di Emanuele Manco

SavMan.jpgLa banda degli Onesti. Senza offesa, è uno dei primi riferimenti che mi sono venuti in mente alla visione di Le Belve, adattamento cinematografico di Oliver Stone del romanzo omonimo di Don Winslow. Il successivo è stato Butch Cassidy, film del 1969 di George Roy Hill, con protagonisti Paul Newman e Robert Redford. Ricordi di una infanzia traviata dai cinema di seconda e terza visione, dove scoppiettanti pellicole venivano proiettate in condizioni di fortuna.
Ma se La Banda degli Onesti, commedia con Totò e Peppino De Filippo, è antitetico come linguaggio e cultura, al secondo esempio gli stessi autori di Le Belve — film e libro — s’ispirano con fierezza.


Ben (Aaron Johnson) e Chon (Taylor Kitsch) sono due amici per la pelle, che hanno avuto una bizzarra idea imprenditoriale: coltivare la migliore marijuana della California. Ben è una bella testa, plurilaureato, pacifista e buddista, attento ai problemi sociali. Chon è un ex Navy Seal e contractor, che ha visto tante guerre e conosce le armi meglio degli uomini. Ovviamente hanno fatto una barca di soldi, che reinvestono in opere per il terzo mondo, seguite con passione da Ben. Chon si limita a controllare che tutto fili liscio. Entrambi hanno conquistato l’amore della “ragazza”, Ophelia (Blake Lively) — O, per gli amici — amata da entrambi e innamorata di entrambi.
Entriamo nella vicenda nel momento di maggiore successo dell’organizzazione: il ménage à trois fila liscio e la polizia è corrotta al livello giusto, infatti i protagonisti ricoprono di denaro e droga Dennis (John Travolta), alto dirigente della DEA che garantisce loro le opportune protezioni. E in fondo, quello che traspare, è che il loro è un commercio etico. La roba è la migliore del mondo, non solo della California, perché le tecnologie usate per produrla, a partire dai semi importati dall’Afghanistan da Chon, sono allo stato dell’arte. E poi la vendono a un prezzo equo, per esempio aiutando i malati terminali a soffrire meno. I guadagni, inoltre, vengono reinvestiti abilmente nell’economia locale e dove c’è bisogno da un commercialista disinvolto. Il particolare che la marijuana sia illegale è un dettaglio che dimentichiamo presto: il messaggio che passa — e che l’ottima narrazione rende credibile — è che non si tratti di una attività meno esecrabile della vendita di alcool o sigarette.
Ma nel mondo reale, che esiste anche tra le pagine del romanzo e nel film, dai commerci illegali si ricava una barca di soldi, che fanno gola a tanti. In questo caso è il cartello dei trafficanti della Mexican Baja, comandato dalla bella Elena (Salma Hayek), che ha nel killer spietato Lado (Benicio Del Toro) il suo braccio armato.
La proposta che viene rivolta ai due giovani è di quelle “che non si possono rifiutare”: entrare nell’affare dello spaccio come soci, mantenendo la gestione ma allargando gli affari ai mercati comandati dal cartello.
Ovviamente la cosa non sta per niente bene a Ben e Chon, che rifiutano scatenando l’ira funesta della Erinni Elena, che ordina il rapimento di O, nella convinzione che tenerla in ostaggio convinca i due a più miti consigli.
Quella che comincerà dal rapimento in poi è una guerra senza esclusione di colpi, nella quale per amore di O i due giovani useranno tutte le loro risorse di armi, conoscenze e intelligenza per liberare la loro amata.

In una storia del genere il senso comune direbbe che non ci sono buoni e cattivi. In realtà simpatizzare con Ben e Chon viene abbastanza naturale, perdonatemelo. In un mondo non proibizionista i due sarebbero degli ottimi imprenditori, che realizzano il migliore prodotto sul mercato e giustamente ne traggono un profitto.
L’uso terapeutico della marijuana da parte di alcuni clienti sarà pure un particolare introdotto dal film per rendere la vicenda più “democratica” e “hollywoodiana”, ma è anche uno dei particolari che rende chiaro cosa voglia comunicare Stone: è molto più etico il commercio di Ben e Chon di quello di alcune multinazionali alimentari, che producono cibo di pessima qualità, quando non dannoso, senza alcun rispetto per l’impatto ambientale, generando profitti solo per il sistema finanziario. Beninteso, stiamo parlando di marijuana, non di cocaina, eroina o droghe sintetiche. Anche la scelta del “prodotto” è una scelta politica. Il dibattito sulla opportunità di legalizzarla è più ampio degli scopi di questa recensione, ma è innegabile che qualche riflessione anche un’opera del genera la ponga.

A rendere credibili ed empatici i personaggi è anche l’ottima prova dei due attori, con un Taylor Kitsch che supera la mera prestazione muscolare, e con Aaron Johnson che non sembra neanche lo stesso di Kick-Ass tanto è immedesimato nel ruolo anche a livello fisico. Più che credibile la discesa all’inferno del suo personaggio, pacifista che scoprirà di non essere pacifico, ma disposto, più di quanto non lo sia lo stesso Chon, a venire a patti con la parte nera della sua anima.
Blake Lively è brava e bionda al punto giusto e risulta funzionale allo scopo: è una giovane donna che ha scelto di essere un oggetto del desiderio senza troppe remore morali. Vive nella lussureggiante Laguna Beach e può fare quello che vuole senza pensare ai giudizi esterni. Se la vuole godere finché dura.
Gigioni oltre ogni misura invece sia Travolta che Del Toro, che non riescono a sfuggire alla trappola di due ruoli — il poliziotto corrotto e il killer spietato — tanto canonici da essere a rischio di stereotipo. Destino simile anche per la Hayek, che caratterizza la sua Dark Lady con qualche momento caricaturale.
I due giovani attori da soli, insomma, non avrebbero salvato il film se Oliver Stone non gli avesse dato anche un ottimo senso del ritmo, una fotografia elegante e una meticolosa e curata sceneggiatura, che danno allo spettatore la soddisfazione di vedere un buon film, estremo e che mette sul piatto interrogativi non banali, attivati dal provocatorio doppio finale.

Le Belve (Savages), di Oliver Stone, USA 2012