di Gioacchino Toni

Se in ambito francese film come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz e I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly hanno portato sugli schermi le banlieues, opere come A tempo pieno (L’Emploi du temps, 2001) di Laurent Cantet e la serie televisiva Lavoro a mano armata (Dérapages, 2020) di Gilles de Verdière, pur affrontando problematiche individuali, hanno a loro volta tratteggiano un altro spezzone di realtà sociale destrutturata, ove gli individui espulsi dal lavoro, in questi casi provenienti da ambienti impiegatizi, non potendo contare su una rete solidale, si trovano soli a fronteggiare le conseguenze esistenziali e la compromissione dei rapporti familiari e amicali causate dalla perdita del lavoro e con esso del precedente status sociale.

Nel film di Cantet il protagonista, interpretato da Aurélien Recoing, incapace di confessare ai famigliari e agli amici la perdita della sua attività di consulente, si trova costretto a mentire agli altri, inventando impegni e viaggi di lavoro inesistenti, e a se stesso, immaginando di poter trovare un posto attraverso comportamenti autoingannevoli. Tali comportamenti finiscono per compromettere gli affetti famigliari e amicali del protagonista mettendolo di fronte a una realtà che ormai percepisce come del tutto estranea.

Come suggerisce lo studioso Roberto Lasagna – Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema (Mimesis, 2019) – confrontando il film di Cantet con La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri è possibile cogliere la portata dei cambiamenti intercorsi tra le due epoche. Nel giro di qualche decennio nel cinema si è passati dalla denuncia delle condizioni lavorative, con le annesse ricadute sulla vita spesa al di fuori della fabbrica, alla messa in scena del disagio psichico dell’individuo che, in un’inedita solitudine, si trova a fare i conti con l’incertezza esistenziale propria di un’epoca caratterizzata dalla precarietà.

Nel film di Petri la fabbrica viene mostrata come il luogo egemone dell’esistenza di Lulù Massa, interpretato da un magistrale Gian Maria Volonté, luogo capace di trasformare la percezione della realtà del protagonista anche al di fuori del luogo di lavoro: l’intera sua esistenza gli appare, al pari della vita in fabbrica, sottoposta al controllo. Anche il montaggio e i movimenti della macchina scelti da Petri contribuiscono a restituire l’alienata percezione della realtà del protagonista derivata dalla ripetitività lavorativa e, al tempo stesso, nota Lasagna, testimoniano come lo stesso cinema, figlio della medesima civiltà industriale, ne resti imprigionato.

Se Petri mostra l’assoggettamento dell’esistenza quotidiana del lavoratore, compresa la sua sfera erotica, alla ripetitività del lavoro in fabbrica, quello di Cantet, mette in scena il disagio psichico dell’individuo sottoposto a un’incertezza esistenziale vissuta in totale solitudine che caratterizza un’epoca di precarietà occupazionale. La flessibilizzazione del mercato del lavoro, con annessa molteplicità di forme contrattuali, e lo spostamento del rischio sulle spalle del lavoratore, ha comportato una frammentazione dei percorsi professionali che ha finito col generare sempre più instabilità, insicurezza e solitudine, con tutto ciò che ne consegue a livello sociale e psicologico.

Nel confrontare le due pellicole si vede come si sia passati dalla categoria dell’alienazione – utilizzata per analizzare la condizione del lavoratore sottoposto a una routine portatrice di disadattamento, insoddisfazione e demotivazione – al mettere in scena gli effetti della precarizzazione lavorativa che si traducono in una quotidianità fatta di incertezza, stress, ansia e, soprattutto, solitudine.

Se il protagonista di A tempo pieno tanta invano di negare l’evidenza per poi finire con il lasciarsi trasportare alla deriva dagli eventi, quello di Lavoro a mano armata opta per un’altra strada.

La vicenda narrata dalla serie televisiva di Gilles de Verdière deriva dal romanzo Cadres noirs del 2010 di Pierre Lemaitre, che a sua volta trae ispirazione da vicende realmente accadute. Si racconta di un individuo ormai alle soglie dei sessantanni che, licenziato improvvisamente, dopo una vita spesa a lavorare come responsabile del personale, si trova ormai da diverso tempo a fare i conti con la disoccupazione che lo costringe ad accettare lavori saltuari e malpagati.

La reazione all’ennesima umiliazione subita da un caporeparto lo mette nei guai e lo lascia nuovamente senza alcuna fonte di reddito. A questo punto Alain Delambre, interpretato da Éric Cantona, è pronto a tutto pur di ritrovare un lavoro e quando gli si prospetta un’imprevista possibilità di un’occupazione di rilievo presso una multinazionale, accetta senza tropi tentennamenti di prendere parte a un cinico gioco di ruolo organizzato dall’impresa per mettere alla prova la fedeltà aziendale dei propri quadri. Resosi conto che tutto ciò non darà luogo alla sua assunzione, Alain decide di prendere il controllo del proprio futuro ordendo un machiavellico piano a mano armata.

Passando da un genere all’altro – dal thriller, allo psicodramma familiare, fino al prison e al legal drama – la serie racconta una storia di violenza fisica e psicologica che finisce per compromettere anche i legami umani più stretti. Si tratta di una storia di disoccupazione che, al di là della specificità, racconta un tratto caratteristico dei tempi attuali: la tragedia di un colletto bianco scivolato improvvisamente nella miseria.

In mancanza di un contesto solidale, la battaglia che il protagonista si torva a intraprendere lo vede inevitabilmente solo contro tutti oscillando tra il desiderio di farsi vendicatore di tutti gli sfruttati e il cinismo individuale che lo porta, a sua volta, a sfruttare anche gli affetti più cari per dar luogo al suo obiettivo.

Difficile individuare personaggi totalmente positivi nello scenario messo in scena; tutti, in un modo o nell’altro, rivelano tratti negativi. La figura più interessante finisce per essere quella di Charles Bresson, interpretato da Gustave Kervern, un amico di lunga data del protagonista: un non più giovane esperto informatico che vive su un van ai margini della società, un po’ perché vi è stato obbligato e un po’ per scelta. Sarà proprio lui, sul finale, anche per rimediare a qualche precedente reticenza nel comportarsi in maniera solidale nei confronti dell’amico, a compiere deliberante un gesto estremo che pur non bloccando la macchina dello sfruttamento, almeno prende di mira uno dei tanti suoi spietati manovratori.

Contraddittori, cinici e individualisti finché si vuole, con personaggi immiseriti provenienti dalla classe media occorrerà presto fare i conti anche nelle piazze, visto che da qualche tempo a questa parte, nel bene nel male, hanno iniziato a frequentarle carichi di una rabbia che non credevano di avere in corpo e non è affatto detto che questa sia ancora a lungo arginabile o indirizzabile da demagogia a reti unificate