di Alessandro Barile

Luigi Vinci, 1895-1914 La prima grande crisi epistemologica del marxismo. La lezione mancata, Punto Rosso, 2018, pp. 457, € 20.00.

Il socialismo è una necessità o una possibilità? Attorno al grande problema dell’oggettività, tanto della realtà quanto dei suoi processi sociali, si è istituito un confronto che ha attraversato tutto il marxismo. Oggi il problema è a prima vista inattuale: il campo del marxismo è residuale nella politica e profondamente venato di soggettivismo nelle sue proposizioni teoriche: il socialismo è pensato tutto all’interno di una prassi politica contingente. Ci ricorda però Luigi Vinci, in questo suo testo multiforme e pericolante, che così non fu per una lunga epoca del movimento operaio. Da Marx fino (almeno) allo scoppio della Grande guerra – e soprattutto lungo tutta l’esperienza della II Internazionale – la teoria politica della socialdemocrazia costruiva la propria forza organizzativa e narrativa pienamente dentro il campo del determinismo storico. Il famigerato “crollismo” altro non era che la fiducia in processi sociali teleologici: il capitalismo era destinato ad essere superato, a prescindere dall’azione del movimento operaio.

Il contesto storico appariva indubbio: la II Internazionale origina all’interno di una lunga depressione economica che confermava, addirittura accentuandole, le principali determinazioni marxiane. Tra il 1873 e il 1895 la crisi non rendeva solamente più manifeste le contraddizioni del capitalismo; moltiplicava nel numero e nella coscienza quel proletariato che avrebbe inevitabilmente sostituito la borghesia al potere. La società sembrava destinata a ridurre le proprie specificazioni sociali lasciando sul terreno le sole due classi in lotta: borghesia e proletariato. La prima in ritirata, la seconda in espansione. L’azione organizzata del movimento operaio procedeva abolendo le leggi antisocialiste, costruiva sindacati e, tramite questi, migliorava le condizioni di vita di milioni di lavoratori salariati; parimenti, i primi rappresentanti socialisti venivano eletti nei parlamenti nazionali, acquisivano forza di condizionamento. Lo Stato repressivo diveniva anche interlocutore politico. La storia sembrava per compiersi, era questione di anni.

A trovare conferma empirica immediata era la legge marxiana alla base di ogni teoria del crollo: la caduta tendenziale del saggio generale di profitto che, nonostante i fattori di controtendenza messi in campo dal capitale, impediva a questo stesso capitale di rigenerarsi del tutto, riattivando processi di valorizzazione reale in grado non solo di frenare, ma anche di invertire la tendenza catastrofica. In ultima istanza, è in base a questa legge, d’altronde espressione determinata di un percorso storico più complessivo, che poteva e può essere pensata la sostituzione della borghesia con il proletariato, abrogando così la natura classista della società: «l’oggettività contraddittoria e sempre più organicamente critica del processo capitalistico, il fatto cioè, concretamente, che lo sviluppo capitalistico è portatore di una “legge”, quella della caduta del saggio generale del profitto, che tende a recargli crisi sempre più gravi e d’ordine sempre più sistemico, delle quali il proletariato può agevolmente valersi per un’offensiva politica rivoluzionaria» (p. 49).

Il marxismo “ortodosso” di Kautsky, collegandosi ad alcune riflessioni dell’ultimo Engels, procederà con lo sciogliere ciò che in Marx (e nello stesso Engels) appariva saldato: l’oggettività del processo storico e la necessità di una soggettivazione proletaria in grado di realizzarlo. Per il marxismo della II Internazionale, forgiato per l’appunto nell’opera teorica di Kautsky (e Bernstein e Bebel), la possibilità veniva tradotta di per sé in inevitabilità. A che pro accelerare processi che sarebbero comunque avvenuti (e di lì a breve, peraltro)? Certo in Marx l’organizzazione operaia, per lui decisiva nell’opera di compimento storico, rispondeva ad una tendenza spontanea delle lotte di classe: conducendo ad una progressiva proletarizzazione delle figure sociali, queste avrebbero trovato da sé anche le loro rappresentazioni politiche. Eppure, il comunismo rimaneva sempre, per Marx, quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. In Kautsky e nella socialdemocrazia (tedesca in primo luogo), le organizzazioni operaie dovevano accumulare forza, non incidere qualitativamente sul processo complessivo. La rivoluzione ci sarà, tutto sta nel farsi trovare pronti e sfruttarla politicamente. La violenza veniva così espunta dal novero degli strumenti atti a realizzare il comunismo. Il risultato sarà quel Programma di Erfurt (1891), adottato dal Partito socialdemocratico tedesco, che stabilirà l’inevitabilità del socialismo e l’azione politica legale (parlamentare, da un lato, e sindacale, dall’altro) come orizzonte politico della II Internazionale: «il momento di avvio della trasformazione socialista della società non dipende in Kautsky pressoché per nulla dalla lotta di classe condotta dal proletariato, essa dipende invece dagli svolgimenti obiettivi delle leggi generali della storia ovvero dalle loro concretizzazioni nelle contraddizioni obiettive del modo di produzione capitalistico. […] Poiché – scrive Kautsky – la rivoluzione non può essere fatta a nostro arbitrio, non possiamo dire assolutamente nulla circa il tempo, le condizioni e le forme in cui essa avverrà» (pp. 102-103). Poi, certo, Kautsky rimaneva – a parole – un rivoluzionario: in ultima istanza anche per il marxista tedesco era necessario un moto rivoluzionario di ribaltamento. Ma la china avviata procedeva inevitabilmente a intessere relazioni sempre più stringenti con il riformismo.

Nasceva così il “marxismo legale”, rapidamente declinato in riformismo tanto in Germania (ad opera del revisionismo bernsteiniano), quanto in Russia (per mano di Struve e Tugan-Baranovski). Di conseguenza, ogni colpo di mano veniva associato alla “provocazione”, ogni accelerazione diveniva sinonimo di estremismo, poi di radicalismo piccolo-borghese, le tentazioni anti-parlamentari oggettivamente reazionarie, l’illegalità eventuale una pena capitale contraria agli interessi del proletariato. L’immobilismo diveniva dunque la tattica della socialdemocrazia fino allo scoppio della guerra. Il risultato di questa traiettoria è noto: la II Internazionale divenne sempre più associazione di partiti nazionali; le istanze parlamentari presero il sopravvento sulla complessità della politica; gli interessi della nazione si affiancarono alle ragioni sociali della classe operaia; infine, i crediti di guerra stabilirono la convergenza degli interessi tra socialdemocrazia e borghesie nazionali e la fine dell’Internazionale in quanto tale.

Prima di giungere alla catastrofe bellica, però, il marxismo va incontro ad una sua “crisi epistemologica” – così la definisce Vinci: dal 1896 – dopo più di vent’anni di stagnazione – il processo di valorizzazione del capitale riparte, avviando un lungo periodo di crescita economica (e di tendenziale miglioramento delle condizioni di vita dello stesso proletariato), che stresserà la legge marxiana della caduta del saggio di profitto. Tale legge, pur confermandosi, non appare più come “decisiva”, ma una tendenza tra le altre, a cui il capitale reagisce opponendo ad essa una capacità di recupero strutturale in funzione di un’altra legge: l’aumento tendenziale della produttività del lavoro. Sono tali salti esponenziali della produttività a consentire al sistema, nel suo complesso, di stimolare nuovi bisogni, nuove forme di consumo, distruggendo ma anche generando una ricchezza sociale che coinvolge altresì parti importanti di proletariato, avviando quel ciclo di risparmio che sosterrà il capitalismo anche nei suoi momenti critici. Certo, le due guerre mondiali assumono la forma di vera e propria catastrofe. Ma i cicli di espansione e di depressione si altereranno lungo il Novecento, e in maniera sempre meno “catastrofica”. L’impoverimento, pure presente dentro i cicli di contrazione, non tornerà più ai livelli assoluti tali da favorire processi rivoluzionari. Arricchimento e impoverimento relativo consentiranno al sistema, nel suo complesso, di reggere strutturalmente nelle fasi di crisi. L’alternanza di crisi e sviluppo, inoltre, non condurrà alla progressiva proletarizzazione del paesaggio sociale: viceversa, le figure lavorative si moltiplicheranno, e aumenteranno i comportamenti sociali e di consumo. La piccola e media imprenditoria resisterà alla tendenza monopolistica. L’impoverimento, sempre relativo, non condurrà ad una regressione strutturale della domanda sociale, quanto ad un suo andamento ciclico tutto sommato governabile.

Se questa sia una “legge” o meno, sospendiamo il giudizio. La realtà di questo secolo abbondante ci ha confermato che le controtendenze opposte dal capitalismo alle sue contraddizioni interne sono risultate decisamente più robuste delle “ineluttabili crisi” che avrebbero dovuto condurre il capitalismo al suo crollo. Il determinismo senza azione consapevole e organizzata del movimento operaio ha dimostrato in più punti la sua inefficacia. I suoi rappresentanti, convinti rapidamente delle ragioni del riformismo, sono stati poi (quasi) tutti cooptati dalla borghesia a gestire la ragion di Stato e le sue necessità produttive. Il riformismo operaio si è ribaltato celermente in riformismo borghese.

Eppure, la lotta al determinismo e l’egemonia del soggetto odierna non sembrano risolvere i limiti in cui è finita l’azione del movimento operaio. La vicenda assume dunque una complessità diversa dalla storia, a suo modo edificante, di chi spazzando via il rinnegato Kautsky e il revisionista Bernstein (e soprattutto, con loro, il “cane morto” Engels) pensa così di aver fatto i conti con l’oggettivismo e il materialismo storico. La questione, come sempre, è più complessa.

Alla base del materialismo marxiano è il postulato che la realtà sia conoscibile. Per essere conoscibile, e dunque comprensibile, misurabile e infine realizzabile, questa realtà non può che essere una. Non ciascuna per ogni soggetto che la osserva, procedimento che conduce – per il Lenin dell’Empiriocriticismo – all’inevitabile solipsismo, costruendo così una realtà per ogni soggetto agente. La realtà dev’essere dunque esterna. Esiste una realtà all’infuori di noi, che noi possiamo osservare e, attraverso il metodo scientifico, svelare, approssimandoci ad essa. Questa realtà ci determina. Esiste prima dell’uomo e continuerà dopo di esso, e l’azione che l’uomo svolge nella storia è in rapporto dialettico con essa. L’uomo è il prodotto della realtà sociale in cui vive. Le sue idee, i suoi comportamenti, le sue azioni, l’insieme delle sue credenze e dei suoi giudizi sono il risultato di una realtà che agisce sull’uomo e lo condiziona. In base a ciò, Il Capitale di Marx è il tentativo di descrivere questa realtà sociale, di misurarla scientificamente, svelandone l’essenza posta dietro all’infinita molteplicità dei fenomeni contingenti. È in base a questo procedimento che Marx può illustrare un movimento interno alla società che si presenta come oggettivo, nel senso di determinato a prescindere dalle singole volontà.

L’azione del movimento operaio risponde a una necessità storica. Non si presenta come inevitabile a prescindere dai soggetti che hanno il compito di attuarla, ma si situa dentro un processo che si trasforma in base a una direzione. Una direzione precisa, per Marx: il percorso che conduce dalla coscienza di classe all’autocoscienza dell’uomo. Questo percorso è chiaramente soggetto a incidenti, ma non “torna indietro”: l’azione sociale, di cui il capitalismo è il più alto momento di sviluppo transitorio, agisce trasformando continuamente la realtà. La realtà non è stabile e contiene in sé i motivi del suo superamento. Questo è il senso della necessità storica entro cui agisce il proletariato. La coscienza di classe è la consapevolezza del proletariato di situarsi dentro questo percorso, di doverlo realizzare non in base a intendimenti etici o volontà di potenza, ma in connessione con la storia.

Per darsi, tutto questo ha bisogno di essere studiato e di essere conosciuto. Marx ed Engels non escogitano il comunismo studiando il proletariato, ma scoprono il proletariato studiando il capitalismo. Studiando cioè una realtà che esiste e che può essere esaminata, quasi in laboratorio. La scoperta posta alla fine di questo studio è il comunismo. Il segreto del capitalismo è la rivoluzione. L’azione del proletariato è tale non in base ai suoi pensieri e alla sua momentanea (falsa) coscienza di sé che ha nella fase della sua infanzia e adolescenza, ma in base al suo rapporto con la realtà sociale nel suo complesso, al suo ruolo nel capitalismo.

Per questi motivi, schematicamente tracciati, abolendo il determinismo (cosa diversa dal “positivismo”) non rimane che una teoria dei soggetti senza un oggetto comprensibile che li determina. Anzi: ribaltando il ragionamento, l’oggetto di studio viene rinvenuto dalle contingenti volontà dei soggetti, dalla loro “disponibilità alla lotta”, dalle loro istanze etiche. Cambiano al cambiare delle stagioni, di volta in volta identificati con quei soggetti che, temporaneamente, sembrano incarnare un certo spirito dei tempi. O meglio, un certo spirito di rivolta. Di questo passo però il comunismo si tramuta in atto di volontà, in azione consapevole, su di un piano di parità con le azioni contrastanti di altri soggetti, individuali ed organizzati. C’è anche questo, lo abbiamo capito: la lezione leniniana dimostra della fallacia teorica di facili teleologismi impersonali. Eppure il soggetto senza necessità viene – è venuto – comodamente fatto a pezzi e disciplinato da quel capitale dalle sembianze sempre più “totalizzanti” e sempre meno (auto)contraddittorie. La rivoluzione si fa rivolta esterna al capitale stesso. Un capitale di cui non conosciamo più la struttura, la sua composizione, i suoi punti di cedimento. Le analisi del capitalismo rimangono ferme alla prima metà del Novecento; il resto non riesce a tramutarsi in scienza organica alle lotte di classe e alla trasformazione. Scienza e ideologia hanno separato i propri destini, i propri uomini e i propri linguaggi. Il risultato è la scissione odierna, in cui ogni discorso politico è tutto interno alle questioni ideologiche, e ogni discorso scientifico immediatamente tecnicizzato e posto al servizio dell’evoluzione tecnologica del capitale. Occorre allora riavvicinare scienza e ideologia, ma per farlo è inevitabile tornare a studiare la realtà a prescindere dai soggetti che la compongono. Forse rimarremo ancora impotenti, ma almeno avremo colto l’essenziale di questo capitalismo apparentemente invincibile. Le generazioni future potranno così portare a termine il lavoro iniziato due secoli fa dai padri del socialismo scientifico.