di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora in forma di volumi, ora di articoli, c’è di che riempire un’intera biblioteca.

Ma fin qui si tratta solo di una parte della sua opera, al di là della fitta rete di connessioni che collega tutto in un continuo dialogo: un’unica giostra dove l’ironia diventa strumento occulto e le più varie arti – compresa la pittura, di cui il Nostro a un certo punto si entusiasma – vengono riconosciute come magiche.

Pensiamo ai suoi scritti spesso pepati su temi filosofici, politici, o in senso lato culturali (eventualmente con tagli sfiziosi per farsi ospitare a pagamento su qualche testata), o alla sua straordinaria “autoagiografia” – come la definisce in sottotitolo – The Confessions of Aleister Crowley, 1929, da accostare con una certa prudenza ma di interesse enorme e grande divertimento. O all’amplissima produzione poetica, dove alterna testi molto belli ad altri in cui l’intento provocatorio – motivato all’interno di una riflessione fortemente polemica verso i valori tradizionali del mondo occidentale – rende la godibilità letteraria un po’ altalenante (ma simpatici sono i Songs For Italy, 1923, con una serie di frecciate al fascismo che l’ha cacciato da Cefalù). Pensiamo alle opere teatrali, sorta di interfaccia più libera alle pantomime dei rituali, o alle sue stesse traduzioni, dove una certa libertà autoriale/magisteriale è comunque ravvisabile: per esempio quella de I Ching (proposta in Italia da Tre Editori, 2018), evidenziante proprio la tensione a mescidare tradizioni assai distanti che tanto preoccupa colleghi esoteristi più legati alla loro “razzialità” (per esempio, abbiamo visto, Dion Fortune).

Nel panorama non poteva mancare la narrativa: e a parte alcuni romanzi più o meno noti al grosso pubblico, Crowley produce un’imponente messe di racconti che spiccano per qualità nell’orizzonte di una fiction breve primonovecentesca di lingua inglese dai contenuti fantastici, visionari o comunque eccentrici – e avvicinati per esempio dalla critica a quelli di un altro personaggio un po’ eccessivo di fine età vittoriana, il conte Eric Stenbock (1860-1895). Certo, non tutti i racconti crowleyani presentano lo stesso livello d’interesse e comunque non si tratta di grandi capolavori della letteratura. Una certa parte viene anzi varata a fini anzitutto alimentari, a fronte di una situazione economica che qualche lustro dopo condurrà il Nostro al fallimento sancito dal tribunale: l’eredità paterna fondata sulla birra (l’azienda familiare Crowley’s Alton Ales da cui il padre, pensionandosi, era passato all’attività di predicatore dei rigoristi Plymouth Brethren) è schiumata letteralmente via. Ma queste storie pensate per divertire e insieme formare alle idee thelemite (in qualche caso con riferimenti tecnici che sfuggono al lettore non preparato, ma sempre con lo strumento del paradosso e dell’ironia) sono nel complesso molto felici: e persino nei racconti minori, qualche guizzo del ruspante geniaccio dell’autore riesce qui e là a dardeggiare.

La spregiudicata capacità di cavalcare mode d’epoca – certe scene brillanti, un certo tipo di poliziesco – non ostacola note di genuina originalità: si pensi alle quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) incentrate su Simon “il semplice”, cioè il mistico, occultista e detective Simon Iff, creato alla fine del 1916. A metà gennaio 1917 Aleister ha già terminato di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff, poi edita su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio che ritiene di reincarnare, il losco medium del mago elisabettiano John Dee. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). Anche se è eccessivo proclamare – come fa lui annunciando la seconda serie – che si tratta dei polizieschi più sensazionali dopo quelli doyliani su Holmes, è vero che il taglio è innovativo: un mix tra i classici racconti polizieschi e i casi dei detective dell’occulto, con un occhio alla psicologia e un po’ di Thelema.

Come l’autore ricorda nella proprio “autoagiografia”, al di là di qualche differenza da una serie all’altra il sistema sottostante le avventure di Iff si basava

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Per inciso Simon Iff è lui, Aleister, in una versione “anziana” e saggia mixata (almeno nel romanzo Moonchild, scritto 1917 e pubblicato 1929, dove Iff torna) a qualcosa di Allan Bennett, suo istruttore magico ai tempi della Golden Dawn, poi monaco buddhista e figura fondamentale per l’ingresso del buddhismo in occidente: uno dei pochi amici per cui negli anni Crowley manterrà intatta un’affettuosa devozione, e di cui dovremo qui riparlare.

Ma le varie serie su Iff non esauriscono la produzione crowleyana di racconti brevi – come ricorda un volumetto uscito di recente nella deliziosa collana “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi delle salernitane Arcoiris, 2019: I Racconti della Bestia a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti è infatti una raccolta di dieci testi (tradotti da Luca Baldoni, introduzione di Steve Sylvester dei Death SS) tali da fornire un buon assaggio della novellistica del Nostro.

L’operazione è interessante, e per più motivi. A partire da uno contingente, cioè che si tratta della prima antologia italiana di racconti brevi di Crowley, otto inediti più due proposti con diversa traduzione sulla rivista Hypnos. A dar conto di varietà di registri – l’orrido e l’erotico, il fiabesco e il poliziesco brillante – che il lettore nostrano non collega automaticamente a un autore come il Nostro. E laddove si corteggia il fantastico – anche senza giungere al livello dei capolavori brevi di autori coevi come Machen – incontriamo comunque novelle affascinanti per la varietà e il carattere estremo degli spunti, il delirio onirico di certe suggestioni, il gusto dello strano su cui l’autore non risparmia nulla.

Il che traghetta immediatamente a un secondo motivo d’interesse, uno stile in genere non “alto” ma di qualche eleganza, e che risente naturalmente del contesto culturale del primo ventennio del Novecento: un mix di enfasi decadente e ironia lieve da buona società al caffè, conati simbolisti dove s’intravede il Crowley poeta e soluzioni popolari quasi alla Weird Tales, suggestioni estenuate e sfuggenti – anche a base di metafore in cui il lettore s’immerge e si attarda, con stranianti derive – ed eccessi a forti tinte. Spesso giocando con l’implicito, ora nel segno del gioco frizzante e ora di un’obliquità esoterica: da cui fantasie che sembrano imbizzarrirsi alla lettura, significati che si colgono come di sguincio sul lato dello sguardo, provocazioni talora francamente criptiche.

E un terzo motivo sta nel teatro che s’intravede dietro questi racconti, le dinamiche erotiche e le contrapposizioni, i profili di personaggi amici o nemici (come già nei racconti con Iff) e gli episodi autentici o presunti tali dalla vita dell’autore – che vi sgomita spudoratamente. Attenzione, nella disamina che segue qualche spoiler emergerà.

I primi racconti guardano come prevedibile al Crowley occultista. “La violinista” (“The Violinist”), scritto nel 1910 e pubblicato su The Equinox del settembre di quell’anno sotto lo pseudonimo di Francis Bendick, vede per esempio una protagonista modellata sulla seducente Leila Waddell, 1880-1932, violinista australiana ed ennesima partner magica della Bestia. Oggetto del racconto è il dividersi di lei tra due partner, un prosaico “ragazzo allegro” e un amante pneumatico richiamato per magia – con evocazione musicale su un pannello mosaicato enochiano –, dalle conseguenze inattese o forse non troppo. Non ci addentriamo in questa sede nel groviglio tecnico-occulto relativo al carattere N (altrove reso con diverso segno grafico) su cui si concentra la violinista, donde diverse possibili identità del lubrico spirito Remenu.

Anche più emblematico è “Al bivio” (“At the Fork of the Roads”), circa 1908 e pubblicato anonimo su The Equinox del marzo 1909, dove una tal Hypatia Gay, amante del poetastro/mago Will Bute, va a trovare il conte Swanoff, giovane poeta neofita della Fratellanza della Stella d’argento. I nomi possono non dirci nulla, ma Hypatia è in realtà Althea Gyles (1868-1949), illustratrice cara al poeta Yeats qui celato sotto la maschera di Will Bute: l’atteggiamento tiepido verso le abilità liriche di Crowley e lo scontro che li vede militare da parti opposte nella scissione della Golden Dawn conducono presto a un’ostilità personale. Mentre il conte Swanoff è naturalmente Aleister, il cui primo appartamento a Londra, 67-69 Chancery Lane, era stato affittato sotto lo pseudonimo di Conte Vladimir Svareff: anzi anche Swanoff – ci viene detto a un certo punto – è un mero pseudonimo per nascondere il lignaggio reale celtico del protagonista. Quanto alla Fratellanza della Stella d’argento si tratta trasparentemente dell’A∴A∴, organizzazione pensata da Crowley fin dal 1907, e la cui sigla è spesso resa come Astrum Argenteum.

Qui il racconto merita qualche cenno in più. Bute, cupamente geloso di Swanoff – come, sostiene Crowley, è Yeats di lui – ha mandato la sua aiutante in missione speciale in campo nemico: e il conte l’accoglie ammonendola a sfuggire i tentacoli del Polpo Nero che ha deciso di servire, e a non finire vittima dei vermi della Melma Ineffabile (notiamo come la fantasia dell’autore sia squisitamente evocativa). Sciocchino, gorgheggia lei, la prossima volta lo farà contento entrando con lui nel Tempio Bianco: però allontanandosi riesce a graffiargli la mano con una spilla, e porta trionfante quella goccia di sangue a Bute per i suoi sortilegi. In effetti l’indomani Swanoff si sveglia debolissimo e cereo, con le mani rugose: ma per fortuna arriva il suo maestro, che lo rimprovera di aver avuto a che fare con la Goetia – potremmo dire la magia di evocazione demoniaca. Swanoff assicura di no, e il maestro commenta che allora è la Goetia che ha avuto a che fare con lui. L’episodio di questo rimprovero – con tali parole – è autentico, e a muoverlo a Crowley era stato proprio il suo citato istruttore magico Allan Bennett: la dialettica tra i due è qui speculare a quella nel più tardo romanzo Moonchild tra il giovane Cyril Grey e l’anziano Iff, dove pure si cerca di impedire che i cattivi (tra i quali lo stesso Yeats) usino il sistema del graffio per sottrarre la stilla di sangue a fini occulti.

Il maestro predispone dunque il contrattacco. Anzitutto consegna al discepolo una pergamena magica da tenere sotto il cuscino, e lo istruisce a uccidere chi lo attaccherà: come in effetti farà in sogno una donna di pericolosa bellezza – ovviamente un succubo, che rivelerà caratteristiche spiacevoli – e per dieci notti Swanoff si affannerà a strozzarla. Passo successivo sarà il far infestare la casa di Hypatia – che ha tentato di tornare per procurarsi altro sangue – da migliaia di gatti, dandole qualcosa di cui occuparsi (si tratta di un sistema citato in più resoconti occultistici, e dunque almeno un topos di questo tipo di narrativa). Ma al terzo tentativo della pertinace fanciulla, Swanoff la chiude dentro il tempio: e lì si consuma una degna punizione per opera del dio celato dietro i sipari. A seguito della quale verrà ripudiata da Bute e finirà preda di un laido editore… Come riportato dalle note di The Equinox, “Questa storia è reale in ogni dettaglio. Data degli eventi 1899 E.V. maggio o giugno”: e la sintesi qui offerta non rende minimamente il carnevale di trovate. D’altra parte pareva importante soffermarvisi, sia perché appunto evidenzia i nessi con la vita dell’autore – per come almeno lui riteneva di viverla – e con altre sue opere chiave come Moonchild, sia perché si tratta del trasparente esempio di uno stile solenne e visionario giocata su mezzitoni d’ironia.

Assai più criptico è il racconto “Un ballo in maschera” (“A Masque”), mai pubblicato prima del 2010. In scena è una sorta di antiannunciazione nel segno del notturno e del lunare, e anzi di antinatività dove una misteriosa entità gobba – a metà tra l’incubo di Füssli e uno spirito astrale – si accoppia fatalmente con la splendida Margarita.

Ma, come detto, la raccolta guarda a registri piuttosto vari. “Il cacciatore di anime” (“The Soul-Hunter”) è sostanzialmente un horror, dai toni sfuggenti che fanno pensare a certe derive oniriche: scritto nel 1908 e pubblicato su The Equinox nel marzo 1910, narra i frustranti tentativi di un mad doctor di trovare l’anima in un paziente-vittima. Francamente più birichino, “La volpe” (“The Vixen”), edito su The Equinox del marzo 1911 di nuovo come Francis Bendick, è dedicato e nuovamente ispirato a Leila Waddell nella figura della protagonista Patricia Fleming, tra sadomaso, licantropia e naturalmente occultismo. Invece “La faccia” (“Face”), proposto per la prima volta sul Pearson’s Magazine nel settembre 1920, è un’originalissima vicenda poliziesca sulle conseguenze del rifiuto di uno spasimante cinese per motivi razziali: la citata formula del “chiudere tutte le fessure con lo stucco” alla base dei racconti di Simon Iff (che pure qui non c’è) vi sembra adottata in pieno.

“Illusion d’amoureux”, di nuovo edito a firma Francis Bendick su The Equinox del settembre 1909, coinvolge nel ruolo della protagonista la scrittrice Ada Leverson (1862-1933) che nel 1907 aveva avuto una relazione con l’autore. Qui la troviamo, coricata in una bara appesa come un’altalena, in attesa di essere visitata da “un dio imperscrutabile, sorridente, sempre sorridente di un sorriso che esprimeva una lussuria inimmaginabile e una crudeltà risolta – grazie a quale alchimia teurgica? – in una beatitudine fredda e pura” (e che lei, per non sbagliare, invoca quale “Abominazione suprema”). Sembra probabile che in fondo si tratti dell’ennesimo autoritratto di Crowley stesso.

Per certi versi ancora più spiazzante, a considerare l’idea che a torto o a ragione si ha spesso di Crowley, è “Il colore dei miei occhi” (“The Colour of My Eyes”), probabilmente scritto nella primavera 1918, una fiaba sapienziale delicata e ironica su Arte, Onnipotenza e Amore che fa pensare a un Wilde minore. Mentre “Il furto della signorina Horniman” (“Robbing Miss Horniman”), edito la prima volta su The International nell’aprile 1918, è un garbato racconto giallo dal doppio finale. Torniamo al criptico e al macabro con “Queste cose sono un’allegoria” (“Which Things are an Allegory”), edito soltanto postumo: un apologo strano, in qualche modo di critica sociale, al di là del linguaggio fiabescamente nero.

Naturalmente chi sia interessato a misurarsi con l’inglese elusivo, ironico e febbricitante dei racconti di Crowley può leggerli in lingua originale: il corpus dei testi narrativi brevi è infatti raccolto oggi in due volumi dalla splendida collana “Tales of Mystery and the Supernatural” per i tipi Wordsworth. Cioè The Simon Iff Stories & Other Works (2012), comprensivo delle quattro raccolte su Iff più gli otto racconti neopagani della raccolta Golden Twigs, ispirati al Ramo d’oro di Frazer (scritti 1916); e The Drug & Other Stories (2010), con ben quarantanove racconti – trenta dei quali pubblicati già dall’autore, gli altri inediti –, compresi quelli della presentata edizione italiana.