dei cinesi è inarrestabile e trova nel redivivo regime talebano, bisognoso di approdi e legittimazione politica, la possibilità di sancire qualsiasi patto che possa rafforzarli e favorirli in un momento di riorganizzazione strategica all’interno di un Paese vasto e deficitario di ogni infrastruttura.

Di motivi credibili per capire questa “avanzata-lampo” dei talebani nella presa del potere ce ne sono indiscutibilmente molti. In realtà è un ritiro programmato e pensato nel tempo. Fra questi non è possibile rinunciare alla amara constatazione, quasi come un incipit alla complessità del ragionamento, di affermare quanto ancora una volta, la strategia americana nel Vicino oriente sia stata tracotante, grossolana e “inconsapevole” al limite della più sensata ed elementare capacità di rendersi conto delle difficoltà delle realtà in cui ha inteso agire. Un rosario di insuccessi e ritirate che hanno destabilizzato popoli e nazioni, hanno prodotto guerre e carestie, esodi e atti di insensata disumanità ai limiti della sopportazione.

Oggi il ragionamento cinese con gli afghani è stato, come al solito, pragmatico e sostanziale. Il primo risultato dopo lo scellerato ventennio di occupazione è stato quello di consegnare l’Afghanistan nelle mani del miglior offerente: il ministro degli esteri Wang Yi incontrando una delegazione di nove membri dei talebani capeggiata dal Mullah Abdul Ghani Baradar, alla fine di luglio, ha proposto buoni affari ma ha anche imposto una condizione che non sarà mai contrattabile. La Cina è disponibile a costruire e dotare il Paese di infrastrutture ed energia con progetti già pronti. I cinesi hanno detto che riconosceranno la sovranità dell’Afghanistan a guida talebana, al fine di salvarli da un totale isolamento internazionale. Inoltre hanno promesso di non interferire mai nelle politiche interne e di sicurezza del Paese e di creare ogni condizione per la stabilizzazione e la normalizzazione in ogni settore della sua vita economica. In poche parole non affermeranno mai che il loro governo è un sistema shariatico che opprime con la violenza e utilizza strumenti tribali di tortura con tribunali guidati da elementi che praticano il terrore sulla popolazione. Lo faranno episodicamente e ipocritamente gli occidentali quando i talebani dimostreranno di essere quello che erano vent’anni fa, con l’oppressione delle donne e dei dissidenti, ammesso che ne rimanga in vita qualcuno. Alla fin dei conti per quanto riguarda la violazione dei diritti umani saranno in ottima compagnia. Tutto questo ha un prezzo decisamente accettabile per i talebani: quello di sublimare la condizione cinese che chiede agli studenti di dio di interrompere ogni relazione con l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), accusato da Pechino di aver perpetrato attacchi armati nella regione cinese dello Xinjiang. Questo gruppo islamico è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite come organizzazione terroristica. Dunque per la Cina vi è anche una implicita condivisione internazionale sulla repressione degli uiguri, l’etnia racchiusa in una sorta di enclave molto agguerrita che minaccia la sicurezza nazionale di Pechino. Tradotto in termini drammaticamente realistici la Cina chiede l’ultimo semaforo verde per compiere il suo genocidio senza subire condanne o proteste di rilievo e senza che l’Afghanistan presti logistica e supporto agli islamici cinesi. Gli studenti intanto hanno subito dichiarato, da parte loro, con un messaggio tranquillizzante verso la comunità internazionale che il proprio territorio non sarà disponibile alla progettazione o al compimento di azioni contro la sicurezza di altri stati sovrani, accettando implicitamente la proposta cinese. La nuova linea pragmatica dei talebani desta a questo punto maggiori preoccupazioni dei tempi in cui, il loro massimalismo, non si consentiva nessuna deroga alla diplomazia. Che cosa avrebbero dovuto dire all’indomani della presa di Kabul? Ricacceremo le donne in casa a occuparsi di figli e piatti, rastrelleremo i quartieri di ogni città per la ricerca dei dissidenti, daremo supporto al terrorismo internazionale! Niente di tutto questo come invece avverrà quando la situazione si sarà finalmente stabilizzata in ogni arteria di questo stato martoriato. La loro pericolosità tuttavia e la mancanza di rispetto dei diritti umani si manifesterà molto prima di quanto possano affermare oggi analisti nostrani, privi di conoscenze profonde e di questi territori e delle loro popolazioni. 

La dichiarazione-promessa dei talebani dopo poche ore dalla presa di Kabul, di “rispettare le donne e la loro libertà”, appare subito come una tragica e dolorosa falsità, un tripudio di cinismo e malvagità che presto si manifesterà con le prime sentenze islamico-shariatiche in termini di lapidazioni, amputazioni, impiccagioni e frustrate per sanare le colpe commesse soprattutto dalle donne. Avevamo messo in guardia, proprio da queste pagine, sull’uccisione di diverse giornaliste con modalità orribili e sugli attentati alle scuole sciite femminili che avevano causato la morte di più di 60 studentesse. I talebani avevano cominciato la strategia del terrore avvertendo, con queste gesta criminose, che sarebbero tornati e che ogni resistenza sulla loro strada sarebbe stata punita. Le prime ad essere avvertite sono state le donne che si erano permesse di ritagliarsi le libertà facendo del giornalismo. Ora sono i talebani che promettono di concedere, il giorno dopo la conquista del potere, dei diritti alle donne per potersi realizzare come persone. Ma sempre nella cornice della Sharia! È chiaro che il substrato culturale è rimasto quello rurale e tribale, fertilissimo di visioni in cui la donna deve essere un mero strumento di riproduzione, piacere sessuale e servitù verso l’uomo e l’autorità. Il burka non è “mai passato di moda” ma ora diverrà lo strumento in cui, avvolte e dietro la grata di un ricamo all’altezza degli occhi, le donne potranno guardare un mondo di prevaricatori ed esecutori della legge del taglione.

Per quanto ci possa essere sorpresa, in realtà, la situazione attuale era prevedibilissima perché le dichiarazioni degli stati occupanti erano state chiare da un po’ di mesi a questa parte. Ci sarà stata una certa sottovalutazione circa i tempi della conquista territoriale, ma che i talebani si sarebbero ripresi l’Afghanistan era cosa certa. Il loro arrivo era irreversibile anche perché, a differenza di quello che si credeva, molti di loro in questi venti anni non se ne erano mai andati, “confusi” fra la popolazione e così i loro figli, nipoti e quella cultura di egemonia che trova nella religione legittimità e forza.

L’effetto di uno spirito della sconfitta già consolidato fra i “regolari” era irreversibile, seppur limitato solo nel tempo: si è verificato a velocità della luce il giorno dopo l’annuncio degli americani di volersene andare (dichiarato però almeno da due anni). Parole passate e ripassate almeno attraverso tre presidenti, sia repubblicani che democratici. Ora la pax talebana viene addirittura auspicata da quelli che sono stati sconfitti, non solo nella strategia politica e militare ma nei valori che volevano insediare, come se questi ultimi fossero delle sedie da posizionare nei parlamenti costruiti in un deserto di indisponibilità al confronto. Gli americani ora cercano di rimediare agli errori macroscopici con un ragionamento, finalmente lineare dal loro punto di vista, seppur cinico: che siano i talebani a fronteggiare tutte le formazioni terroristiche radicatesi con il tempo: Al Qaeda, l’Isis che si è stabilizzato in Afghanistan dopo la cacciata dall’Iraq e dalla Siria, poi altre strutture terroristiche, che sono circa venti e possono trascinare nel caos anche i paesi limitrofi. Questi paesi sono quelli dell’ex Unione Sovietica, Tagikistan, Kazakistan, ancora la Cina e, infine, l’Europa. Gli americani sono distanti oceani, certo, ma dimenticano però le Torri Gemelle. Dovranno farne ammenda. È probabile che gli americani possano tornarvi se riterranno necessario, con le già praticate “guerre chirurgiche”, ma solo se i talebani verranno nuovamente avvertiti come una minaccia reale. Lo faranno con altre strategie, con altri obiettivi, in tempi limitati e senza democrazie da esportare. Infatti finalmente anche Biden ha confessato la verità in televisione, surclassato da critiche e offese per il ritiro: “Non volevamo esportare la democrazia, ma solo porre argini al terrorismo”. Era tutto chiaro a chi, come noi, ha sempre ritenuto quell’occupazione una vendetta e un argine agli attentati che si succedevano quotidianamente in Occidente. Il tutto provocato da storiche e fallite politiche perpetrate con insistenza proprio dagli americani. Questi ultimi alla fine dei conti avranno anche speso molto, ma le fiorenti lobbies delle armi e delle guerre hanno fatto affari davvero strepitosi.

La realtà è che l’Afghanistan a queste condizioni era ormai inutile, come le idee e le donne che vi risiedono, le libertà e le conquiste seppur minime. Erano falliti i piani agricoli e l’oppio era tornato a imperare nell’economia di questo Paese, ben supportato dalla corruzione dei signori della guerra e da guadagni più facili della manovalanza criminale. Gli occidentali lo hanno lasciato fare senza opporsi nel modo che avrebbero dovuto, cercando equilibri locali, tribali e mafiosi radicati in centinaia di anni di violenze, soprusi, violazioni. Con Trump e Biden successivamente, con l’accordo di Doha si chiedevano cose abbastanza chiare: il cessate il fuoco, l’interruzione dei contatti con Al Qaeda e gli altri gruppi terroristici, l’inizio di colloqui “inter-afghani”, fra i talebani e il governo afghano. Tutto questo tradotto in politica reale significava che i colloqui non facevano altro che consegnare il Paese nelle mani degli studenti di dio, che dovevano ritornare a Kabul in tempi probabilmente più lunghi.

Le cause della fulminea conquista sono chiare: nessuno in questo momento avrebbe opposto resistenza, né l’esercito mal schierato né la popolazione, i confini erano pressoché incustoditi e, uno sgarbo finale agli americani, per far capire che il potere è stato davvero e sempre nelle loro mani, è molto plausibile. Dunque ora si capisce che il ritiro e la consegna dei territori sono avvenuti nell’arco di due o tre anni, non così velocemente come sembra, e che i talebani avevano già cominciato a incontrare istituzioni di altre nazioni per legittimarsi la ripresa del potere. Le parole degli americani che hanno espresso l’assenza totale di pentimento per quanto avvenuto, sono sincere, e ci fa capire quanto questa manovra sia stata organizzata e voluta con gli alleati e con i talebani. Una vera strategia di fuga: ma ora si dovrà capire se ricomincia la sfida agli americani che adesso attendono le vere intenzioni degli afghani, sempre inaffidabili: sono quelli di vent’anni fa o vi è stato un processo di cambiamento strutturale delle loro posizioni. Per chi conosce quei territori e i tempi di sedimentazione di quanto accade nel corso della storia non sarei molto ottimista, anche perché il fondamentalismo si alimenta di un massimalismo violento, sfrontato, antistorico e antioccidentale. Dunque nessun errore della logistica e dei tecnici sul territorio per quanto accaduto e neanche la solita e incredibile grossolanità, per questa volta, che molto spesso ha connotato i movimenti degli americani.

Un errore enorme invece ha riguardato la gestione dell’esercito regolare afghano, l’addestramento e le strategie di difesa improntate sul territorio. In questo campo gli esperti sono stati davvero chiari e ci fanno capire quanto potesse essere complicato cercare di plasmare i militari afghani nella direzione dei nostri modelli occidentali di intendere la difesa e la guerra perché, come ben si afferma, “un esercito è l’espressione della storia, della cultura, delle tradizioni e dell’ordine politico del proprio Paese”. Una imposizione di tattica e di tecniche di guerra non ben percepite dagli afghani che sono abituati a guerre “asimmetriche”, cioè di un sistema di combattimento non convenzionale basato sulla guerriglia in territori climaticamente e morfologicamente ostili. Gli unici che sembravano combattere in modo efficiente erano i 20.000 commandos addestrati, non a caso, con i sistemi della guerriglia in condizioni estremamente ostili. Gli afghani sono guerriglieri temibili riconosciuti per capacità, in combattimento asimmetrico, imbattibili.

Affermato il principio importantissimo che un esercito deve avere una “anima” nella sua determinazione a combattere, gli esperti affermano che vi è stata una enorme retorica sulle potenzialità reali dell’esercito addestrato dagli occidentali. Si parla di più di 300.000 uomini dell’esercito regolare contro i soli 50.000 talebani. La verità sembra emergere pian piano con affermazioni inattese, rilasciate dagli addetti ai lavori sul territorio: molti commilitoni dell’esercito afgano erano stati abbandonati per settimane e mesi da soli, senza scorte, con scarsi viveri e in condizioni di sopravvivenza pessime. Pochi erano i rifornimenti e alle prime avvisaglie di combattimento contro i guerriglieri talebani, elementi dell’esercito regolare si sono messi d’accordo con i talebani consegnando armi e posizioni e, soprattutto, facendo salva la vita. Sono stati 90 i miliardi stanziati dagli USA solo per l’addestramento, ma la corruzione ha vinto su tutto e, anzi, si è dimostrata efficientissima a insinuarsi in questo fiume di denaro. Molti militari erano inseriti nelle liste dei capi di reggimento ma erano nomi falsi, perché le buste paga le riscuotevano questi ultimi. Per non parlare degli acquisti e del vettovagliamento, di tutto quell’enorme economia che ruota intorno a un esercito di dimensioni davvero ragguardevoli. Una vera e propria debolezza sistemica che spiega davvero tutto.

Nel lungo Cahier de doléances degli errori occidentali non bisogna dimenticare scelte che vengono da lontano. Quando il presidente Bush nel 2003 distolse parti consistenti di esercito dall’Afghanistan per trasferirle in Iraq, in un momento per i talebani di grossa difficoltà e considerando che in quel momento avrebbero potuto subire la distruzione totale perché rimasti in poche migliaia e male armati, gli americani avrebbero potuto negoziare un accordo partendo da una base ben più solida. Poi ha continuato Obama quando aveva concesso l’invio di 30.000 uomini ma con la precisazione che sarebbero andati via dal 2011. I talebani dovevano solo attendere, come hanno fatto, per trattare con più forza e cancellare ogni sconfitta dimostrando di essere stati anche strategicamente più forti.

Un capitolo a parte merita l’Iran. Gli americani hanno ben individuato una delle ragioni più credibili al loro ritiro proprio considerando la contrapposizione storica dei talebani agli ayatollah di Teheran. Pochi ricordano che le occupazioni americane avevano consentito all’Iran di espandersi, quasi paradossalmente, su tutti i territori favorendo lo spirito nazionalista e di dominio su quelle aree degli sciiti iraniani. Era successo dappertutto, dove per tradizioni, lingua, storia, preponderanza di aspetti culturali e valoriali, l’Iran ha sempre dimostrato una superiorità e una stabilità incredibili. Gli iraniani con il solito intelligente pragmatismo hanno rilasciato dichiarazioni di apertura alla conquista talebana. Hanno fatto finta di nulla sugli attentati subiti dalle minoranze sciite, l’ultimo alla scuola femminile prima della ripresa del potere. Gli ayatollah tacciono le antiche e insanabili ruggini e le diversità strutturali fra religioni che mal si conciliano. Presto dovranno ricredersi perché i talebani non indietreggeranno nelle loro farneticanti elucubrazioni hanafite. Inoltre chi parla oggi di parallelismo o di un modello da ripercorrere, in stile teocratico iraniano per il neonato emirato islamico afghano, lascia trasparire una incompetenza senza limiti. A Teheran risiedono più di due milioni di afghani che hanno fornito braccia e sangue, in condizioni di vita al limite dello schiavismo più bieco, alla costruzione della metropoli: particolarmente nella rete idrica e fognaria e in tutto il settore edile, dove privi di ogni tutela e sicurezza muoiono ogni giorno senza mai rientrare neppure in una statistica numerica. Un’accoglienza molto interessata riservata ai soli fini dello sfruttamento.

Infine possiamo chiederci perché l’esercito afghano avrebbe dovuto combattere e morire contro gli efferati talebani. Per i corrotti signori della guerra che sono pronti ad allearsi al miglior offerente o commerciante d’oppio? Per gli stranieri che hanno occupato e non sempre si sono dimostrati comprensivi e disponibili? Per i corrotti e i ricchi che si sono ben riciclati fra gli stranieri di turno? Per quella democrazia che si è vista solo come appannaggio di qualche televisione di stato interessata a far apparire che qualcosa si è fatto? Per la povertà in cui si sono cacciati e per tutto quello, che in termini di benessere e dignità umana, non si è concluso? La realtà mostra il suo aspetto brutale: forse hanno ritenuto che non era necessario morire per coloro i quali avrebbero rappresentato una tragica, assurda e verosimile copia di quanti già li avrebbero sostituiti al potere, a casa, in ogni dove il giorno dopo la partenza.

È questo, oggi, l’Afghanistan, quello annunciato e ipocritamente dimenticato.