di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.