di Nico Maccentelli

LaserGame.jpg[Nico Maccentelli, filmaker e documentarista residente a Bologna, è stato uno dei fondatori di Carmilla edizione cartacea. Ha ora pubblicato on line un romanzo acquistabile qui. Pubblichiamo i primi due capitoli, seguiti da una biografia dell’autore e da un’intervista.]

1

Una luce s’accende squarciando l’oscurità. E sul telo bianco appare qualcosa. Qualcosa che sembra una macchia dai contorni indefiniti. L’immagine si fa più nitida, iniziano a intravedersi tante forme dritte e alte, una accanto all’altra, sovrapposte in modo irregolare. Messa a fuoco. Sono figure grigie che iniziano a tingersi di rosso mattone, giallo ocra, bianco marmo. Messa a fuoco. I contorni ora diventano più netti, si definiscono sempre di più nelle geometrie e nella profondità. Messa a fuoco.

Sono palazzi che si materializzano sotto un cielo plumbeo, e sopra una terra solcata da tappeti d’asfalto. Dietro intravediamo delle colline, che come tette prensili abbracciano una Bologna sonnacchiosa, immersa nella digestione del dopo pranzo. Stop. Ci spostiamo leggermente a sinistra. Andiamo a stringere.
Ci avviciniamo a un grande edificio. È nel centro della città. Non importa sapere di preciso dove. È una casa uguale a tante altre della zona residenziale, della Bologna bene, la Bologna che nasconde gelosamente i suoi giardini privati e le sue magagne, la Bologna che vomita dai passi carrai gente per bene su macchine tirate a lucido, la Bologna che vive su strati di carta, dal tribunale alle torri di Kenzo Tange, che fa dormire alcuni sotto strati di carta, nelle nicchie esterne delle chiese e nei vicoli del centro più nascosti. La Bologna che fa ronzare i suoi computer spostando soldi, pony express, cambiali, pensionati, furgoni del latte e puttane. Che muove tutto e tutti in un balletto idiota.
Di questo edificio, è una finestra in particolare che ci interessa. Affacciamoci nel salotto che abbiamo davanti per osservare e ascoltare.

— Laser che?
— Laser game — ribadì Silvia.
Il padre si versò del buon Sangiovese e portò il bicchiere alla bocca.

Fermoimmagine: Nando Mengoli, anni 48, impiegato in una delle tante casse di risparmio che avevano sostituito nel centro città centinaia di negozi al dettaglio. Abbronzatura artificiale ed eterno sigarino color cacchetta, ma a tavola no. Sguardo viperino, amante del windsurf, frequentatore di bar pretenziosi in centro e giocatore accanito di bridge. Qualche giocatina a pocker la fa, ma moderatamente.
Ah, particolare non da poco: cacciatore provetto. Racconta a tutti delle sue battute in Ungheria. Se i suoi interessi venatori riguardino esclusivamente selvaggina di bosco, o se vada a cacciare qualcos’altro più simile a un “bipede con fessura”, come è solito dire agli amici, non si sa.
Automobile: BMW serie 5 berlina, rosso metallizzato.

L’uomo tracannò in due sorsate il rosso dal retrogusto leggermente dolce e tornò a guardare la figlia: — Ma cos’è, uno di quei videogiochi che rendono i giovani un ammasso di decerebrati?
Silvia stirò un sorrisino di supponente sfottò. — No papi. È un gioco d’azione, con squadre che s’affrontano a colpi di fucile laser in un’arena.
— Insomma un altro gioco demenziale — concluse il padre.
— Per te è demenziale tutto quello che c’è fuori da queste quattro mura! — replicò la ragazza.
La madre appoggiò sul tavolo la tacchinella impanata e intervenne: — Possibile che voi due abbiate sempre da ridire su tutto?

Fermoimmagine: Veronica, bionda ossigenata quarantenne e passa, più passa che quarantenne, ma lampadaquarzata anche lei come il marito, cacciatrice di chincaglierie nei negozi d’antiquariato, non rinuncerebbe mai alle rituali due-settimane-due a Cortina. Hobby: shopping, training intensivi di new age e fitness alla palestra Bodylui & Bodylei. Seconda auto di famiglia: Mini Cooper bianco.

Si avvicinò al marito. — Ti pare che Silvia faccia qualcosa di male a giocare al lagherseim?
— Laser game — la corresse Silvia.
— Quello che è. Ti sembra male? Tu non andavi forse a fare il tiro a segno in campagna con tuo zio quando ti ho conosciuto?
— Altri tempi! — esclamò il padre con un sospiro rievocativo.
La ragazza proruppe in un risolino di naso, cantilenante. — Sì, bravi! andavate a tirare a qualsiasi animale che aveva la sfortuna di incrociarvi!
— Eravamo cacciatori! — sentenziò Nando.
— La differenza, però è che noi non facciamo del male a nessuno.
— Però stai attenta lo stesso — la avvertì la madre.
— È come giocare a tennis. Se veniste anche voi, scoprireste quanto è divertente!
— Sarà, comunque ha ragione tua madre. Stai attenta.
Silvia aveva già preso la porta e correva giù per le scale.
— E non fare tardi! — gridò il padre. Più per rassicurare se stesso. Lui le cose a sua figlia le diceva, aveva quindi la coscienza a posto. Poi stava a lei.
La ragazza uscì dal portone e si avviò per la via.

Fermoimmagine: Silvia, capelli neri a caschetto, ultimo anno di scientifico, già cinque flirt in due mesi e una media di tre rimbalzi dati a settimana. Un ciuffo rosso chiaro, quasi arancione, le scende sbarazzino sulla fronte. Viso impertinente di una bellezza sfacciata, due occhi blu sempre curiosi, seno già ben fatto e oggetto di sguardi arrapati a scuola, o al Chaco, luogo di ritrovo dei patiti del post-grunge e dell’hard-core. Bassettina ma non nana: 1,68 m di carne rosa, fisico longilineo, ma non anoressico, fondoschiena considerato universalmente da favola.

Ah, dimenticavo: fissiamo un attimo il suo viso, ecco, così. Tocco finale: su un lato del nasino un po’ all’in su le spicca un brillantino, frutto tre mesi addietro di polemiche feroci. — Una zulù, ecco cos’é! — aveva urlato il padre arrabbiato alla moglie, che doveva fare da “pacinbol” tra due personalità testarde e permalose. Le grosse litigate tra Nando e Silvia avvenivano per interposta persona.
“Echecazzo, ho già diciotto anni. Figurarsi se non posso fare quel cazzo che voglio. Cazzo!” era il ritornello mentale di Silvia.
La ragazza attraversò la strada. Stefano alzò gli occhi per l’ennesima volta. Stava arrivando, la stronza.

Fermoimmagine anche per lui: appena uscito dall’era dei brufoli, naso aquilino, occhi verde incazzato (adesso), alto e longilineo con Velocifero in dotazione, a emulare Quadrophenia con l’eschimo stile mod davanti al Chaco.

Tirò l’ultima boccata di una sigaretta più mangiata che fumata e uscì dal bar.
Si parò d’innanzi alla ragazza e tirò fuori dalla manica un lungo tubo di cioccolatini. — Et voilà! — sorrise.
— Ancora! — strillò Silvia.
— Ancora, sì — rispose con astio il ragazzo, — finché non avremo chiarito la nostra situazione.
— Non c’è più nulla da chiarire, Stefano.
Il ragazzo la bloccò strattonandole un braccio. — Non c’è più nulla da chiarire?! Ma per chi m’hai preso, per uno straccio vecchio da buttare?!
Silvia sgranò gli occhi e, per un istante, sul suo viso si dipinse un’espressione di strana paura. Stefano s’accorse d’avere esagerato. Non era da lui avere questi scatti. Ma erano già sei notti che non dormiva. Cambiò il tono e la sua voce uscì addolcita, per tranquillizzarla, ma senza potere né volere nascondere tutto il risentimento che covava. — È da una settimana che non ci capisco nulla. Ti telefono e tu fai dire a tua madre che non ci sei, quando ti becco, butti giù il telefono. Dillo apertamente: ce l’hai con me, non so perché ma ce l’hai con me.
Silvia lo squadro con aria insofferente. — Non ce l’ho con te.
— Allora c’è un altro.
— Sei perspicace!
Stefano restò un attimo in silenzio, con gli occhi bassi, come se in quel momento fosse estremamente faticoso restare lì, come se incassare la novità sospettata mille volte, di giorno, di notte, a scuola, alle prove del gruppo, fosse un’impresa immane.
Ora si sentiva un cane bastonato. — Però potevi dirmelo. Non pensi che avrei meritato qualche spiegazione?
— E cosa c’è da spiegare? — rispose Silvia con una punta di sarcasmo. — Quando le cose non vanno più c’è poco da spiegare. Ti ho detto che non ti volevo vedere per un po’, e questo avrebbe dovuto bastarti!
“No puttana, non può bastarmi!” pensò per un istante il ragazzo. Ma doveva andare fino in fondo. Doveva scoprire il nome del bastardo. Se lei aveva fatto le cose in camuffa, il ragazzo che ora era nelle grazie della stronza doveva essere più vicino di quanto potesse immaginare. Non si molla una persona così, senza dirgli neppure crepa, se la mossa non è veramente sporca e infame.
— Almeno dimmi chi è.
— Ha molta importanza?
— Per me sì.
— E va bene, tanto lo saresti venuto a sapere comunque.
Stefano le guardò la bocca, aspettando che si muovesse per cagare fuori la sciolta puzzolente.
— È Luca.
“Lo sapevo” si disse il ragazzo. Luca, un suo compagno di classe. Non il migliore amico, ma quasi. E chissà con chi si è confidato l’infame. Forse con Sergio… “Oltre che fottermi la donna, mi ha sicuramente sputtanato per tutta la compagnia”.
Stefano aveva bene in mente le troiate che Luca squadernava al branco nei cessi della scuola, sulle sue ultime avventure, vere o presunte. Certamente più vere delle sue, perché Silvia era stata la prima cosa bella dopo una sequenza di cretine insipide.
Ora gli tornò in mente un episodio di due giorni prima, a cui lì per lì non aveva dato peso, anche se, chissà perché, lo aveva fatto trasalire. Li aveva beccati tutti in bagno, mentre Luca stava parlando. Le risate si sentivano sin da in fondo al corridoio. Ma entrato lui, di colpo, il gruppo di fumati era piombato in un silenzio gravido di facezie interrotte. Stefano si era sentito gli occhi puntati addosso. Aveva anche notato dei colpi di gomito di qualcuno tirati a qualcun altro, nella massa stupida di cazzari. Il capannello di sempre, ora, era un muro di estranei. Fu una sensazione che durò solo qualche istante, perché poi Luca riprese a dire stronzate, ma di un discorso iniziato in quel momento.
Stefano capì. La testa gli ronzava come se avesse dentro gli alveari di sei aziende agricole.
— Cos’hai da stare lì impalato? — chiese Silvia. — Non avrai mica intenzione di fare dei casini, vero?
Stefano scosse la testa. Lei lo fissò ancora per un momento, poi scrollò il braccio dalla sua presa ormai inerte. Lui non parlava, non la guardava.
Silvia fu presa da una strana compassione, di quelle che si hanno per le bestie inoffensive. Il Frankenstein dal fascio di muscoli temprato in inverni di palestra e nuoto, doveva tornare nel lettino chirurgico. E lei doveva farcelo tornare col tatto ruffiano, ne conveniva, ma inevitabile che la circostanza imponeva. Tutto si sarebbe rimesso a posto.
Gli prese il mento con delicatezza. Solo allora Stefano alzò il capo. Sembrava come inebetito. Lei gli accarezzò una guancia.
— Stefano, te l’avrei detto. Solo che non avevo il coraggio di farlo perché…
— Perché? — chiese lui senza convinzione. Silvia rimase un attimo assorta, come se fosse in procinto di svelare una grande verità. In realtà stava pensando rapidamente a cosa dire. — Perché non volevo farti star male. Perché cioè, io ti voglio bene e ci tengo a te.
Lo fissò con lo scopo di attendere una risposta, una qualsiasi reazione da parte sua. Ma il corpo di Stefano era incassato, come se avesse ricevuto un pugno formidabile, che lo avrebbe fatto vivere così, ingobbito, per tutta la vita.
Le vicende della vita cambiano postura. Ma in questo caso il processo sembrava essere stato piuttosto rapido. Uno a zero per Luca, chiuso l’incontro.
— Dai, vieni adesso. Andiamo al barazzo. Saranno già tutti là ad spettare l’apertura del Laser game.
Stefano fece un mezzo giro su se stesso, voltò le spalle alla ragazza e s’incamminò verso il semaforo.
— Non fare così, Stefano. Stefano!
Ma lui stava già attraversando l’incrocio. Il semaforo dava “alt” ai pedoni. Un auto sfrecciò davanti a lui, a pochi centimetri. Silvia sobbalzò sgranando i suoi bei occhioni blu. Il ragazzo proseguì la sua marcia come in catalessi. Sembrava un golem incurante del mondo circostante, un robot programmato per un unico compito, forse l’ultimo.
— Stefano! — urlò ancora lei. — Non mi combinare casini, hai capito?!!

2

La serranda era anonima. Se non fosse stato per la piccola scritta gialla “Laser game” poco sopra l’infisso, quel posto si sarebbe detto un magazzino all’ingrosso.
Davanti alla porta c’era già un folto gruppo di ragazzi, tutti sui diciassette-vent’anni, non di più. Bomber con lo scudetto tricolore, gommine gel sull’unico ciuffo di teste rasate, Nike cucite da bambini vietnamiti, Levi’s simil stracciati, brufoli giallognoli, trucchi viola esasperati, zainetti elettrici e pitturati con refill indelebili punta grossa, croci celtiche un po’ ovunque, di fianco a spille di Che Guevara, vespine postmoderne, sigarette in bocca alla James Dean da pomeriggio libero, grida gutturali da babbuini prossimi alla maturità tecnica. E Silvia, che dopo due ore di bar, tra camparini e birrini vari, si era già rilassata.
Stefano la vide già da un centinaio di metri. Ormai per lui era inconfondibile, l’avrebbe riconosciuta ovunque. Ma spesso credeva anche di vederla in volti di ragazze, per strada, nelle sale giochi, al cinema. Un’ossessione già prima di questo triste epilogo della loro storia.
Parlava con Luca, un ragazzone con i capelli biondo topo brizzolati, il collo taurino e il naso appena aquilino. Ora anche loro due l’avevano visto. Stefano sentì una fitta nel petto, che gli saliva fino alla gola, diventando un groppo nodoso dal sapore acido della gastrite.
Silvia lo guardò con apprensione. Luca con un’aria di sfida. Che fosse uno sbruffone, Stefano l’aveva sempre saputo. Ma ora la sua spavalderia da spaccamontagne la stava rivolgendo verso di lui. Era un duello di occhiate che nascondeva cose non dette, che non si potevano dire. Si potevano solo tirare cazzotti.
Stefano passò di fianco a loro senza salutarli. Ora era ufficiale per tutti. Lui sapeva, loro sapevano, Luca aveva via libera. E la supercarrozzata cambiava proprietario.
Sergio lo salutò subito, affettuosamente, con uno sguardo carico di complice comprensione. Gli amici si vedono nel momento del bisogno, pensò Stefano. Frase fatta, ma molto calzante.
Ciro, uno dei due napoletani soci del Laser game, alzò la saracinesca e aprì la porta del locale. Era un piccoletto vispo, e aveva il compito di condurre i ragazzi nel campo di gioco. Salvatore invece, un ciccione dall’occhio spento e dalle mani unte, stava alla cassa.
La torma di bomberati sciamò dentro il locale.
— Calma, calma! — strillò il ciccia che non era ancora arrivato a sedersi alla cassa e già una selva di mani protendeva tessere e carte da dieci. Ciro intanto si avviò verso l’area di vestizione, per vedere se tutto era a posto. Attivò gli interruttori e una musica tintinnante, un po’ psichedelica e sinistra, annunciò che il grande baraccone era in funzione.
Si formarono due squadre da otto partecipanti ognuna. Stefano e Luca cercarono di mettersi nella squadra opposta a quella dell’altro e, a momenti, finivano nella stessa. Silvia seguì Luca. Stefano fissò il rivale con sguardo carico d’odio. Sulla faccia di Luca si dipinse un ghigno appena accennato, ma piuttosto eloquente. Che merda, sussurrò Sergio all’amico.
— Vuole il gioco duro — commentò Stefano. E scosse lentamente la testa. — Ebbene, l’avrà!
— Avete già tutti giocato a Laser game? — chiese Ciro ai ragazzi. Un coro sgangherato da stadio rispose di sì. — Bene. Così non ho bisogno di spiegarvi nulla. Seguitemi.
I due gruppi entrarono nell’area vestizione. Allineati lungo i due muri c’erano i giubbotti rispettivamente rosso e verde elettrico. Da ognuno partiva un filo a cui era collegata un’arma: una specie di mitraglietta affusolata come i fucili da marziani dei bambini. Ogni combattente poteva essere colpito dai raggi laser degli avversari in uno spazio rettangolare davanti e dietro il giubbotto e nelle fiancate della mitraglietta. In questo caso perdeva una delle quattro vite e per sei secondi non poteva più sparare. Uno scudo protettivo lo rendeva immune dai colpi nemici, tranne per gli ultimi due secondi di inattività, in cui poteva essere colpito.
Quando il combattente perdeva le quattro vite o finiva i colpi, andava nell’area di caricamento e ricominciava tutto da capo. All’uscita ogni squadra e ogni singolo giocatore avrebbe avuto un punteggio.
I ragazzi si misero i giubbotti e si sistemarono in fila indiana davanti all’ingresso del campo, un rosso e un verde alternativamente.
Appena Ciro diede il segnale d’entrata, i giocatori si scagliarono dentro il labirinto urlando, dirigendosi verso le zone di caricamento delle rispettive squadre, poste ai due angoli vicini all’ingresso. Appoggiavano l’arma in corrispondenza d’un buco e dopo alcuni istanti, alcuni led che scorrevano lungo le fiancate della mitraglietta, annunciavano l’avvenuto caricamento.
Dalla parte opposta c’erano le basi da difendere: un buco rettangolare sulla sommità di una pedana: l’unico percorso in salita di tutto il labirinto. In alcuni muri c’erano delle piccole feritoie in plexiglas, da dove si poteva sparare.
I primi giocatori attivi si diressero verso la propria base, gli altri, man mano che arrivavano dalla zona di caricamento, si distribuivano nei corridoi, lanciandosi ordini e segnali d’intesa per iniziare le incursioni nel campo avversario. Nelle operazioni iniziali delle due squadre si capiva che c’era già un certo mestiere.
Il labirinto era un budello oscuro, un reticolo di corridoi in penombra, i cui contorni erano letti appena da qualche tenue faro giallo elettrico disseminato sul soffitto e lungo i camminatoi.
L’oscurità fu rotta dai primi raggi laser che attraversavano lo spazio con sibili secchi. Silvia era una guardabase dei rossi e si dava da fare da una feritoia posta di fianco alla rampa. Restava in ginocchio per qualche secondo poi si alzava e tirava dal plexiglas. In questo modo aveva già sorpreso un avversario che stava avanzando sulla sinistra. Ma avrebbe dovuto presto cambiare posizione, perché, capito il giochino dell’appostamento, potevano fare la stessa cosa con lei.
— Coprimi! coprimi!! — urlò qualcuno a pochi metri. I verdi avevano già tentato un assalto alla base. Ma altri due guardabase l’avevano respinto. Con Sergio e Sandrone, la squadra verde era certamente più forte. Silvia pensò all’eventualità di imbattersi in Stefano e sentì un brivido lungo la schiena.
Ma era stata una stupida a pensare alla possibilità di casini. Non era nello stile di quel coglione. E questo almeno le era di sollievo. In realtà la ragione del suo disagio era un’altra, ma non voleva ammetterla. Che disse Muzio Scevola? Alea iacta est. O era Giulio Cesare?
— Entrano, entrano!! — urlò un guardabase.
Un raggio la raggiunse sul petto e una voce da un altoparlante del giubbotto iniziò a gracchiare: — Colpito, colpito. Attivato scudo protettivo.
— Non ho più colpi! qualcuno torni!!
Di fianco a lei sfrecciò Sandrone. I raggi verdi e rossi s’incrociarono come in una fantasmagorica guerra spaziale. Silvia si chinò il più possibile per non farsi colpire nei due secondi di vulnerabilità inattiva. Ma l’azione si svolse molto rapidamente. Sandrone aveva travolto anche i due guardabase più arretrati, era volato sulla rampa e aveva centrato il rettangolo rosso.
Poi, colpito a sua volta dagli altri verdi sopraggiunti in ritardo, era corso via con un: — E vaai!!!
Come una quaglia, mi hanno impallinato come una quaglia, commentò tra sé la ragazza. Ora era già pronta per ricominciare.
Gerri, uno dei guardabase, controllò l’arma che gli era caduta e guardò la compagna di gioco con una malcelata aria di rimprovero. — Silvia, se te la senti di difendere, bene. Se no vai di copertura agli incursori.
Un modo elegante per dirle: sciacquati dalle palle. Maschi del cazzo. Ma ora gli faccio vedere io. — Va bene, vado in avanscoperta — disse.
Percorse con cautela il primo corridoio. Oltre, baluginavano già i raggi verdi. Intravide per un istante un’ombra alla sua sinistra. Sembrava quella di Stefano. Sta a vedere che mi frigge proprio lui, pensò. Alla fine del camminatoio, si affacciò per un attimo oltre il muro. Cazzo, era dietro un verde. Senza pensarci due volte schizzò fuori e fece fuoco. Anche il verde si girò e sparò. Per alcuni secondi le armi si scambiarono rapidi insulti luminosi a trenta centimetri l’una dall’altra. Ora vedeva bene in faccia l’avversario: era Roberto. La mitraglietta del ragazzo smise di sputare raggiate laser. — Merda! — esclamò.
— Ciao, Robby! — gridò Silvia trionfante. Ma subito sentì: — Colpito, colpito… elasolitamanfrinagracchiante… Si girò di scatto. Ma la figura che le aveva sparato era già sparita. Dopo due secondi una voce squillante, a pochi metri da lì, lacerò gli schiamazzi che invadevano i corridoi: — Coprimi, cazzo!! — Lo riconobbe: coglionata ancora una volta da Sandrone.
La ragazza scappò verso la zona caricamento, perché ormai non aveva quasi più colpi, ma anche per evitare di essere colpita in una zona che doveva pullulare di verdi.
— E vaaai!!! — udì lontano l’urlo neanderthaliano di Sandrone, mentre inseriva il fianco della mitraglietta nel buco di rialimentazione. Dovevano aver preso ancora la base.
Ora era già operativa. A questo punto voleva giocare a modo suo. Avrebbe costeggiato il lato delle zone di caricamento, portandosi verso la base avversaria lateralmente. Da lì avrebbe potuto creare un diversivo, o chissà…
Il grosso dei combattimenti si giocava verso l’altra parte del campo. I raggi verdi e rossi squarciavano l’oscurità, ma erano riverberi remoti. Le sembrava una guerra che non la riguardasse. Lei ora era un’ombra evanescente, rapida come un’assassina, che sorprendeva i giochi di squadra con l’azione isolata.
Doveva essere già vicina alla base avversaria. A questo punto era più probabile incrociare avversari che compagni. Anche perché quei coglioni erano quasi tutti in difesa, a respingere gli assalti d’un Sandrone scatenato.
Si sporse con cautela da un muro, ma senza osare troppo. Riuscì solo a vedere un ginocchio di fianco a una parete. Dalla posizione in cui è, pensò, il figlio di puttana è appostato per prendere d’infilata i rossi che tentano l’aggiramento. Ma adesso lo sistemo io.
Balzò fuori con l’arma puntata: — Crepa figlio di puttanaaa!!
Un raggio rosso partì dalla sua mitraglietta, ma sul suo viso si dipinse uno stupore verde, giallo, rosso, le luci del grande gioco di guerra che attraversavano il suo improvviso pallore.
Di fronte a lei giaceva Luca, con la schiena appoggiata alla parete, un ginocchio alzato, gli occhi sgranati in uno sguardo attonito, la mascella sporgente e un foro rosso in fronte da cui sgorgava un filo di sangue.
L’urlo disumano di Silvia fu coperto da un ennesimo “E vaaai!!!” di Sandrone.

L’autore

Nico Maccentelli, copywriter e regista di video, vive e lavora a Bologna. È stato redattore di Carmilla, rivista dell’immaginario diretta da Valerio Evangelisti, vera e propria voce della “nuova onda” della letteratura di genere.
Pubblicazioni:
I martiri di Zoyss – romanzo di sf e altri racconti su Carmilla.
Barbyturici – racconto noir sull’antologia di racconti di fantascienza Fantastorie dal Terzo Pianeta, ed. Le Scintille – Avvenimenti, a cura di Valerio Evangelisti.
Gli uomini preferiscono le onde – racconto di sf sull’antologia di racconti di fantascienza ed erotismo Sesso Alieno, ed. ES, curata da Alessandro Riva.
Coscienza sporca – racconto di sf per il catalogo della mostra Essi vivono, omaggio ai b-movies, a cura di Alessandro Riva.
Coscienza sporca – racconto di sf per l’antologia Il futuro nel sangue (Speciale Carmilla), a cura di Vittorio Catani.
Fodbal, cronache della IV Brigata – romanzo sulla nascita e la storia del Bologna F.C., Edizioni Grasso, scritto con il regista di teatro Massimo Manini, da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo messo in scena nel 2002 a Bologna, all’Arena del Sole.
In Francia ha pubblicato Barbyturici sull’antologia di racconti noir di autori italiani Portes d’Italie, curata da Serge Quadruppani, ed. Fleuve Noir.

Intervista a Nico Maccentelli su Laser game.

Un romanzo noir con il solito ispettore di polizia. Oltretutto ambientato a Bologna, che tra romanzi e serie televisive è già piena zeppa di poliziotti. Talmente piena che per il caos gli uni potrebbero arrestare i colpevoli degli altri…

Calma. Bologna è sì piena di poliziotti. Ma quelli che mi preoccupano di più sono quelli veri (ride). Certo, l’ho pensato anch’io. È un canovaccio trito quello dell’ispettore di polizia, del commissario in soprabito e pipa e nelle sue varianti più o meno anticonformiste.
Yuri Cattabriga, in realtà, è uno sbirro sui generis. Non posso entrare nel merito della storia. Mi limito a dire che è un poliziotto che non sta al suo posto a partire da uno stile di vita piuttosto trasgressivo. Solitamente tutta la trasgressione che si può rilevare in un poliziotto da romanzo è una sorta di complicità confidenziale con i personaggi border line. Ma che non va mai oltre l’arco scenico del dramma altrui, del vizio da codice penale. È un ruolo ferreo, perché il poliziotto per assunto intangibile, per essere credibile, deve essere sempre dalla parte della Legge con la elle maiuscola. Yuri non è così: ha una visione tutta sua del lecito e dell’illecito. Indubbiamente fa parte della categoria degli anti-eroi, ma un “anti” positivo, non certo alla “cattivo tenente” di Abel Ferrara. E Yuri, l’arco scenico che separa la polizia con la P maiuscola dai fatti normali della vita, da azioni border line, lo passa, eccome. Perché ama e gode, semplicemente. Perché non sopporta l’austerità. Andare oltre i formalismi è un fatto desueto. Andare oltre un ruolo imposto da un genere, ritengo sia più interessante. E che possa aprire nuove visuali, diverse. Il genere è solo un pretesto. Per questo, il romanzo gode di vita propria, non deve giustificare puntigliosamente una trama da noir, che pure c’è.

E allora veniamo al romanzo. L’opera è un noir, ci sarà un caso da risolvere e delle piste da seguire…

Non è proprio così. Il caso c’è e viene risolto con l’intuito da chi non si accontenta di seguire piste di comodo. E i colpi di scena non mancano. È il piano dell’attendibilità della macchinazione criminale e della soluzione che può disorientare un attimo. Anche se in realtà, oggi, con la tecnologia si può andare oltre le pipe e le pistole fumanti. Inoltre, ho puntato molto alla gag e a un ritmo serrato, come del resto lo scenario primario favorisce: un’arena labirintica dove due squadre combattono tra loro con fucili laser. Stilisticamente, questo noir ha quasi il taglio di un fumetto. Sul piano linguistico, l’io narrante è una specie di zelig, perché si cala quasi completamente (metto il quasi, grazie all’ultimo editing) nei personaggi. Un mondo giovanile metastorico, comunque post-generazioni “pese”. E il paradosso è che il contrasto tra generazioni che si ponevano un perché delle cose e generazioni in apparenza senza ideali, sopprattutto della borghesia bene, viene portato avanti da un poliziotto. Non un figlio del PCI come Montalbano, che avrebbe dei limiti d’azione e di ruolo notevoli, ma un personaggio che potrebbe essere benissimo un “post-pantera, anni ’90” … come Cattabriga.

E quanto di autobiografico c’è?

Io non sono mai stato un poliziotto.

Dai, che hai capito benissimo la domanda…

Ho parlato di post-pantera. La linea che io considero — soggettivamente — di frontiera con una grande deriva di fine millennio. Da lì, dalla linea del crepuscolo, probabilmente mi sono messo a descrivere e raccontare le nuove generazioni. Io però sono più figlio degli anni ’70. Gli anni ’90 li ho vissuti quasi come uno spettatore, anche se ho fatto la mia parte (poco, ma l’ho fatta). Diciamo così: non era “il mio tempo”. Però si percepisce che il romanzo ha avuto una genesi lontana: infatti, l’idea nasce alla fine degli anni ’90, dopo una partita a laser game (un gioco allora nuovo) che ho fatto per proporre ai gestori un video. La gestazione quindi è stata molto lunga, prima di avviare il lavoro di stesura. Com’è ovvio l’opera si porta dentro tutto il mio bagaglio culturale e indirettamente parte del mio vissuto. Ma c’è ben poco di autobiografico. Forse alcuni accenni adolescenziali. In particolare, nel disagio e nelle emozioni vissute con le prime scoperte sessuali. Ma più come leit motiv che come fatti in sé. I fatti sono tutti di fantasia…

E come dici nella tua citazione iniziale, nel romanzo di “fatti” ce ne sono tanti…

Non ho certo voluto esaltare l’uso di droghe. Anche se dal romanzo emerge certamente la mia opinione sulla marijuana, insomma, su quelle che vengono definite droghe leggere. Ho voluto calarmi (verbo attinente…) in una realtà giovanile e mi sono accorto che, al di là delle mode e delle tendenze, dagli anni ’90 in poi, in gran parte dei gruppi adolescenziali è come se aleggiasse una sorta di nichilismo autoreferenziale.
Cattabriga, in un certo senso, fa da contraltare. Non in chiave sbirresca, anche se lo sbirro lo fa, eccome. In fondo, può benissimo essere la voce delle generazioni precedenti. E forse è qui che si rivela maggiormente l’identificazione dell’autore con il personaggio primario.

In molti punti del lavoro, utilizzi delle tecniche descrittive che appartengono al linguaggio cinematografico. È una deformazione professionale? (ndr: l’autore è regista di video).

Be’, la conoscenza del linguaggio cinematografico, dei soggetti, delle sinossi o delle sceneggiature, certamente mi spinge a farne uso con una certa facilità. Ma in questo caso non l’ho fatto per vezzo. Gli elementi descrittivi che ho utilizzato e che sono presi dal cinema mi sono serviti per due operazioni. La prima di incipit, per descrivere i personaggi senza perdere il ritmo: un bel blocco descrittivo, sintetico, è un patto che il lettore secondo me può accettare di buon grado. La seconda pertiene la forza poetica che il linguaggio cinematografico possiede in sé. Pertanto, l’uso che ne ho fatto è in due punti molto importanti dell’opera. Ma non aggiungo altro perché dovete farvi un’idea leggendo l’opera nella sua organicità.