di Paolo Lago

Autori vari, L’urlo barbarico, prefazione di Francesco Muzzioli, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova (An), 2017, pp. 120, € 9, 90.

L’urlo barbarico è una antologia poetica o, meglio, una raccolta di raccolte degli autori che sono passati attraverso l’esperienza della rivista online “YAWP: Giornale di Letterature e Filosofie”. Come scrive Francesco Muzzioli nell’esaustiva prefazione, il titolo promette “polemica e sonorità dissonanti”: infatti, se la parola “urlo” può letterariamente rimandare al poemetto di Allen Ginsberg e alla protesta della beat generation, l’aggettivo “barbarico” “contiene il progetto di ricerca di un modello diverso dallo sviluppo occidentale assurto a dogma globale”. Mi viene in mente quanto sia importante questo aggettivo all’interno dell’opera di un autore come Pier Paolo Pasolini. Quello “barbarico”, per Pasolini, è l’antitesi dell’universo dominato dal neocapitalismo e dal consumismo: è proprio quello che egli amava di più, quello sottoproletario, dell’Africa e dei cosiddetti paesi del Terzo Mondo. In questo aggettivo, inoltre, è presente una forte carica corporea: un corpo che sfida ogni legge, ogni regola autoimposta da una società irreggimentata e privata delle passioni, delle facoltà e degli istinti primordiali. L’urlo, come pregnante espressione del corpo, insieme a una dimensione perturbante e angosciante (si pensi al celebre quadro di Munch) possiede quindi una forte valenza sovversiva. Penso ancora a Pasolini e alla fine di Teorema (1968), quando il personaggio del Padre, interpretato da Massimo Girotti, nella dimensione dirompente del corpo nudo, camminando in un deserto (nell’immaginario pasoliniano associato alla “barbarie”) lancia un urlo che non ha fine mentre, sullo schermo, appare proprio la parola “fine”. L’urlo, perciò, non può finire ma continua oltre le stesse “soglie” filmiche, oltre la convenzionalità narrativa e cinematografica.

L’urlo barbarico srotola quindi una sorta di “poesia ininterrotta” che, un po’ come l’omonima opera di Eluard, non ha una vera e propria conclusione e neppure delle cesure nette al suo interno: l’identità dei poeti è infatti annullata, dal tradizionale e scontato “io” lirico si passa al noi. Come sempre nota Muzzioli, la scelta di annullare l’io, da parte dei giovani poeti, è attuata “in polemica con il facebookismo diffuso e le annesse illusioni narcisistiche”. Infatti, i poeti utilizzano degli pseudonimi che ne annullano le identità a favore di una dimensione corale che si rispecchia nell’andamento narrativo (che ricorda le antiche narrazioni dell’epopea) che spesso assumono i componimenti poetici. Gli unici due che si sono firmati con il vero nome sono gli autori che aprono e chiudono la raccolta: Iuri Lombardi e Alfonso Canale le cui opere riescono a incontrarsi e a specchiarsi per chiudere in modo elegante la Ringkomposition del libro. Le altre raccolte poetiche, invece, si incontrano e si specchiano, se così si può dire, ‘in negativo’: ognuna, infatti, distrugge quella precedente in un ordine predefinito.

I poeti de L’urlo barbarico non accettano davvero il grigiore di una società irreggimentata nei vuoti ritmi dell’apparenza, dominata dall’individualità e dall’esposizione in vetrina del proprio io e attraversata dalla spessa lente dell’economia e del lavoro salariato. Questo libro si presenta come un vero e proprio manifesto di poetica che, come ogni manifesto letterario che si rispetti, contesta, a volte con la sferzata dell’invettiva, anche la sfera della società quotidiana. Ed ecco l’urlo poetico che si alza. Un urlo che vuole ridare spazio alla poesia e al suo canto anche fuori dagli spazi che le sono stati concessi, dove essa è stata relegata: per mezzo dell’urlo la poesia deve tornare nelle strade, in mezzo alla gente, fuori dai cadaverici interstizi dove la società della finanza e della tecnologia la aveva relegata. L’urlo barbarico porta una ventata di aria fresca nell’universo della letteratura e della poesia, una ventata che ha il sapore di una auspicata tempesta. La parola poetica, ormai smembrata dall’individualità intimistica ed elegiaca, sembra trovare nuova linfa vitale nel ricollegarsi direttamente a ciò che è stato detto prima, al canto orale degli antichi aedi che era ‘sovversivo’ solo per il fatto di essere sublime narrazione e trasformazione in canto di gesta e persone magari relegate, dalla cultura ufficiale del potere, nella più meschina quotidianità. Nel canto dell’urlo barbarico danzano in silhouettes di poesia emarginati e drogati, ubriachi e suicidi, uomini sfiancati e disumanizzati dal lavoro (come il protagonista di Suona la sveglia di Alfonso Canale), solitari e affamati d’amore, odiatori arrabbiati e teneri innamorati. Un’umanità meschina e derelitta ma anche stupenda e meravigliosa che parla, geme, comunica, urla. Urla al mondo e alla dimentica società la sua angoscia, la sua pena, il suo dolore ma anche la sua ineguagliabile bellezza, un po’ come gli emarginati – gli impiccati, i condannati, i suicidi, i drogati, i meschini – che popolano le note dello stupendo album Tutti morimmo a stento (1969) di Fabrizio De André.

L’ “urlo barbarico” sempre si eleva, potente: ad esempio, nel canto iniziale di Iuri Lombardi, nella Ballata del sopravvissuto, perché “ti convinci che la vera arte / sta nel sopravvivere ogni giorno del tempo” mentre come un “affamato di vita”, il poeta, ne L’incontinente, si convince che “l’etica alberga solo nella bellezza”. Charles Folie, successivamente, dà voce all’ubriacone, allo “stupido del villaggio” Jim in una rutilante sequela di sonorità che erompono come un vero e proprio urlo nella società benpensante (La ballata di Jim sotto Gin) e dà quella stessa voce anche a un “noi” corale, con uno stile appunto da manifesto di poetica: “noi siamo come creature / di nebbia / in fuga dallo stupro della vita” (Come polsi aperti). Rocco Schmidt, in Memoràndum, ribadisce poi la fondamentale dimensione del corpo e della passione perché “un corpo / gonfio d’amore / è grave / al punto che cadendo / squassa la terra” e Carlo V., in Ode su una ragazza greca (amore inespresso), pone l’accento sull’importante sfera della bellezza, forse l’unica possibile verità: “Bellezza è verità / verità bellezza”. Vera bellezza che è irrimediabilmente negata dalla vuota società dell’apparire, pronta solo ad annichilire le coscienze, come ‘grida’ Lev Pyotr: “Credo che vogliano questo da me. / Pretendono di annichilire la mia coscienza / per modellarla a proprio piacimento”. Nella poesia c’è vita, passione, bellezza e così anche nei cantori, nei poeti, come afferma Charles Dexter Ward, nell’interessante La decomposizione di Marx, in cui a parlare in prima persona è proprio, in forma delirante, lo stesso Marx: “Sognavo un mondo migliore / odiavo tutto e tutto / era semplice / gridavo e sbraitavo / come certi pazzi in cella / lo facevo per un’intima / consolazione / perché non c’è vita su Marte / o nei poeti / e allora cosa mi resta, / se non l’eco delle mie grida / quando resto solo di notte?”. E sulla necessità della bellezza e della vita, contro una sterile chiusura in se stessi, pone l’accento anche Skara quando ‘grida’: Non sentirti solo / sentiti alieno, paradigma, / interruttore. / Sentiti volante, vela, vivo” (Evviva). Alfonso Canale, infine, ribadisce la necessità della bellezza e della vita, fuori dalle “prigioni di carta” e dalla “vetrina di plexiglass”, consapevole che per vivere è necessario affrontare anche l’ “alterità” e la “morte”: “l’alterità la morte per vivere / il dono, l’immenso, il mare” (T’accorgi).

Ogni poeta eleva forte il suo grido, il suo “urlo”, per unirlo in dissonanze e assonanze a quello degli altri, all’interno di una composizione armoniosamente collettiva. Un manifesto di poetica che è anche canto, protesta, bellezza, cultura: finalmente, un “urlo barbarico” per la poesia.