di Marilù Oliva
Romano De Marco, Città di polvere, Feltrinelli, 2015, p. 348, € 15.
Uscito per Feltrinelli nella collana “Nero a Milano”, Città di polvere è il nuovo romanzo dell’abruzzese Romano De Marco, secondo volume che ha come coprotagonista Marco Tanzi, dopo Io la troverò, pubblicato l’anno scorso e finalista in diversi premi, tra cui lo Scerbanenco. Sullo sfondo di un capoluogo malavitoso – più di quanto i media vogliano rassicurarci – si intrecciano di nuovo le esistenze di Marco Tanzi, appunto, Luca Betti e Laura Damiani, i primi due amici, gli ultimi due amanti e tutti e tre colleghi.
Il commissario Damiani è stata promossa a capo della squadra antirapine e il primo caso che si trova a risolvere è un cruento assalto a una banca. Le modalità con cui è stato messo in atto il colpo, però, hanno qualcosa di strano e subito saltano agli occhi alcuni dettagli sospetti.
Marco Tanzi era il miglior poliziotto di Milano. Ma è stato anche clochard – nel precedente libro –, quindi autoesiliato, poi riabilitato. Ora gli viene chiesto di collaborare a un’indagine non autorizzata come infiltrato in prigione, per scucire a un contabile di associazioni criminali le informazioni necessarie per mettere in ginocchio il mercato ‘ndranghetino della cocaina in città. Tanzi accetta e la sua permanenza in prigione dà all’autore la possibilità narrativa di ampliare il discorso a riflessioni di buonsenso sulla situazione disumana delle nostre carceri:
Articolo ventisette, comma due, della Costituzione Italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Si può sostenere che sei persone stipate in una cella che misura due metri e mezzo per quattro siano trattate con umanità? Che sia rispettata la loro dignità? […]
Il carcere è un mondo a parte, regolato da leggi che vanno ben oltre quelle scritte e basato su equilibri molto fragili che si spostano costantemente a seconda del flusso di contanti che li governa. Guardie corrotte, impiegati amministrativi conniventi, direzione schierata. Puoi ritrovarti pugnalato alla schiena con un punteruolo artigianale, durante l’ora d’aria, senza che nessuno abbia visto nulla.
Marco Tanzi al carcere bresciano di Canton Mombello, Luca Betti e Laura Damiani tra uffici e recessi della città, si trovano a scoprire un po’ alla volta la segreta architettura delinquenziale ordita con la complicità di una gang mafiosa, di uomini compiacenti, di poliziotte che reggono il doppio gioco, di un viscido faccendiere che fa venire i brividi e risponde al nome di Furio Pesson. La galleria di personaggi è ampia e copre uno spettro variegato che trova riscontro nella realtà: dal questore di Milano Daniela Boschi – quarantasette anni, venti di lotta alla camorra, un curriculum da far inchinare il più misogino degli agenti – all’infido e doppiogiochista Matteo Serra.
Una storia d’azione e di detection che conduce a un finale adrenalinico, dove le esistenze dei singoli prendono forma pagina dopo pagina, rivelandone disillusioni e speranze e dove il pericolo affiora sempre dietro l’angolo, non ultimo l’arrivo sul mercato di una nuova droga, la metamfetamina Green Inferno, prezzo basso ed effetti immediati: fa scattare subito la dipendenza e provoca danni cerebrali permanenti.
Paragonato a Giorgio Scerbanenco e a Renato Olivieri per la sua capacità di restituire il lato scuro della città lombarda, Romano De Marco porta avanti le quasi 350 pagine del romanzo con una scrittura decisa e fluida, scattante, ricca di dialoghi, ma anche di scene di azione e brevi pennellate descrittive, divulgando piacevolmente qualche notizia tecnica su come funzionano i sistemi protettivi dei caveau delle banche, ma anche lasciandoci la certezza che abbia fatto tesoro e reso originali le lezioni dei tanti hard boiled letti.