di Gioacchino Toni

André Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, Contrasto edizioni, Roma, 2016, 176 pp. € 21,90

Attorno alla metà degli anni Novanta, negli ambienti intellettuali e tra i professionisti della fotografia, è dilagato un vero e proprio panico in concomitanza con quella che è stata percepita come una vera e propria invasione barbarica: l’arrivo della fotografia digitale. Se una rivoluzione c’è stata, questa non si è data, come erroneamente in tanti credevano, nella fotografia in sé, quanto piuttosto nelle possibilità di una sua facile ed immediata condivisione su larga scala.

Se il timore era quello di giungere ad un’era “postfotografica” dominata da immagini prive di referente credibile, di assenza di legame col mondo fisico, ebbene tutto ciò non è avvenuto. Come sostiene Michele Smargiassi nella Prefazione del libro di André Gunthert, L’immagine condivisa, «la perfida realtà si è incaricata di guastare la tragedia» (p. 8); il regime di veridicità fotografica non ha che fare col fatto che una fotografia sia analogica o digitale ed il caso delle immagini di Abu Ghraib ne offre una concreta dimostrazione.

Probabilmente, sostiene ancora Smargiassi, troppo a lungo gli studiosi hanno insistito nell’affrontare la fotografia per il suo aspetto estetico e/o etico, trascurando il fatto che essa è un insieme di pratiche sociali, un «oggetto comunitario attivo» che si trasforma insieme ai suoi contesti. Soltanto allontanandosi dalle teorie ontologiche e riduzionistiche che la intendono come mero canone artistico-autoriale, è possibile affrontare la fotografia nelle sue pluralità perché ciò che conta davvero, continua lo studioso nella Prefazione, è come essa incide concretamente sulle nostre esistenze.

Secondo Gunthert la vera rivoluzione della fotografia digitale è data dalla sua fluidità, dunque dalla conversione dell’informazione visiva in dati facilmente archiviabili, manipolabili e condivisibili. Molti professionisti della fotografia e studiosi hanno faticato a cogliere le novità introdotte dal digitale focalizzando i loro timori sulla perdita del contatto col reale. Per certi versi, sostiene Gunthert, il fatto che il digitale compaia in un momento di crisi, ha fatto sì che in molti hanno guardato alla svolta tecnologica come ad una causa del degrado perdendo di vista il fatto che non è certo la tecnologia digitale ad aver scatenato il degrado. Se il progresso ha cessato di incarnare, postitivisticamente, sempre e per forza la misura della civiltà, facilmente ogni innovazione tende ad essere letta aprioristicamente come strumento di dominio, perdendo di vista il fatto che l’innovazione può anche derivare da una spinta dal basso o può essere piegata, sempre dal basso, a nuove funzioni. Che poi il sistema tenda a ricondurre l’innovazione a proprio favore, mettendola a profitto, è un altro – e parziale – discorso.

Il digitale non ha trasformato tutti in fotografi ma ha diffuso il ricorso alla registrazione visiva facendola interagire con i nuovi strumenti di comunicazione comportando un livello di partecipazione ed accessibilità alle immagini senza precedenti e che ciò abbia finito per eliminare alcune figure professionali e col generare profitto dal desiderio di partecipazione e condivisione degli esseri umani è un dato di fatto che non può sminuire la spinta e l’uso dal basso.

Secondo la tesi dell’indicalità fotografica, ogni fotografia analogica deriverebbe da un’impronta fisica della luce su una superficie sensibile ma, sostiene Gunthert, il diffondersi del digitale ha dimostrato come la “verità dell’immagine” non dipenda dalla sua ontogenesi; non è stata messa in discussione la veridicità delle immagini delle torture di Abu Ghraib nonostante queste siano digitali. Nessuno ha negato la possibilità di annoverare tali immagini nell’ambito della registrazione del reale. Ovviamente, come qualsiasi altro documento, una fotografia non è una prova sufficiente e la sua veridicità deriva dalla sua coerenza globale. Non è, pertanto, la tipologia di registrazione a rendere credibili le fotografie delle torture americane ma, piuttosto, il fatto che queste siano inserite all’interno di un processo d’inchiesta e che la loro pubblicazione derivi dalla medesima logica utilizzata per le immagini analogiche.

I sorrisi dei carnefici in mostra davanti ai torturati non sono molto diversi da quelli che si ritrovano sulle cartoline postali statunitensi dei primi del Novecento che avevano come soggetto scene di linciaggio. Ciò che muta nel passaggio dall’analogico al digitale è la scomparsa del valore dello scatto; il momento privilegiato immortalato dall’analogico perde la sua aurea. Le fotografie di Abu Ghraib non sono state fruite dagli osservatori in maniera insensibile, come prevedevano tanti detrattori della “deriva digitale”, od almeno di certo non in maniera più insensibile di coloro che osservavano le cartoline dei linciaggi di inizio Novecento.

Un altro terrore circolato attorno all’arrivo del digitale riguarda la perdita del monopolio dei giornalisti sull’informazione. Vi sono state grandi discussioni circa la pubblicazione da parte dei media ufficiali di fotografie scattate da “non professionisti” come testimonianze di tragici fatti accaduti (attentati, incidenti…). Sarebbe sbagliato, secondo lo studioso, pensare che i cittadini nello scattare una fotografia intendano rivaleggiare con i professionisti; per molti la fotografia rappresenta un modo di porsi nei confronti dell’evento, inoltre la decisione di pubblicare o meno le immagini sui media ufficiali appartiene sempre e comunque a questi ultimi. Semplicemente la temuta invasione degli amatori nei media non si è data e quando le immagini amatoriali arrivano sui canali ufficiali è perché sono questi ultimi ad aver “saccheggiato” archivi di immagini postate dai non professionisti. Sono le circostanze a trasformare o meno le immagini amatoriali in un supporto d’informazione ed in casi eccezionali, soprattutto quando i grandi network tendono a proporre letture ed immagini omologate, non è difficile che i contenitori di immagini amatoriali si trasformino in fonti di informazione alternativa volta a soddisfare l’interesse di chi non si accontenta delle versioni e delle coperture ufficiali.

La digitalizzazione del processo fotografico, secondo Gunthert, ha determinato quattro conseguenze principali: la modificazione dell’archiviazione; una maggiore possibilità di modificare a posteriori le fotografie; la facilitazione della telecomunicazione istantanea e la possibilità di integrarla in contenuti diffusi dalla rete.
Buona parte degli spazi su cui viaggiano le fotografie amatoriali si fondano sull’autoproduzione, sulla diffusione/consultazione diretta da parte degli utenti. Ciò che è avvenuto è il passaggio da una distribuzione controllata ad un’autogestione dell’abbondanza e ciò modifica, inevitabilmente, il rapporto dell’individuo con l’immagine. Oggi, il vero valore dell’immagine sembrerebbe risiedere nella sua condivisibilità.

L’utopia del contributo amatoriale, derivante dall’idea di un lavoro creativo emancipatore, è stata in buona parte contraddetta dalla realtà. Secondo lo studioso si è palesato nel tempo come la cultura della condivisione non privilegi tanto i contenuti, quanto piuttosto la loro appropriabilità e, per certi versi, la cultura della condivisione può anche essere vista come una sorta di rivincita delle masse.

«Come le istituzioni politiche ed economiche, le cui sorti sono legate, il giornalismo tradizionale si rivolge ormai a un ristretto numero di lettori: coloro che si sentono parte integrante del mondo descritto dai grandi media e votano saggiamente seguendone le raccomandazioni» (p. 129). Secondo lo studioso, che una parte considerevole della società tenda ad abbandonare le fonti autorevoli in favore di un’informazione desunta dai social network e, non di rado, di carattere ironico-satirico, non dipende soltanto dalle trasformazioni tecnologiche. L’allontanamento dei giovani e degli strati popolari sarebbe legato alla trasformazione politico-economica degli anni Settanta, che ha determinato l’abbandono di quelle forme di protezione proprie delle società evolute. «Dietro la rivendicazione ostentata del “vivere comune”, l’aumento delle diseguaglianze tocca oggi il mondo dell’informazione e favorisce un universo sempre più segmentato e individualizzato e una ricezione ironica delle ingiunzioni provenienti dalle élite» ed il successo di queste formule parodiche starebbe a testimoniare uno «sguardo sempre più distante, come se l’unica percezione pertinente dell’informazione possa essere solo quella ironica» (p. 130).

Nel panorama dei social network i principali fornitori di materiale sono gli utenti stessi e ciò avrebbe determinato il mescolarsi, in forma di conversazione, di contenuti personali e risorse mediatiche. Alla consultazione dei media si sarebbe sostituita la raccomandazione amichevole al fine di avere informazioni di attualità. Fonti private e fonti mediatiche vengono ad avere la medesima visibilità.

Se la legittimità delle fonti d’informazione deriva dal loro rispondere alle esigenze degli individui e tra queste vi è il bisogno di confronto e di partecipazione, i media tradizionali risultano incapaci di rispondere a tali esigenze e non basta di certo aggiungere la possibilità di un commento alla fine di un articolo steso con la vecchia logica per cambiare le cose. Resta in questo caso in piedi la logica che presuppone una fonte autorevole ed un ricevente a cui viene giusto data la possibilità di scrivere due righe a commento. I social network risultano invece in grado di integrare informazione e conversazione e, forse, una parte del loro successo è dovuta alla capacità di dare risposta alla voglia di protagonismo e partecipazione. Gunthert introduce il concetto di “fotografia conversazionale” per riferirsi ad un uso della fotografia (non importa se scattata appositamente) decisamente maggioritario oggi. Certo, affinché tali modalità di condivisione potessero darsi era necessario che la fotografia divenisse digitale.

Un grande limite della conversazione sui social network è determinato dall’elevato numero di partecipanti, che, non di rado, provoca l’ingestibilità del confronto vero e proprio e la conversazione si risolve sovente in un’enunciazione puramente dichiarativa: è il trionfo degli slogan e delle affermazioni roboanti, le uniche in grado di ottenere un minimo di visibilità. «Se il giornalismo delle notizie è stato lo strumento di un capitalismo regolato, la sregolatezza mediatica è lo specchio dell’esplosione di un modello di società. Le modalità del giornalismo di domani accompagneranno l’emergere di nuovi equilibri, molti dei quali restano ancora da scoprire» (p. 134).

La fotografia tradizionale si dava in corrispondenza di una gamma di eventi ben codificata all’esterno della quale lo scatto veniva giudicato inopportuno; occorreva essere turisti per potersi permettere scatti altrimenti mal tollerati. Per certi versi, secondo Gunthert, lo smartphone contemporaneo sembra aver trasformato ogni individuo in “un turista del quotidiano”, dunque al cospetto del cellulare-fotografico si è ampliata enormemente la quantità di quotidianità fotografabile (e condivisibile).

La parte conclusiva del volume si sofferma sulla pratica del selfie. Secondo lo studioso occorre immediatamente sgomberare il campo da un fraintendimento: il selfie non è un ritratto nel senso attribuitogli dalla tradizione pittorica prima e fotografica poi. La vocazione documentaristica è parte integrante della storia della registrazione visiva ma questa concerne usi specialistici. Per quanto riguarda la fotografia privata, questa ha solitamente lo scopo di custodire un ricordo e lo smartphone permette di «tradurre una situazione in forma visiva» (p. 147), di proporsi come reinterpretazione sintetica, non di rado ironica, del quotidiano.

André Gunthert, nel comparare la fotografia privata dei primi del Novecento a quella contemporanea, segnala che mentre nel passato i ceti popolari tendevano a copiare le pose e gli atteggiamenti delle celebrità, ora sembra accadere il contrario; le celebrità non disdegnano di riprodurre modelli derivati dal grande pubblico e ciò è particolarmente evidente nel ricorso al selfie. Su tale fenomeno riflette anche Elio Ugenti (Immagini nella rete, 2016), come abbiamo visto [su Carmilla].

Nonostante la pratica del selfie sia in uso sin dal 2000, è soltanto nel 2013 che è divenuta argomento di conversazione da parte dei media e degli studiosi. In rapida successione il selfie viene prima investito dall’accusa di palesare, amplificandolo, il narcisismo di una generazione e di un’epoca e poi viene incolpato di indurre i giovani ad imitare le pratiche autofotografiche delle star. Gunthert si sofferma in particolare sull’interpretazione che imputa alle nuove tecnologie l’impoverimento morale contemporaneo. Secondo lo studioso, tale interpretazione «si basa sul cambiamento di paradigma costituito dalla psicanalizzazione dei fatti sociali» (pp. 164-165). Una spinta in tale direzione è stata data dai saggi di Christopher Lash (The Culture of Narcisism, 1979) e di Jean M. Twenge (Generation Me, 2006 e The Narcisism Epidemic, 2009). In particolare quest’ultima individua la causa di tanto narcisismo nell’educazione all’autostima diffusasi negli anni Ottanta. Se da una parte le spiegazioni semplicistiche della studiosa conquistano facilmente i media, dall’altra la sua lettura viene attaccata ferocemente dagli specialisti. «Per spiegare la cultura contemporanea, la psicoanalisi ha gettato a mare la sociologia – almeno sulle pagine delle riviste, che applicano senza troppo pensarci i riflessi individualistici propri dell’ideologia neoliberale» (p. 166).

Una nuova ondata di attacchi al selfie deriva dalla diffusione in rete, nel 2013, di una serie di immagini in cui diversi adolescenti, incuranti del momento e del contesto, si esibiscono sorridenti in maniera del tutto analoga a quanto emerge dalle celebri fotografie realizzate dai carnefici americani di Abu Ghraib. L’accusa all’autofotografia è quella di incoraggiare comportamenti disdicevoli irrispettosi delle più elementari regole di comportamento da tenere nei luoghi e nei momenti più sacri. «L’autofotografia raggiunge lo smartphone nel simboleggiare al massimo livello l’ideologia della disconnessione dalla realtà, esemplificando l’assurdità di una vita documentata di continuo e la vanità di una comunicazione diventata self-branding» (p. 168). Ovviamente, come sempre accade in questi casi, la polemica ha contribuito ad estendere la pratica ed a questo punto si è assistito allo sfruttamento della moda del selfie da parte della pubblicità e del marketing. Nel 2014 la Samsung ha pianificato il famoso selfie delle celebrità nel corso della cerimonia degli Oscar per lanciare il suo nuovo modello di smartphone e, a proposito di gente priva di scrupoli, nel medesimo anno, durante le esequie di Nelson Mandela, il primo ministro danese Helle Thorming-Schmidt non ha resistito a scattare un selfie insieme a Barack Obama e David Cameron.

Il volume di Gunthert si chiude con l’aneddoto del principe Henry che, durante un viaggio in Australia, rifiuta un selfie ad una ragazza. «No, detesto i selfie. Davvero, lasci perdere. Lo so che lei è giovane, ma i selfie non sono belli. Faccia piuttosto una foto normale» (p. 172). L’invito del rampollo della casa reale è chiaro. «Fare una fotografia normale significa: restare al proprio posto, rispettare le regole non scritte che ergono uno schermo protettore tra il soggetto dell’attenzione e coloro che sono venuti per ammirarlo, talvolta materializzato da transenne o forze dell’ordine. Un mondo ci separa, dice il principe: ci sono quelli che guardano e quelli che sono guardati. La fotografia non è fatta per contraddire questa distinzione, ma per rafforzarla» (pp. 172-173). Insomma, un sussulto di sangue blu poco incline ad accodarsi alle modalità di ricerca di consenso dispiegata dalle nuove leve del potere borghese che invece non lesinano di ricorrere ad ogni mezzo necessario, selfie compreso.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini