Dogman, di Matteo Garrone, 2018
Rabbia furiosa, Er Canaro, di Sergio Stivaletti, 2018

di Mauro Baldrati

Possiamo dirlo: esiste una nouvelle vague italiana di registi. Hanno stili diversi, non sappiamo se siano in contatto, se facciano gruppo, oppure se si amino o si odino vicendevolmente, se per esempio Garrone e Stivaletti fossero a conoscenza dei reciproci lavori, due film usciti quasi in contemporanea sullo stesso argomento; però sono un gruppo di rinnovamento, con un marchio DOCG “Made in Italy” che lascia il segno. Era ora. Una rinascita? Siamo da sempre un paese esterofilo (molti non lo sanno, ma esiste un certo filone di editoria thriller dove alcuni autori italiani firmano con pseudonimi esotici per superare il pregiudizio: “Italiano? Ma chi è?”), ma da qualche tempo il pregiudizio si è capovolto: “Un nero italiano? mica barzellette!”

Un nuovo genere italiano che qualche commentatore ha salutato come “post italiano, finalmente”, ovvero in grado finalmente di superare gli stereotipi, i luoghi comuni, l’eterna dipendenza dalla commedia pecoreccia, il dramma, il gallismo, il sentimentalismo.

Uno stile italiano-non italiano dunque, in grado di viaggiare per territori diversi, spezzando le catene del genere hollywoodiano coi suoi attori belli ed eleganti, la fotografia patinata anche quando sono sporchi e cattivi; uno stile duro, realistico (in certi casi iper), con tanta azione e avventura pur non rinunciando al proprio bagaglio europeo di cultura, di storia, di indagine psicologica.

Un esempio interessante è questo curioso uno-due di un regista famoso (Matteo Garrone) e un altro meno famoso ma grande professionista esperto di effetti speciali per Dario Argento, Michele Soavi, Benigni, Salvatores (Sergio Stivaletti). Hanno relizzato due film diversi, due letture indipendenti di un evento realmente accaduto, la vicenda degli anni ’80 di Er Canaro. Costui, Pietro de Negri, un pregiudicato probabilmente affiliato alla banda della Magliana, uccise un conoscente che lo perseguitava e lo ricattava, il pugile Giancarrlo Ricci. Confessò di averlo sottoposto a orribili torture, dopo averlo rinchiuso in una gabbia per cani del suo laboratorio di toelettatura (da qui il soprannome). In realtà l’autopsia stabilì che tutte le ferite, le bruciature, il taglio delle dita, del naso, dei genitali, erano state inferte dopo la morte, causata da una decina di martellate.

La vicenda ha stimolato la fantasia dei due registi, che hanno prodotto questo bis di stili e di plot narrativo.

Il primo, Dogman, di Matteo Garrone, è più autoriale, girato con un gioco sapiente della psicologia dei personaggi, il Canaro e il pugile, uniti da una sorta di dipendenza reciproca sado-maso. Il Canaro è anche un piccolo spacciatore di coca, che deve continuamente fornire – naturalmente gratis – al prepotente amico-dominatore, una specia di bruto che terrorizza tutto il quartiere. E’ un uomo mite, dolce, sincero amante dei cani, il cui unico desiderio è piacere agli altri, avere il suo posto nel mondo, essere rispettato. E’ così leale e fedele, nonostante l’impressionante sequenza di violenze e umiliazioni cui è sottoposto, che accetta addirittura di andare in carcere al posto del pugile, pur di non tradirlo.

Noi spettatori soffriamo con lui, per le sue disgrazie, e quando finalmente arriva il finale siamo contenti per questa attesa, meritata catarsi.

Ma…

In realtà questa parte è reticente. Purtroppo è il limite del film. Che è notevole, ma con un finale coraggioso e giusto sarebbe stato grande. Intendiamoci, non siamo voyeurs macabri, non chiediamo l’horror a tutti i costi, ma ci aspettiamo un giusto risarcimento, col mostro che finalmente paga per la sua crudeltà e la sua vigliaccheria. Sappiamo perché: regista e produzione hanno deciso di non calcare la mano per non spaventare il mitico pubblico “moderato” italiano. Niente torture, un’esecuzione certamente cruenta, ma svelta, come se il regista avesse fretta. Così la forza di questo film, l’espressività dei personaggi, il fascino dello squallore della periferia, vengono in parte depotenziati da questo imbarazzo, da questa autocensura che ci lascia in uno stato di latente insoddisfazione.

Ma niente paura. Ci pensa Stivaletti a restituirci quanto di spetta. Con gli interessi. La storia è la stessa, ambientata in un quartiere periferico e degradato, ma la diversità di stile e di approccio lascia stupiti. Il Canaro di Stivaletti è un personaggio a sua volta mite, uno che subisce, ma non ha – e neppure vuole – la sfaccettatura poetica di Marcello Conte (che per questa interpretazione ha vinto una meritata palma d’oro a Cannes), è più “tosto”, si ribella, combatte, “tira fuori le palle”. Il rapporto di sudditanza psicologica esiste, ma è meno indagato, più funzionale alla storia di violenza e sopraffazione. Il pugile è lo stesso bruto violento, ma più criminale organizzato, più subdolo e minaccioso.

Rabbia Furiosa rispetto a Dogman è tarantiniano, anche per la colonna sonora, che evoca certi spaghetti western di Morricone. E l’agognato finale è fin troppo generoso di splatter, grazie anche all’alter ego del regista, il creatore di mostri horror. Proprio come con Tarantino lo spettatore gode di fronte al giusto castigo del feroce motherfucker, perché torna il bambino che gioca ai buoni e ai cattivi, dove il buono (Django) spara al cattivo e lo guarda morire, e dice “crepa bastardo”. Perché per il bambino non è l’uomo a venire ucciso; è la cattiveria stessa.