di Luca Casarotti
Ad Amiri Baraka, in memoriam.
“Coltrane stesso, non lo si percepiva esattamente come una persona. Anche in circostanze insignificanti, quando entrava in una stanza, avveniva piuttosto qualcosa come un cambiamento d’atmosfera, una specie di evento, si produceva un campo elettrico o magnetico, come preferite. Questo non escludeva assolutamente la dolcezza o l’agio, ma non erano dell’ordine della persona. Erano un insieme di intensità. A volte lo irritava essere così, fare questo effetto, ma del resto tutta la sua opera se ne nutriva. Bagliori, scintillii, lampi, effetti di luce erano ciò che in lui costituivano il visibile”. (Gilles Deleuze, Pourparler [1990], trad. it., Quodlibet, Macerata 2000, p. 154)
Mai fidarsi dei citazionisti: infatti la citazione è spuria. Cioè, è esatta, salvo che per il soggetto. Deleuze parlava così di Michel Foucault, non di Coltrane.
Allora che senso ha inserirla in un articolo su di lui? Provo a spiegarlo tra qualche riga. Anzitutto una premessa.
Nel 2014 cade il cinquantennale della registrazione (9 dicembre 1964, il disco sarebbe uscito il mese dopo) di A Love Supreme, una delle opere più influenti, celebrate e analizzate del jazz (e non solo). Nel 2016 saranno novant’anni dalla nascita di John Coltrane (23 settembre 1926), nel 2017 cinquanta dalla morte (17 luglio 1967). A quarantasette anni dall’ultima incisione in studio, con una valanga di materiale ancora inedito, la sua musica suscita interrogativi, divide tra adoratori e detrattori (o tra adoratori del “Coltrane-di-Giant-Steps” e detrattori del “Coltrane-free”), produce frotte di epigoni e dà la stura a migliaia di pagine di letteratura specialistica. Ma soprattutto divide, divide e spiazza. Quindi, a voler parafrasare il Tronti de La politica al tramonto, Il pensiero musicale di Coltrane è un “vero pensiero”, dal momento che “il vero pensiero si riconosce in ciò: che divide”.
La raffica di anniversari a cifra tonda potrebbe essere un buon pretesto per fare qualche riflessione sull’opera di un artista i cui echi si sono propagati ben oltre i confini musicali. E’ sterminato l’elenco dei riferimenti a Trane nella pittura, nel cinema e nella letteratura. Un solo esempio, che mi consente di rimanere su un terreno che conosco (io sono prima di tutto un musicista, la mia formazione letteraria e filosofica è in larga parte da autodidatta), ed è significativo per la sua radicalità. Quando scrisse per la prima volta di stare lavorando a quello che sarebbe diventato l’oggetto narrativo non identificato Point Lenana, Wu Ming 1 parlò di un “libro di jazz modale”, prendendo a paragone un pezzo di Coltrane, Impressions. Non era questione di inserire il personaggio-Coltrane o qualche suo brano nella trama di un romanzo. Qui si trattava, nel delineare una struttura narrativa, di tenere presente una certa tecnica di composizione e improvvisazione musicale. Era qualcosa di più del prendere semplicemente ispirazione: era il tentativo di tracciare un parallelismo tra attitudini compositive ed esigenze espressive, musicali da un lato e verbali dall’altro. Non a caso, attorno al libro hanno ruotato diverse forme di interazione tra musica e testo: reading musicali, presentazioni-concerto etc.
Ma torniamo alla citazione di Deleuze. Ovviamente non voglio usarla per proporre accostamenti improbabili tra Foucault e Coltrane, o tra Coltrane e Deleuze, ma perché mi sembra che contenga un’immagine, quella del campo di forze, che al musicista si adatta bene. Per due motivi. Il primo è che le parole di Deleuze sintetizzano alla perfezione le testimonianze di chi abbia assistito a un’esibizione di Coltrane. Nelle numerose pagine che si possono leggere al riguardo, tutti, compresi i detrattori – che lo criticano proprio per questo – parlano di quel “cambiamento d’atmosfera”, di uno sconvolgimento emotivo e fisico. Ascoltando le registrazioni dei torrenziali concerti, ci si può fare una vaga idea di quale dovesse essere l’impatto. Da un certo momento in poi (le registrazioni del tour giapponese del ’66 lo testimoniano) il gruppo suonava set composti da un solo brano, improvvisando per ore intere su quell’unico tema.
Il secondo motivo è che la ricerca di Coltrane, come strumentista e come compositore, è attraversata da alcuni vettori che si incrociano in tutta una serie di risultanti e combinazioni, che rappresentano di volta in volta gli esiti del suo sforzo di rinnovarsi continuamente e mai ripetersi. Detto altrimenti e in modo meno criptico: di solito la sua opera è suddivisa in periodi (il periodo bebop, il periodo modale, il periodo free etc), il che è piuttosto arbitrario di per sé, e con Coltrane lo è anche di più. Certi tratti del suo stile, infatti, certe sue soluzioni, rimangono costanti nel tempo, nonostante i cambiamenti di poetica e gli stravolgimenti di organico nel suo gruppo. Mano a mano che Coltrane veniva a contatto con nuove musiche e nuovi musicisti (le melodie astratte di Ornette Coleman, i raga – cioè la musica tradizionale per sitar – dell’India settentrionale, il sax furioso di Albert Ayler) aggiungeva nuovi tasselli all’ossatura del suo sound, ma quel che già c’era non veniva mai abbandonato. Piuttosto veniva arricchito e reso più complesso. Pretendere di chiudere in compartimenti stagni questo lavoro vuol dire spezzare la continuità di una produzione e di una ricerca ininterrotte. Nel solo del brano Venus, registrato nel 1967, si sentono cose che già si ascoltavano in Giant Steps, di otto anni prima: ad essere diverso è il contesto. Ascension (1966) è composta con criteri simili a quelli usati per A Love Supreme (1964), malgrado la musica sembri, e in effetti sia, completamente diversa.
Di questa irriducibilità si è reso conto Lewis Porter, che nel 1998 ha scritto un dettagliatissimo libro, pubblicato in Italia da Minimum fax con il titolo Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane. Il lavoro di Porter ha un grande merito: nonostante ricostruisca la vita del sassofonista con piglio iper-documentale (Cose tipo il contratto d’acquisto della casa di Philadelphia in cui Coltrane andò ad abitare dopo la leva militare), evita di spiegare questa o quella composizione alla luce di questo o quell’evento biografico. Il fatto è che i reperti presi in considerazione da Porter hanno un preciso valore storiografico, servono a collocare la vita del musicista nel contesto di una società americana in rapido mutamento, non sono feticci raccattati qua e là per soddisfare qualche curiosità morbosa (il biografismo è uno degli strumenti più regressivi che il critico abbia in mano. Le questioni artistiche restano artistiche, quelle personali dovrebbero restare personali).
Coltrane era la negazione lampante dello stereotipo, razzistissimo, che fa del jazzista una specie di genio selvaggio, tutto istinto e talento. Lui studiava meticolosamente e con rigore, lo ha fatto per tutta la vita: si esercitava sui metodi per sassofono, sui libri di scale e sui capisaldi della didattica accademica classica come Hanon e Czerny. Chi ci è passato sa la pedanteria e l’inesorabilità di quegli esercizi.
Quando cominciò a suonare professionalmente, subito dopo la guerra, erano gli anni del bebop. Per lui, come per tutti i jazzisti della sua generazione, i modelli di virtuosismo e innovazione erano Charlie Parker, Dizzie Gillespie e Lester Young. Nei gruppi di Gillespie (una big band prima e una formazione più ridotta poi) Coltrane ci andò a suonare, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, avendo così modo di vedere da vicino Parker all’opera. Più o meno in quel periodo suonò anche con Johnny Hodges, solista storico dell’orchestra di Duke Ellington e musicista tra i prediletti dello stesso Coltrane. Ma la maturazione vera del suo suono al sax tenore avvenne dopo il 1955, quando cominciò a lavorare al fianco di Miles Davis e Thelonious Monk. La collaborazione con Davis all’inizio fu discontinua, perché Coltrane non si era ancora completamente disintossicato dall’eroina: divenne stabile dal ’58. Del periodo con Monk resta qualche registrazione dal vivo realizzata al Five Spot, il claustrofobico club newyorkese dal quale transitarono generazioni di artisti, da Parker a Ornette. Restano anche i racconti di come si svolgevano quei concerti: sovente Monk si alzava dal piano e lasciava Coltrane a suonare per diversi minuti solo con basso e batteria, libero di esplorare come meglio credeva le idee che gli venivano in mente, non essendoci il pianoforte a scandire gli accordi.
Da Monk, Trane imparò a mandare a memoria i brani che doveva eseguire. Lezione importante: ti fa sentire la musica in modo diverso. Per memorizzare un brano, sei costretto a suonarlo più e più volte, a farlo davvero tuo. C’è un rapporto più diretto e materiale tra te-musicista e la musica che suoni: non ci sono i fogli dello spartito a frapporsi tra te e la musica, è tutto nella tua testa e nelle tue dita che suonano. Io, che ad imparare a memoria la musica scritta ci sono costretto, so cosa vuol dire. E so anche quanto la faccenda sia difficoltosa, ma decisamente più appagante. Memore della lezione di Monk, Coltrane diede sempre pochissima musica scritta ai membri dei suoi gruppi: le indicazioni anzi andarono diminuendo con gli anni; magari una semplice scala, un gruppo di note su cui improvvisare.
I boppers erano ossessionati dall’armonia: si sforzavano di costruire accordi complessi (che dopo l’esperienza del bebop entrarono nel vocabolario di molti musicisti e compositori, non solo dei jazzisti), stendevano un percorso a ostacoli per il solista, che doveva dimostrare la sua bravura districandosi tra tutti quegli accordi. Coltrane voleva portare all’estremo questa ricerca armonica: da virtuoso del sax quale era, verso la fine degli anni ’50 sovrapponeva le note di tre accordi nello spazio (di solito una misura) in cui gli altri improvvisatori ne suonavano uno. Il risultato era una cascata di note velocissime, ma tutte ben articolate e distinte l’una dall’altra. Per descrivere questo effetto-cascata il critico Ira Gitler aveva coniato l’espressione, in seguito abusata, “sheets of sound”.
Da questa ossessione per le complicazioni armoniche e per le relazioni tra gli accordi nasce Giant Steps, album che apre una serie di dischi registrati da Coltrane in quartetto, (anche se quello di Giant Steps non è ancora il quartetto “classico” che lo accompagnerà dal 1960 al 1965). Alcune delle composizioni incluse nel disco si basano su una particolare relazione matematica.
In Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, David Foster Wallace segnalava i diversi livelli di approfondimento di un tema già di per sè ostico usando la dicitura “Ncvi”, cioè “nel caso vi interessi”. Questo è più o meno un paragrafo “nel caso vi interessi”: spiego la relazione matematica di cui sopra e faccio un paio di commenti. Potete leggerlo, oppure saltare a quello successivo. Naturalmente sono più contento se lo leggete. Niente di complicato, comunque.
Alcune composizioni di Giant Steps (la stessa Giant Steps, Countdown) si basano su una determinata sequenza di accordi, legati tra loro da una relazione di terza maggiore, piuttosto inconsueta nell’armonia tradizionale. Ecco cosa significa: il sistema musicale a cui siamo abituati è detto temperato. Comprende dodici suoni di altezza diversa, i semitoni, che si ripetono ciclicamente. Questi dodici semitoni compongono un’ottava. Dire che tra due note c’è un intervallo di terza maggiore significa che tra i due suoni c’è una distanza di quattro semitoni. L’intervallo di terza maggiore ha una proprietà: divide l’ottava in tre parti uguali. Immaginiamo di partire dal primo semitono: saliamo di una terza maggiore e arriviamo al quinto; saliamo di un’altra terza maggiore e arriviamo al nono; saliamo ancora di una terza maggiore, saremmo al tredicesimo, ma l’ottava ha solo dodici suoni, e si ripete ciclicamente, quindi siamo di nuovo al primo. Ovviamente, la relazione resta valida partendo da uno qualsiasi dei 12 semitoni. Le tre parti in cui l’ottava viene così suddivisa si possono pensare come 3 lati di un triangolo equilatero, con i suoni posti ad intervallo di terza maggiore che fanno da vertici. Giant Steps e Countdown sono scritte sfruttando questa proprietà: i triangoli equilateri partono da diversi punti dell’ottava e si susseguono, incastrandosi l’uno nell’altro. E qui vorrei giustificare, con un collegamento un po’ azzardato, il fatto di aver tirato in ballo Foster Wallace. Il triangolo che contiene altri triangoli generati da un medesimo pattern (cioè un frattale) è la figura del Triangolo di Sierpiński, ovvero quella su cui, come fa notare Carlotta Susca, DFW ha detto di aver strutturato la trama di Infinite Jest (uno dei personaggi del romanzo, infatti, ha appeso in camera un poster che lo rappresenta). E visto che si parla di infinito, sembra che il concetto sia piuttosto importante sia per Trane che per DFW. John Coltrane: l’anelito all’infinito si intitola il ritratto che il musicologo Stefano Zenni gli ha dedicato in questa puntata della trasmissione Body & Soul di Radio3.
Per quanto innovativi e arditi anche per il bopper più esperto (basta ascoltare il pianista Tommy Flanagan che fatica a seguire i vorticanti cambi di accordo nel solo di Giant Steps), questi brani suonano forzati, hanno più il sapore di uno studio che di un pezzo compiuto. E Coltrane lo sa: al punto da scriverlo nelle note di copertina dell’album. Rarissimo che un musicista faccia autocritica già al momento dell’uscita di un suo disco. Raro che un musicista faccia autocritica e basta. Trane faceva anche questo. E quando in seguito tornò ad usare la stessa relazione armonica (i jazzisti parlano di “Coltrane changes”), riuscì a farla suonare più fluida e musicale: è il caso delle sue versioni degli standards Summertime e, soprattutto, Body and Soul. Ma in Giant Steps ci sono anche autentiche perle, come la ballad Naima, innovativa quanto Giant Steps e Countdown, seppure in modo più sottile, meno ostentato. Non a caso, Naima rimase sempre nel repertorio di Coltrane, mentre Giant Steps fu eseguita dal vivo pochissime volte. Restò in scaletta solo per un anno, dopo la pubblicazione del disco.
Nel mentre, Coltrane era anche al fianco di Miles Davis, che almeno per certi versi stava spingendo la sua musica in una direzione opposta rispetto alle complicate successioni di accordi del bop. Il pianista Bill Evans, il quasi omonimo compositore Gil Evans e il collega George Russell scrivevano pezzi basati su pochi accordi, però suonati a lungo, in modo da lasciare al solista tutto il tempo per elaborare ogni singola idea melodica. Davis fece suo questo approccio e nel 1959, qualche mese prima che Coltrane entrasse in studio per Giant Steps, registrò Kind of Blue, un altro snodo cruciale nella storia della musica del ‘900. Con Davis c’erano Coltrane al sax tenore, Julian “Cannonball” Adderley al sax contralto, Bill Evans e Wynton Kelly al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria. Il disco si apre con uno degli esempi più famosi di quello che usualmente viene chiamato jazz modale, il brano So What. Se in Giant Steps l’armonia cambia a velocità impressionante, in So What ci sono in tutto due accordi: un re minore e un mi bemolle minore.
Non solo Coltrane suona a suo agio in entrambi i contesti, ma finisce per assimilarli e fonderli insieme: infatti negli anni successivi le sue composizioni tendono ad essere armonicamente sempre meno complesse, ma quando si tratta di improvvisare, Trane si muove liberamente fuori e dentro quei pochi accordi. La già citata Impressions del 1961 (questa è l’esecuzione al festival di Newport nel 1963) ha esattamente gli stessi due accordi e la struttura di So What. Nel frattempo però Coltrane si è esercitato sulla musica modale con la consueta meticolosità e ora esegue il brano a un tempo rapidissimo, lanciandosi in improvvisazioni sterminate.
Altra breve digressione “Ncvi”.
A rigore, l’espressione “jazz modale” è impropria e alcuni studiosi, come Berry Kernfeld, propongono di abbandonarla. Il “modo” è un certo tipo di scala, con una certa distanza tra le note che la compongono, cioè i gradi (un semitono, un tono, un tono e mezzo etc). A seconda di come si posizionano queste distanze, il modo prende un nome piuttosto che un altro. In molti casi questo nome indica l’area geografica in cui si suona una musica basata prevalentemente su quel modo: ionico, dorico, frigio, lidio e così via. Ce ne sono centinaia, non solo quei sette che di solito ci insegnano nelle accademie di jazz.
Dunque, in senso stretto, si parla di musica modale quando vengono usate solo le note della scala corrispondente a un determinato modo. Una tarantella, ad esempio, o un saltarello fiorentino rendono l’idea di cosa si dovrebbe intendere per musica modale. Invece i solisti di jazz modale fanno un’altra cosa: anche quando hanno un accordo fisso, si spostano da una scala all’altra, le mischiano, ci infilano elementi blueseggianti (la scala blues è, appunto, un modo). Insomma, ibridano fortemente. Per questo sarebbe più giusto, anche se immensamente più scomodo, parlare di jazz basato su uno o due accordi…
La fusione tra i due approcci (quello modale e quello di tipo bop) si ascolta anche nel disco My Favorite Things. Il brano eponimo era un walzer composto da Rodgers e Hammerstein per il musical di Broadway (e poi film del 1966) Tutti insieme appassionatamente. Coltrane, che riteneva la canzone semplice ma niente affatto stupida, la riscrisse dalle fondamenta. Anche di My Favorite Things sono note le versioni live, in cui in pratica il gruppo suona lo stesso accordo, un mi -alternativamente maggiore e minore- per un quarto d’ora/venti minuti alla volta e Coltrane sfrutta quel pedale fisso per invenzioni melodiche sempre diverse. In più c’è una novità: il sax soprano, che dall’inizio degli anni ’60 Trane affianca al tenore, il suo strumento principale. Miles, nell’autobiografia, racconta di esser stato lui a regalarglielo, comprandolo da un antiquario di Parigi. In realtà Coltrane ne possedeva già uno e aveva cominciato a studiarlo da qualche anno.
Quando compare in My Favorite Things (e poi comparirà regolarmente nei dischi successivi) il suono del soprano di Coltrane è atipico, lontanissimo da quello drammatico, quasi operistico di un Sidney Bechet, che infatti era appassionato d’opera lirica: è aggressivo, stride, si avvicina più all’oboe e agli strumenti a fiato dell’Africa centrale.
A questo punto la sua musica amalgama elementi diversi, prende dai generi quel che serve e ne fa qualcosa di originale. Con il 1962, dopo una serie di avvicendamenti, il quartetto si stabilizza e diventa “il” quartetto di Coltrane per antonomasia: McCoy Tyner al pianoforte, Jimmy Garrison al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria.
Una delle ragioni per cui il suono di questo quartetto è diventato classico sta nel suo particolare equilibrio, che deriva dalla dialettica tra personalità musicali diverse. Mentre Coltrane e Jones tendono a suonare – come si dice – “in avanti”, cioè ad anticipare di poco il tempo regolare, quello battuto dal metronomo, Jimmy Garrison suona “indietro”, cioè fa esattamente l’opposto. Nel mezzo c’è Tyner, che invece suona “sul tempo”, né “avanti” né “indietro”. Sono questi leggeri sfasamenti che producono “lo swing”, una delle entità più difficili da definire nella musica: meglio ascoltarne un classico e fulgido esempio.
Trane aveva imparato da Davis ad assemblare così i suoi gruppi. Anche Miles cercava musicisti diversi tra loro, che si completassero a vicenda. Nel sestetto di Kind of Blue, ad esempio, c’erano la tromba scarna e lirica di Davis, il sax bluesy di Adderley, quello vorticante di Coltrane, il basso potente di Chambers, il pianoforte etereo di Evans.
Coltrane usa il bagaglio dei suoi studi e delle esperienze con altri musicisti per ibridare linguaggi, tecniche e stili.
La critica, dal canto suo, comincia a crogiolarsi nel dubbio: ma quello di Coltrane… è jazz? Rientra nella definizione di jazz? Presto, calcoliamo il grado di purezza del Jazz di Coltrane!
Come se il jazz, musica ibrida per eccellenza, si lasciasse codificare, diventasse d’improvviso impermeabile a nuove ibridazioni, perché il critico decide che qualcosa è jazz e qualcos’altro no.
Un tizio scrisse su DownBeat che sì, Coltrane è tecnicamente mostruoso, sconvolge chiunque con la potenza del suo suono, ma “non ha il distacco che è proprio del vero artista”. Di contro, recensendo su Musica Jazz un concerto del gruppo di Miles durante il suo tour italiano nel 1960, Arrigo Polillo fece notare che Coltrane dava l’impressione non tanto di suonare con gli altri musicisti, quanto di studiare direttamente sul palco. Fu accusato di lesa maestà, ma in effetti aveva ragione. Lo stesso Coltrane disse in un’intervista che negli ultimi concerti con Miles, poiché la situazione musicale non lo entusiasmava più, coglieva l’occasione per studiare anche sul palco.
Il problema dell’incasellamento dei generi, della catalogazione rigida, la critica (e non solo quella musicale) lo ha ancora oggi. Quanto a quest’ultima, soprattutto negli USA, su Coltrane elucubra (si noti l’eufemismo) con le stesse domande di 5 decenni fa: “Ma Ascension sarà jazz, non sarà jazz? Apriamo il dibattito!”
Lo spiega bene Ashley Kahn – autore di una raffinata analisi di A Love Supreme – che simili imprescindibili questioni le lascia volentieri agli altri.
A Love Supreme è la summa di anni di sperimentazioni e di concerti del quartetto. In questa suite composta da quattro movimenti, che su disco dura circa trentatré minuti, confluiscono tutte le linee lungo le quali si era mossa la ricerca di Coltrane: l’amplissima esplorazione armonica, l’essenzialità delle composizioni, l’interazione e il dialogo tra i musicisti, il “plurilinguismo”. Coltrane concepì A Love Supreme come un percorso di elevazione spirituale. Diede a ciascuno dei quattro movimenti un titolo che doveva rappresentare una tappa di questo percorso: Acknowledgement, Resolution, Pursuance e Psalm. Tutta la suite è costruita attorno ad un semplice gruppo di cinque note che vengono esposte e poi variamente declinate, alterate, trasformate: nella partitura le indicazioni degli accordi quasi non ci sono. In Acknowledgement, il primo movimento, non è nemmeno scritto il tema: è riportata una cellula di quattro note, che può essere suonata a piacere. Poggia tutto su quella melodia. Il movimento conclusivo, Psalm, è la traslitterazione della preghiera che compare sul retro della copertina del disco, scritta dallo stesso Coltrane. Traslitterazione nel senso che praticamente ogni nota del sassofono corrisponde a una sillaba del testo: Coltrane enfatizza in diversi modi i passaggi più importanti, ad esempio salendo verso le note più alte dello strumento ogni volta che il testo recita “thank you God”.
Anche A Love Supreme, com’era accaduto per Giant Steps, fu eseguita pochissime volte, ma il motivo era diverso: Trane preferiva suonarla solo in occasioni che avessero un particolare significato, perché temeva altrimenti di banalizzare il messaggio profondo che attribuiva alla composizione.
A differenza di altri dischi del quartetto, la ricezione di A Love Supreme fu univocamente entusiastica. Non solo l’album vendette molto, ma fioccarono i premi: a Coltrane come miglior sassofonista dell’anno (1965), alla band come miglior combo, al disco come migliore opera. La pioggia di consensi fece capire a Coltrane che, se voleva evitare di trasformarsi in maniera, la sua musica doveva spingersi ancora più avanti, che la ricerca doveva proseguire. Non furono solo i consensi, ovviamente. Alla base c’era soprattutto un’urgenza espressiva rinnovata, c’era il fatto che Trane teneva le orecchie ben aperte su quel che gli succedeva attorno e aveva capito che la “nuova musica” di gente come Albert Ayler o Cecil Taylor aveva qualcosa di importante da dire. Cominciò ad allargare il gruppo ad altri musicisti, cosa che aveva già fatto in passato con il polistrumentista Eric Dolphy e con diversi contrabbassisti. Volle provare a lavorare con due batteristi contemporaneamente (Elvin Jones e Rashied Ali, che però non si sopportavano, né musicalmente né caratterialmente, finché Jones decise di andarsene). Chiese alla band di suonare senza tenere un tempo costante, liberamente, per adattarsi meglio all’atmosfera e alle sensazioni del momento. Voleva che le sue esibizioni esprimessero partecipazione, spontaneità, assenza di costrizioni. Ciò non gli impediva di continuare ad incorporare nella sua musica tutto quello che aveva appreso fino ad allora.
Fu in questo clima che presero forma le due versioni, entrambe edite, di Ascension, 37 minuti di magma sonoro per undici strumenti: due trombe, cinque sax (due contralti e tre tenori), pianoforte, due contrabbassi e batteria. Malgrado la densità di una materia ribollente e cangiante, Ascension è tutto tranne che un’accozzaglia di suoni: dietro c’è una logica ferrea, incentrata sulla successione degli assolo e sulla stessa idea – la scala di note predeterminata – che regolava anche A Love Supreme. Ma il risultato sembra l’opposto: un rito collettivo, gioioso e liberatorio, come era stato Free Jazz di Ornette Coleman, con ancora più carica emotiva.
E insieme ad Ascension furono realizzate altre registrazioni simili: nel disco Om la tensione dell’esecuzione è talmente forte che qualcuno dei musicisti, probabilmente il contrabbassista e clarinettista Donald Garrett, non si trattiene dall’urlare.
In una delle ultime sue sessioni in studio, Coltrane incise una serie di duetti con Rashied Ali. Sarebbero usciti postumi, nel 1974, con il titolo Interstellar Space. Alcuni addirittura verranno resi pubblici a più di vent’anni dalla morte del sassofonista. Questi brani sono la sintesi nuda, scarnificata, di tutto il percorso musicale ed esistenziale di Coltrane; sono quanto di più lontano ci si potrebbe aspettare da un duo; sono introspettivi, ma rifuggono l’intimismo. Aspirano anzi a una dimensione, a una visualizzazione cosmica: infatti i titoli rimandano tutti a nomi di pianeti e costellazioni. Uno dei più potenti è Venus, un tema semplicissimo (un trillo) che cresce e si espande in mulinelli di note sempre più impetuosi. Puro canto e ritmo: nient’altro. E canto e ritmo furiosi, incalzanti, impulso vitale: suprema beffa alla malattia che stava divorando il fegato di Trane. E lui, lungi dal disperarsi, suonava con ancora più forza e lucidità. Talmente beffardo da affrontare lo spazio interstellare da solo con il suo tenore, come non aveva mai fatto prima.
Per tirare le somme, una considerazione, e una piccola cosa che mi è successa.
A luglio del 2012 ero ai seminari internazionali di Siena Jazz. Il già citato Stefano Zenni teneva un corso monografico su Coltrane. In una delle ultime lezioni – credo fosse la penultima – analizzammo Ascension e ne ascoltammo alcune parti, nemmeno tutta l’esecuzione. Seduti accanto a me c’erano quattro studenti del Berklee College of Music, la famigerata scuola di Boston. Ho ragione di credere che la scena vi risulterebbe molto più vivida se potessi descrivervi l’espressione che probabilmente si componeva sui loro volti man mano che procedevamo nell’ascolto. Ma malauguratamente non sono in grado di farlo. Per capire quale fosse il loro disorientamento, a me era bastato il silenzio che calò dopo che dalle casse uscì l’ultima nota. Ci fu almeno mezzo minuto di silenzio. Finita la lezione uno dei quattro del Berklee, un ragazzo più giovane di me di un paio d’anni che suonava il sax alto con una tecnica strabiliante, mi chiese se conoscevo bene Ascension. Mi aveva visto particolarmente concentrato o assorto o non so cosa. Mi disse che nel loro programma di storia del jazz, Ascension non c’era. La direzione non lo considerava jazz. Stiamo parlando di una delle principali istituzioni musicali degli Stati uniti (sicuramente la più ambita dagli studenti), dove si studia musica nove mesi l’anno e nei restanti tre si fanno seminari all’estero. In posti del genere si decide cosa è jazz e cosa no, quale “periodo” di Coltrane meriti di essere studiato e quale debba essere tralasciato. Didatti e musicisti influenti come Wynton Marsalis pretendono ormai da anni di costruire il jazz a tavolino, sulla base di una presunta storia afroamericana che esiste solo nella loro testa: a dar retta a loro, Cecil Taylor sarebbe meno afroamericanamente degno di Charlie Parker. Per quanto minuscolo e insignificante sia il mondo del jazz, i soggetti alla Marsalis e omologhi meno noti stanno facendo danni. E stanno facendo danni perché partecipano di una categoria ben più vasta: quella di coloro che decidono la cultura ufficiale e gettano nel dimenticatoio il resto.
Il risultato nel minuscolo e insignificante mondo del jazz è che abbiamo generazioni di musicisti con una formazione accademica, che sanno suonare le frasi di Giant Steps (o di Ornithology o di Donna Lee, scegliete voi) a velocità da decollo, ma a cui non viene fatta ascoltare una nota, chessò, di Albert Ayler o di Paul Bley o di Evan Parker. Il risultato è l’omologazione, la normalizzazione, musicisti plasmati con lo stampino. Il risultato è la creazione di un codice: se suoni stando dentro al codice, se suoni Cherokee (che tra parentesi è un brano mediocre) a 300 di metronomo in tutte le tonalità, allora fai concerti, ti chiamano per le registrazioni. Se suoni fuori dal codice, arranchi con tre date l’anno, ti devi arrangiare ad autoprodurre i dischi e via imprecando. Ogni cultura ha il suo sistema di legittimazione: noi jazzisti abbiamo questo. E non è detto che altrove non sia peggio (cit).
Ah, quasi dimenticavo: il risultato è che interi periodi della storia del jazz vengono non dico rimossi, ma più o meno siamo lì. La New Thing, per esempio: musica fortemente perturbante e di rottura, in grado di creare aggregazione nella comunità nera e legata a filo doppio con le rivendicazioni sociali degli anni ’60 e ’70. Il discorso in verità richiederebbe una serie di precisazioni e distinguo, non di meno quel legame esiste ed è innegabile. Non mancò qualche militante de noantri, che voleva fare “il free”, ma faceva solo pena. Sia come musicista che come militante. Spernacchiava qualche nota e la sommergeva di proclami insulsi. Quel qualcuno durò poco, comunque. Senz’altro Coltrane si spese in prima persona, incoraggiò i musicisti d’avanguardia, li invitò a suonare nei suoi gruppi e diede concerti in posti molto lontani dal circuito mainstream, come l’Olatunji Center di New York. Lui stesso aveva intenzione di aprire un luogo dove musicisti e altri artisti potessero incontrarsi e sperimentare, ma non fece in tempo.
Dobbiamo proprio chiedercelo, il perché di questo tentativo di rimozione? Sì, le domande è sempre meglio farsele. Però qualche risposta possiamo anche immaginarla. Ut supra diximus: ad Amiri Baraka, in memoriam.