di Gioacchino Toni

«Il problema è che oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. […] il presente è diventato egemonico». «Si delineano forme di resistenza allo stato di cose esistente, ma in nome di ideali particolari, incompleti e talora contrastanti [che] stentano a costruire progetti leggibili per il futuro, a proporre obiettivi che non siano in sostanza difensivi» Marc Augé

Poco dopo aver messo in guardia, sul finire degli anni Novanta, circa la sparizione della realtà – a causa di una sua “messa in finzione”, soprattutto da parte del mezzo televisivo –, Marc Augé ha iniziato a denunciare un’altra sparizione: quella del futuro. Il mondo sembra in effetti in balia di un eterno presente capace di annullare l’orizzonte storico. Futuro e passato si sono eclissati sotto l’ombra della globalizzazione con i suoi aspetti politici, scientifici e simbolici.

Dopo una decina di anni dalla sua prima pubblicazione, torna in libreria, in una nuova edizione, il volume in cui l’antropologo francese riflette sulla sparizione dell’avvenire: Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? (eleuthéra, 2020). In questo libro, che resta di estrema attualità, lo studioso, dopo essersi a lungo occupato della dimensione dello spazio, prende in considerazione quella del tempo, mostrando come il nostro mondo, oltre che essere disseminato di “nonluoghi”, possa davvero dirsi caratterizzato dal “nontempo”.

Augé elenca tre paradossi del tempo. Il primo ha a che fare con la consapevolezza dell’individuo di vivere nel corso di un tempo che precedeva la sua nascita e che proseguirà dopo la sua morte. Il secondo è inerente alla difficoltà per l’individuo mortale, dunque tributario del tempo e delle idee di inizio e fine, di «pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine» (p. 8). Cosmogonie e apocalissi rappresentato soluzioni immaginarie a tale difficoltà umana. Il terzo è il paradosso dell’evento, del fatto al contempo atteso e temuto.

Se il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è ricorrente nelle attenzioni dei gruppi umani, oggi tale paradosso dell’evento pare giunto al suo culmine: mentre la storia accelera, spinta da eventi di ogni tipo, gli individui contemporanei, sostiene Augé, pretendono di negarne l’esistenza, esattamente come accadeva nelle epoche arcaiche, ad esempio celebrandone la fine. Con questi tre paradossi hanno dovuto fare i conti, nei contesti storici più diversi, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società.

Dalla caduta muro di Berlino può dirsi iniziata una nuova storia che, a causa della velocità con cui procede e per il suo aspetto globale, risulta pressoché incomprensibile.

Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo (p. 13).

Tra queste due visioni estreme, accomunate dal non derivare alcune lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, secondo Augé, trova posto un’ideologia del presente caratteristica di quella che è stata definita la società dei consumi. Sembra quasi che all’essere umano non resti che scegliere tra un consumismo conformista e passivo, anche quando può darsi in forma assai ridotta, e un rifiuto radicale al quale, al momento, sembrano in grado di provvedere soltanto le espressioni religiose più esasperate.

Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell’evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all’ordine dominante. Quest’ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico (p. 14).

Di fronte ad uno scenario di tale tipo, secondo lo studioso, può essere utile far riferimento alla categoria di tempo per indagare le false evidenze dell’attuale ideologia del presente. Tali evidenze, continua Augé, assumono la forma di un triplice paradosso.

Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l’umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica (p. 15).

A ben guardare tali paradossi non sono altro che l’odierna forma storica dei tre citati precedentemente. «In questo senso attengono tutti all’ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo […] ha prodotto teorie dell’individuo, del mondo e dell’evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola» (p. 16).

Non possiamo interessarci al futuro senza incontrare la presenza massiccia e anomala dell’immaginazione. Se è infatti vero che non vivono ogni giorno con il pensiero dei propri fini ultimi, gli umani non possono tuttavia accontentarsi indefinitamente di un’eternità fiacca, di un tempo chiuso. Questo vale per i più deprivati, ma anche per gli altri. La corsa al senso si svolge dunque anche nelle peggiori condizioni. Il senso non è necessariamente il destino post mortem, l’immortalità o il paradiso. È l’esistenza del domani, un insieme di relazioni con gli altri sufficientemente consistente per scongiurare l’assurdità di una solitudine senza oggetto e senza fine, nel doppio senso del termine (p. 122).

L’illusione offerta dalle sette «parla il linguaggio dei fini, che è anche quello del desiderio, ma si limita a servirsene, lo sbriciola, lo distilla in dosi omeopatiche; i suoi espedienti sono il rovescio negativo del discorso sociale sempre incompiuto dei politici e degli economisti: essa non pretende di orientare la società, la rimpiazza» (p. 123).

Diversi movimenti evangelici, così come il fondamentalismo islamico, si fondano su parole d’ordine semplici e capaci di attrarre quanti, vivendo in solitudine, privi di riferimenti simbolici, in miseria materiale e morale, sono in cerca di certezze. «Tutti questi fondamentalismi hanno in comune un riferimento, un’ambizione e una modalità di azione. Il riferimento è l’origine: la disputa tra i tre monoteismi si basa essenzialmente sul punto di partenza, sull’origine della sola storia che conti ai loro occhi, quella del vero messaggio» (p. 124).

Se da un certo punto di vista, sostiene Augé, i monoteismi, con le loro aspirazioni all’universalizzazione del messaggio, nel basarsi sia sul passato che sul futuro, rimandano alle “grandi narrazioni” lyotardiane, allo stesso tempo se ne differenziano per la pretesa, in quanto cosmogonie, di parlare all’umanità intera e perché la loro visione dell’avvenire dell’umanità si risolve nel prospettare la fine del mondo come compimento. Per quanto riguarda la loro modalità di azione, questa si risolve in un proselitismo, tratto specifico dei monoteismi, che gli integralismi portano all’estremo e a maggior ragione in uno scenario globalizzato.

L’integralismo è una globalizzazione dell’immaginario che può avere conseguenze terribilmente reali. È anche la globalizzazione dei poveri (anche se, ovviamente, può essere usata, manipolata e sostenuta dai soldi dei ricchi); in questo senso è una globalizzazione mimetica. La globalizzazione e i suoi agenti sono mimetizzati, come lo erano la colonizzazione e i colonizzatori. Il mimetismo e la rappresentazione sono le armi simboliche cui si ricorre quando la relazione diventa impensabile, impossibile da negoziare (p. 125).

Se i movimenti locali di protesta per reggere lo scontro necessitano di collegamenti su scala più ampia, ancora più che nel passato sono oggi proprio le religioni a vocazione universale a procurare i mezzi intellettuali e materiali per tale estensione. «Il marxismo e le ideologie progressiste in generale, che avevano influenzato i movimenti politici di indipendenza e di liberazione, sono in declino […] L’immaginazione, in questo caso, va al traino della storia» (p. 127).

Nella società contemporanea non deve essere sottovalutato il ruolo giocato delle immagini, soprattutto televisive, che finiscono per certi versi per svolgere il ruolo delle cosmologie tradizionali che ponevano coordinate spazio/temporali dando un ordine simbolico al mondo. L’Occidente è modellato dalla mentalità consumista in cui ognuno si costruisce la propria cosmologia ricorrendo non di rado alle nuove tecnologie.

Il mondo della televisione è esemplare per questo postmodernismo dei poveri: se ci sono tante persone che desiderano esprimere in quell’ambito le proprie convinzioni, le proprie preferenze, la propria vita, quando è evidente che non hanno niente di originale, è perché così possono crederci anche loro, grazie al prestigio dell’immagine che consolida all’occorrenza l’assicurazione fornita dal prendere la parola. Nonostante l’egocentrismo forsennato, questi comportamenti indotti dalla società dell’immagine non sono poi tanto diversi da quelli che governano la fede dell’uomo semplice (che peraltro non gli competono in modo esclusivo): in entrambi i casi si tratta di una questione di sopravvivenza. Ci troviamo così, d’ora in avanti, in una situazione in cui siamo in grado di percepire, davanti a un campo di rovine metafisiche nel quale i fondamentalisti illuminati e gli individualisti alienati continuano a rovistare per assemblare un senso a partire da qualche rottame, che colonizzati e colonizzatori hanno vissuto la stessa storia e che la colonizzazione altro non è stata che la prima tappa della globalizzazione. Siamo tutti quanti ai piedi dello stesso muro. Dopo le tristi esperienze del secolo scorso, è questa la sfida che ci aspetta: come possiamo reintrodurre nella nostra storia finalità che ci affranchino dalla tirannia del presente ma che non siano all’origine di un nuovo dispotismo intellettuale e politico? Come possiamo, più che prefigurare il futuro (essendo il cambiamento tanto inimmaginabile quanto ineluttabile), attrezzarci nella misura del possibile perché sia l’avvenire di tutti? (pp. 127-128).

Pur non mancando forme di resistenza allo stato di cose esistente, queste sembrano muoversi in nome di ideali particolari e incompleti che, nonostante i tentativi di esprimersi su scala globale, non riescono a costruire progetti di futuro, limitandosi a proporre obiettivi meramente difensivi.

Secondo Augé è necessario evitare di confondere il tema della “fine delle grandi narrazioni” con quello della “fine della storia”: se Lyotard rifletteva sulle nuove modalità di relazione con lo spazio e con il tempo che definiscono la condizione postmoderna, Fukuyama finiva invece per proporre una nuova “grande narrazione”. «La fine della storia non è, evidentemente, il blocco degli eventi, ma la fine di un dibattito intellettuale: tutti quanti, ci dice in sostanza Fukuyama, sarebbero oggi d’accordo nel ritenere che la formula che coniuga il mercato liberista e la democrazia rappresentativa sia insuperabile» (p. 133).

Il concetto di “fine della storia” in Fukuyama, si chiedeva Jacques Derrida (Spectres de Marx, 1993), è da interpretare come un dato di fatto o come un’ipotesi speculativa? L’avvenimento sembrerebbe essere tanto la realizzazione quanto l’annuncio della realizzazione. Tale incertezza, sostiene Augé, è tipica di un’atmosfera intellettuale in cui non si è più in grado di “immaginare del futuro”.

Nelle società dell’immanenza si tende a negare l’evento, «lo si rimanda alla serie di determinazioni concepite al contempo come sociali e antropologiche che lo riversano sulla struttura. Quando questo riversamento, questa “eziologia sociale”, non è più possibile, perché l’evento è enorme e sproporzionato rispetto agli abituali strumenti di misura e di interpretazione […] allora lo si mima, lo si recita, lo si mette in scena […], nella speranza che quella sorta di sfida simbolica basti a scongiurarlo» (p. 134).

Soprattutto nelle società occidentali si assiste a una crescita della paura dell’evento ma se ciò classicamente comportava una ricerca delle cause e dei responsabili, quando l’evento ha una portata inaspettata (come nel caso dell’attentato dell’11 settembre 2001), esso si trasforma da «punto di arrivo che bisogna spiegare» in «punto di partenza che tutto spiegherà». È questo, secondo lo studioso, il senso della guerra dichiarata al terrorismo.

La parola chiave, qui, è “dichiarazione”. Forse la formula “dichiarazione di guerra” non era più stata utilizzata dal 1939. La dichiarazione di guerra ha precisamente l’effetto di un annuncio che cancella con un tratto il passato per convertire gli animi all’attesa e al seguito. È il passaggio alla violenza legittima, o comunque legale; è un ribaltamento delle coordinate temporali, una rifondazione, il canto di chi parte. Il problema è che nella complessità delle società moderne non è così facile riuscire in questa operazione simbolica, passare dall’ordine delle cause a quello degli effetti, dalla diagnosi al progetto. Così il discorso ufficiale sul terrorismo si sdoppia: gli si dichiara guerra, certo, ma questo non cambia niente, si vive come prima (sia pure con un po’ più di vigilanza poliziesca). Cambia tutto, non cambia niente (pp. 135-136).

La contemporaneità globalizzata manifesta, dunque, la prevalenza del linguaggio spaziale su quello temporale. La coppia globale/locale ha sostituito l’opposizione particolare/universale che, invece, associata a una concezione dialettica della storia, si inscriveva nel tempo. «L’assimilazione dell’opposizione globale/ locale a quella interno/esterno assume tutto il suo significato in relazione al tema della fine della storia inteso come avvento della democrazia liberale, cioè, in definitiva, in rapporto all’opposizione sistema/storia» (p. 137).

L’epoca della globalizzazione, oltre ad aver incrementato enormemente la disparità delle ricchezze, ha ampliato lo scarto tra chi dispone di conoscenze e chi non ne dispone generando una massa di esclusi dalla conoscenza , una massa di individui a cui è permesso di essere semplici consumatori, quando non sono esclusi sia dal sapere che dai consumi. A ciò, sostiene il francese, occorre contrapporre un’utopia del “sapere per tutti”, «una visione del futuro finalmente sgombra dalle illusioni del presente veicolate dall’ideologia della globalizzazione consumista» (p. 140).

«Di fronte all’ideologia del presente e dell’evidenza diffusa dal sistema globale, di fronte alle illusioni micidiali e liberticide dei totalitarismi integralisti, abbiamo più che mai bisogno di un ritorno allo sguardo critico capace di rivelare i giochi del potere dietro alle formule che si appellano a una quiete illusoria o una mobilitazione fanatica» (p. 131). È all’antropologia che Augé attribuisce quello sguardo critico che, sebbene insufficiente di per sé per cambiare il mondo, può almeno contribuire a dare la misura delle vere poste in gioco.


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