di Gioacchino Toni

Elio Ugenti, Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2016, 198 pp., € 18,00

Il saggio Immagini nella rete di Elio Ugenti approfondisce l’esperienza visiva contemporanea alla luce delle interazioni tra i diversi dispositivi tecnologici che, oltre a comportare una percezione ubiqua delle immagini nel quotidiano, impongono una loro trasformazione in termini qualitativi da cui derivano nuove forme di interazione, uso (e riuso) delle stesse. Il contesto mediale contemporaneo tende infatti a ridefinire significativamente la funzione delle immagini, imponendo nuove modalità d’esistenza dipendenti dalla loro mutevole ricontestualizzazione.

Secondo l’autore, visto il contesto contemporaneo, risulta necessario considerare i nuovi media visuali a partire dai processi di mediazione che si danno attraverso essi. «Processi che prendono vita al crocevia tra le possibilità tecniche offerte dai dispositivi e una serie di fattori di natura contestuale che investono una vasta gamma di dinamiche sociali e culturali in orbita intorno alle pratiche di cui le immagini sono rese oggetto» (p. 8). La cultura visuale contemporanea deve pertanto essere indagata all’interno di una logica relazionale in costante trasformazione che ne determina il funzionamento. L’analisi proposta da Ugenti intende «comprendere l’attualizzazione di una serie di pratiche quotidiane che contribuiscono a una radicale trasformazione delle modalità di relazione tra soggetto qualunque e immagine qualunque, divenendo parte integrante della cultura visuale del nostro tempo, e favorendo inoltre un confronto attivo e costante con un patrimonio iconografico che proviene da contesti mediatici differenti e un tempo separati: cinema, televisione, gallerie d’arte, giornali, riviste, etc.» (p. 9).

Nel primo capitolo lo studioso passa in rassegna criticamente i diversi modelli di studio che analizzano le relazioni tra il contesto socio-culturale e la fruizione/circolazione delle immagini. Nel secondo capitolo l’autore indaga i meccanismi che regolano la circolazione delle immagini in rete cercando di delineare un modello teorico dinamico e relazionale capace di tener conto della «coesistenza all’interno di uno stesso ambiente mediale di numerose immagini e numerosi individui che entrano tra loro in relazione» (p. 11). Nel terzo capitolo Ugenti si sofferma sulle trasformazioni intervenute nel passaggio dall’era analogica a quella digitale a proposito degli usi e delle funzioni delle fotografie amatoriali ed in seguito all’interconnessione tra dispositivi di produzione di immagini e dispositivi di circolazione delle stesse. In questa ultima parte, in particolare, lo studioso analizza l’aumento delle possibilità di visibilità delle immagini personali e la riconfigurazione contemporanea del rapporto tra valore culturale e valore espositivo. «L’immagine sarà qui presa in considerazione meno come un puro oggetto visivo e più come un complesso fenomeno socioculturale, una vera e propria immagine-atto, per dirla con Philippe Dubois, le cui dinamiche d’azione divengono comprensibili solo se considerate parte integrante di un sistema di relazioni interindividuali e di processi autorappresentativi consustanziati alle logiche dell’ambiente mediale entro cui prendono forma» (p. 12).

Le vecchie forme di fruizione lineare e consequenziale sembrano aver subito un drastico ridimensionamento a favore di una cultura contemporanea in cui prevalgono forme frammentate e non lineari. «Ossimoricamente, si potrebbe dunque sostenere che l’archivio digitale sia l’unico medium possibile nell’epoca postmediale, o quantomeno quello che, per alcune caratteristiche che lo contraddistinguono (frammentazione, non linearità, interattività, eterogeneità dei contenuti) meglio si presta ad assecondare le logiche che sono alla base di un superamento delle specificità mediali, in favore di pratiche – spontanee o progettuali, vernacolari o artistiche – che varcano le soglie tra media differenti e riconfigurano lo statuto degli oggetti attraverso il loro riuso» (p. 10).

Secondo Ugenti nell’epoca contemporanea le analisi degli elementi formali e dei significati specifici di un’immagine, per quanto necessarie, non sono più sufficienti a rendere conto della sua efficacia; «oggi diventa ancor più necessario valutare la centralità di una dimensione pragmatica della fotografia, che è determinata dall’indistricabile relazione che lega l’immagine alle azioni che ne determinano l’esistenza» (p. 132). L’immagine deve essere pensata come insieme di un atto di produzione e di uno di ricezione/diffusione. «Nel nuovo universo mediale, questi due momenti generativi dell’immagine fotografica tendono a fondersi e a confondersi, al punto che molto spesso la realizzazione di una fotografia è pensata solo ed esclusivamente in funzione di una sua immediata diffusione mediante lo stesso dispositivo tecnologico» (p. 133).

Il selfie rappresenta una caso emblematico di ciò; in esso entrano in gioco tanto le caratteristiche dell’immagine in sé che le pratiche di utilizzo immediato dell’immagine realizzata; «nell’epoca dei social network l’immagine cessa di essere una pura presenza iconica per divenire un fatto socio-culturale, attraverso il quale l’identità dei soggetti è messa in gioco direttamente – mediante la produzione e condivisione di immagini personali da parte di un utente – o indirettamente […] mediante l’appropriazione e la ricontestualizzazione di contenuti preesistenti (fotografie, sequenze di film, spot pubblicitari, frammenti televisivi, videoclip musicali) nei confronti delle quali si vuole rimarcare una vicinanza, o attraverso le quali si intende tratteggiare ed esporre la propria identità socio-culturale» (p. 134).

Storicamente la pratica fotografica amatoriale era vincolata ad occasioni particolari ed il ricorso ad essa era solitamente legato ad una funzione familiare volta a bloccare momenti che si intendevano ricordare.

Se in passato, dunque, il possesso e l’esposizione (su scala ridotta) dell’immagine familiare era vissuta come un passaggio chiave per un processo di “integrazione” all’interno del gruppo sociale di appartenenza, oggi l’astensione dall’esporre (su larga scala) le proprie immagini personali è vissuta talvolta come parte di un processo di non omologazione. In entrambi i casi è evidente come l’atteggiamento del soggetto in relazione all’uso delle proprie immagini sia in qualche modo condizionato da una serie di vincoli e convenzioni che pertengono alla sfera interindividuale, la quale risente di una serie di convenzioni e di restrizioni riconducibili alla propria cultura di appartenenza (p. 145).

Mentre un tempo l’immagine personale scattata in occasioni speciali tendeva ad avere un valore intimo e rituale, dunque ad essere esposta con parsimonia, oggi l’immagine amatoriale personale deve essere rapportata all’interno del nuovo ecosistema mediale al cui interno circolano e proliferano tali immagini ed alle mutate dinamiche socio-culturali ed esperienziali che in tale sistema prendono forma. L’esposizione di foto personali sui social network tipica della contemporaneità potrebbe essere vista come una restituzione all’uso pubblico dell’immagine privata attraverso forme di ritualità differenti, legate alle nuove consuetudini ed alle nuove dinamiche di socializzazione in rete. Secondo lo studioso, non di rado, l’ambiente dei social network tende a non essere percepito dall’utente come uno spazio pubblico ma come estensione di uno spazio percepito ancora come privato.

La possibilità di impostare su Facebook la propria privacy, scegliendo di mostrare le immagini condivise soltanto alla propria cerchia di amici, conferisce la sensazione di agire entro uno spazio che – seppur notevolmente ampio – resta comunque delimitato e controllabile. In altri casi, invece, l’invasione di uno spazio che può definirsi pienamente pubblico è più evidente. È questo il caso della condivisione di immagini su Twitter e – soprattutto – su Instagram, dove il ricorso agli hashtag risulta essere il sintomo di una consapevole (o quantomeno volontaria) scelta di totale perdita di controllo di un’immagine condivisa, ben oltre la propria cerchia di followers.
La funzione mnesica e la ritualità domestica tradizionalmente riferibili all’immagine privata vengono così sopraffatte da una serie di processi di autorealizzazione (prevalentemente nel primo caso) e di autopromozione (prevalentemente nel secondo) che mettono in gioco ancora una volta la propensione al disvelamento […]
L’aumento a dismisura del valore espositivo dell’immagine comporta, inevitabilmente, una «ridefinizione della sua funzione sulla base di una spinta autoaffermativa o autopromozionale della propria identità, in relazione all’investimento affettivo di cui – prevedibilmente – buona parte della “comunità” sceglierà di rendere oggetto quell’immagine, e dal quale deriveranno una serie di feedback che accresceranno il piacere dell’utente che ha optato per la sua condivisione (pp152- 154).

Nell’epoca contemporanea la fotografia personale sembra rompere sempre più il legame con la memoria intima dell’individuo preferendo, piuttosto, orientarsi verso «forme di pura autorappresentazione o di attestazione di un’esperienza in atto. La referenzialità temporale dell’immagine sembra slittare nettamente dalla contemplazione di un passato condensato nella foto verso l’osservazione di un presente immediatamente condiviso con un ampio numero di persone» (p. 154). L’immagine personale sembra dunque diminuire la sua funzione mnesica a favore di una funzione decisamente più comunicativa ed esperienziale.

Elio Ugenti chiarisce la portata del cambiamento attraverso un esempio comparativo tra un’immagine di famiglia dei primi anni Sessanta relativa ai festeggiamenti per il primo anno di età di un bambino ed una fotografia contemporanea pubblicata su Facebook che riprende una medesima scena di famiglia. Nel primo caso la foto è stata scattata, presumibilmente, per essere inserita in un album dei ricordi per poter essere rivista a distanza di tempo, nel secondo caso la fotografia è stata immediatamente condivisa sul social network con l’intenzione di comunicare un avvenimento in corso palesando così la sua spendibilità immediata. Ciò non significa negare la possibilità di rivedere l’immagine e rievocare il ricordo a distanza di tempo; ciò che accade è che a fianco di questa possibilità si aggiunge, divenendo prioritaria, la funzione comunicativa. Nella foto su Facebook sono presenti anche elementi di feedback paratestuali come i “like” totalizzati ed i commenti aggiunti a rimarcare come l’uso prevalente di tale immagine sia quello comunicativo rispetto a quello mnesico.

Oggi la fotografia privata, sostiene lo studioso, rispetto a quella del passato, si caratterizza per l’elevato livello di esposizione (almeno potenziale), la diminuzione del tempo intercorrente tra realizzazione e fruizione della fotografia, lo slittamento dalla preservazione del ricordo di un’occasione extra-ordinaria verso l’attestazione di un’esperienza spesso del tutto ordinaria. Come detto, tali trasformazioni non comportano la cancellazione della funzione di preservazione della memoria della fotografia ed a riprova di ciò può essere preso l’esempio delle crude immagini delle torture dei prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib ad opera di militari americani. Queste fotografie che nascono come immagini private (attestazione esperienziale), una volta sfuggite al controllo degli autori e mostrate dai media, acquisiscono una funzione di denuncia e di preservazione della memoria di un evento brutale anche a distanza di tempo; l’utilizzo ed il grado di esponibilità hanno modificato nel tempo i rapporti interni alle fotografie.

Ciò che vale per le fotografie del carcere di Abu Ghraib vale anche nell’ambito del quotidiano, senza per forza far riferimento ad immagini di interesse collettivo; al di là della finalità immediata che porta ad una condivisione di una fotografia personale, questa mantiene intatta nel tempo la possibilità di preservare e restituire il ricordo di ciò che contribuisce alla costruzione della memoria privata. La fotografia resta, anche nell’epoca digitale, uno dei principali mediated memories objects.

Se nelle fotografie private analogiche la formazione dell’identità personale pareva essere un elemento secondario rispetto alla funzione mnesica, oggi tale relazione tende a riconfigurarsi alla luce di alcuni slittamenti circa gli usi e le funzioni di tale tipo di immagini. La studiosa olandese José Van Dijck (Digital Photography: Communication, Identity, Memory, 2008) nell’individuare i principali slittamenti subiti dalla fotografia privata nell’epoca digitale segnala, tra gli altri, «il passaggio da un uso principalmente familiare della fotografia verso un uso più marcatamente individuale» (p. 165).

La circolazione sui social network delle fotografie personali pare spesso derivare da una necessità autorappresentativa, se non dalla costruzione di un’identità individuale in rete, attraverso una disponibilità al disvelamento. Ciò che le differenzia rispetto alle vecchie fotografie amatoriali dell’epoca analogica è riconducibile «all’ambiente mediale entro cui queste immagini agiscono, oltre che alla differente entità delle convenzioni sociali (e anche “estetiche”) alle quali si attengono» (p. 167). Facendo riferimento alla pratica amatoriale fotoritrattistica del selfie, è palese come questo

più che fondarsi su una serie di convenzioni esterne che storicamente hanno dettato le regole di una buona autorappresentazione fotografica (anche amatoriale), detti esso stesso le coordinate per la creazione di nuovi modelli autorappresentativi, per esempio rendendo lecita la violazione di una serie di regole formali concernenti anche (non soltanto) la realizzazione di un ritratto fotografico. Due su tutte: la distanza molto ridotta tra il soggetto e il dispositivo di ripresa, e la visibilità del braccio teso all’interno della foto.
Sarebbe riduttivo limitarsi a constatare il divenire moda di questa pratica amatoriale senza cogliere alcune interessanti ripercussioni sul piano socio-culturale e mediatico. Se un tempo, infatti, erano le pratiche amatoriali ad assorbire i modelli rappresentativi che nascevano in ambito artistico […] o che si assimilavano attraverso i reportage e le fotografie di moda diffuse dai rotocalchi, oggi – a causa dell’altissimo valore espositivo delle immagini amatoriali – sembra verificarsi anche il percorso inverso (p. 168).

Non mancano, infatti, esempi di celebrità che fanno ricorso al selfie «a voler ribadire la centralità della pratica in sé ancor più di quella dell’immagine fotografica che ne deriva» (p. 169). Se in passato l’individuo comune tendeva ad emulare le celebrità, ora avviene anche l’inverso: le celebrità del mondo dello sport, dello spettacolo o della politica nel realizzare il selfie intendono giocare ad essere “come i comuni mortali”. Il caso più celebre è rappresentato dal selfie realizzato da Bradley Cooper durante le premiazioni nella notte degli Oscar del 2014 divenuto l’immagine più condivisa della storia dei social network.

Ancora più interessante diviene questo esempio se si pensa al fatto che il ricorso a una semplicissima pratica, nata come amatoriale, diviene un potentissimo mezzo di promozione per uno degli eventi più importanti del mondo e, contemporaneamente, com’è ormai noto, per un colosso mondiale nel ramo della tecnologia come la Samsung, che si è rivelato essere il vero ideatore di questa mastodontica campagna pubblicitaria fondata tutta sulla familiarità di un semplice gesto.
La scelta di una forma ideale di condivisione del sé in rete per mezzo dell’immagine fotografica ha dunque condotto nel tempo alla nascita non solo di una particolare estetica autorappresentativa, ma anche di una retorica che soggiace alla necessità di comunicare attraverso una ben precisa forma socialmente condivisa e immediatamente riconoscibile (pp. 169-170).

L’esempio del selfie come nuova pratica autorappresentativa, serve ad Ugenti per evidenziare come al fine di comprendere i fenomeni costitutivi dell’attuale cultura visuale sia necessario evitare di cadere nella trappola del “determinismo tecnologico” e come sia indispensabile valutare i fattori contestuali. Per uno studio attendibile sull’universo visuale contemporaneo occorre saper indagare nel loro intersecarsi e nel loro mutare costantemente tanto gli aspetti tecnologici che i mutamenti di natura sociale, culturale e mediale.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini