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qui il sito di Monica Viola

«Eravamo troppi. Otto figli, madre, padre, suocera, più vari animali domestici». Si presenta così la voce narrante di Monica Viola, protagonista di frecciabr.gifTana per la bambina con i capelli a ombrellone: una voce che inanellerà storie, brevi schegge narrative legate dal filo di un’autobiografia in costruzione. Perché Monica l’identità non l’ha: subisce quella assegnatale. Monica è la bambina fratta, violata nella sua infanzia all’interno della propria famiglia: non la sola, ma di questo e di altro non bisogna parlare, perché «il verbo fatto carne aveva tolto i peccati dal mondo, non bisognava rimetterceli».

Monica resterà per tutta la narrazione la bambina violata, anche quando, crescendo, attraverserà la Roma del Piper e quella sfiorata dal conflitto politico, passerà dalle elementari al liceo con la sua aria da cane bastonato, chiederà affetto o consolazione, cercherà conferme a un io che non ha ancora trovato usando il sesso come strumento per piacere o per affermarsi, per sfidare le amiche o per illudersi. Una bambina violata resta tale in ogni momento della narrazione: in questa contraddizione fra la vita reale e la vita ricordata sta una prima chiave di lettura di questa narrazione. Viola, con fare da cronista, descrive scene, cerca spesso — riuscendoci — di concluderle con una frase che dia il senso di un’ultima parola: «il mio amore piccolo non valeva niente, dicevano, era una bava di lumaca da ridere e cancellare». La cronaca manca della spiegazione razionale, del “perché”: al suo posto vengono forniti gli elementi per l’interpretazione, attraverso la trasmissione del ricordo dalla narratrice al lettore, che può riconnettere i tasselli di un’esperienza trasmessa. Qui entra in gioco la seconda chiave di lettura: la possibilità di una trasmissione dell’esperienza, la comunicazione non di un fatto, ma di un ricordo-immagine. Narrare significa, ricordava Benjamin nel fondamentale saggio Il narratore, far passare di bocca in bocca la possibilità di un’esperienza: non consegnare al lettore la mera esperienza vissuta, ma trasmetterne la potenza vitale che dimora nel vissuto. Nel caso di Monica, la passività, l’impossibilità di riconoscersi in un ruolo o in un sesso attraverso l’esperienza del sesso: il mostro che, come quelli delle macabre fiabe raccontatele da un fratello, si è annidato per anni a partire dalle violenze familiari, dalle stanze senza chiusura. Trasmettere la possibilità di un’esperienza è cosa difficile: la sua crisi, il declino della narrazione, ammoniva ancora Benjamin, non è problema dell’oggi o del contingente, ma risale almeno alla nascita del romanzo, al ritrarsi del romanziere in disparte, a quell’io individualizzato che racconta un fatto. Ma la critica italiana (certa critica, quantomeno) di quel saggio sembra conoscere la sola prima pagina, anticipata nel frammento Esperienza e povertà, e non distingue tra l’esperienza vissuta (l’Erlebniss) dall’esperienza possibile, o meglio dalla potenza vitale (l’Erfahrung), che è il vero oggetto della riflessione benjaminiana. Da cui la sterile disputa su quel che Benjamin ha davvero detto parlando della fine dell’esperienza: disputa che, vertendo su un giudizio mai espresso e un concetto mai usato dal critico berlinese, potrebbe continuare all’infinito.
Interrogarsi sul declino della narrazione è però anche indagare la possibilità della sopravvivenza della trasmissione di un’esperienza all’interno del racconto romanzesco: chiedersi com’è possibile un romanzo-narrazione, come sono ancora possibili dei narratori. Com’è possibile una voce narrante come quella di Monica Viola? In primo luogo, l’affondare del ricordo-immagine narrato nell’era remota degli archetipi, «dei fenomeni originari». La brutale rappresentazione del maschile, e la rappresentazione, da esso derivata, del femminile trascendono l’esperienza autobiografica di Viola: non ha senso chiedersi se Monica è davvero esistita, se è una figura fittizia o reale. Con Viola siamo in presenza di una scrittura sessuata, cioè declinata al femminile perché Femminile, nel senso archetipico, è il suo oggetto.feritadiguerra.jpg Lo stesso bisogna riconoscere dello stupro narrato da Giulia Fazzi in frecciabr.gifFerita di guerra [qui il download gratuito, qui Giulia Fazzi a Fahrenheit], o dell’ustione sul corpo e l’anima femminile in frecciabr.gifTu non c’entri di Letizia Muratori: per sottolineare la presenza di una scrittura femminile forte soprattutto nei temi. Una scrittura e un divenire-donna che al momento sembrano sfuggire alla critica patinata abituata a fermarsi alle pile dei best-seller all’ingresso delle librerie, per la quale la dimensione femminile si riassume nei lucchetti inventati dall’accorto collaboratore di Bonolis. E certo non aiuta chi, stracciandosi le vesti sull’asserita omologazione delle scritture, di fatto porta acqua al mulino dei moccismi e dei muccinismi (che vengono poi usati per suffragare le proprie pretese).
In seconda battuta l’ampiezza di vibrazione che questa scrittura acquista nel presentarsi come collezione di immagini lasciando al lettore l’interpretazione: la traduzione letterale del tedesco Erzähler (narratore) è “contastorie”, ed è in questo senso che Viola è narratrice. Dietro un’immagine — uno sguardo, un motivo musicale, un video, un ricordo — affiora sempre qualcosa di indimenticato che riemerge dal passato e si installa nella descrizione del presente. Ma con questo — è il terzo elemento narrativo all’interno del romanzo — Viola non mira a darci il “senso della vita”, ma “la morale della storia”. Che potrebbe essere così riassunta: non “come Monica divenne ciò che è”, ma come Monica si liberò infine di ciò che le impediva di diventare ciò che sarebbe potuta essere, di ciò che la teneva ancorata all’essere una bambina fratta. La comunicazione di una catarsi possibile nell’incontro tra la Monica narrata e la Viola narrante. Poi, oltre l’ultimo capitolo, la storia è proseguita: è proprio del racconto narrato lasciare sempre la possibilità di una domanda sulla sua continuazione.
Piuttosto, bisognerà interrogarsi sul perché il genere del “romanzo di formazione” sia adatto a questa scrittura in divenire e senza termine: un genere che di tanto in tanto viene dato per finito, e che invece dura da due secoli. E del resto, anche in periodi di assenza di romanzi di formazione degni di nota, non c’è generazione di giovani lettori che, senza pregiudizi tra l’attuale e il passato, non abbia avuto un romanzo di formazione in tasca, da Siddhartha al Giovane Holden, da Jack Frusciante a On the Road. Franco Moretti ha più volte tentato un paragone tra l’evoluzione dei generi letterari e la teoria degli equilibri punteggiati di Stephen Jay Gould: riprendendo quella suggestione, potremmo azzardare che il romanzo di formazione ha, per la sua natura di scrigno del tesoro dei possibili, molte più probabilità di adattarsi ai mutamenti culturali e sociali (dunque di interagire con l’ambiente) di altre forme o generi letterari.
A quel che sembra, viviamo giorni in cui la critica letteraria sembra dividersi tra gli anziani specialisti del “dove siamo andati a finire” (dopo la morte dell’Ultimo Grande Scrittore Italiano, non importa quale) e gli esperti del “dove andremo a finire” (se non smetteremo di ignorare l’esistenza dell’Ultimo Grande Scrittore Italiano, non importa quale). In cui la morte del romanzo, la fine dell’esperienza, l’omologazione delle voci è annunciata dai Critici Laureati con la stessa insistenza con la quale distinte signore vengono a bussare alla nostra porta alle 7 di sera per spiegarci che la fine del mondo è prossima. A fronte di questi vecchi e nuovi spacciatori di Apocalissi i narratori rispondono, come il filosofo che confutava l’asserita impossibilità del movimento camminando, con l’unico gesto possibile: si alzano e camminano, ossia scrivono. Resta che per camminare il romanzo ha bisogno di gambe, oltre che di menti sveglie. In questo caso vi provvede l’editore di Monica Viola, Vibrisselibri. Vibrisselibri scommette sul fatto che l’editoria cartacea si accorga di questo e altri testi e li faccia propri: per ora li pubblica in copyleft, «perché è insensato pubblicare in rete e non adottare il copyleft», afferma Giulio Mozzi, uno dei promotori dell’iniziativa, «e se i libri hanno prima una vita in rete, e poi – si spera – una su carta, non si vede perché la seconda vita debba ammazzare la prima». Nel momento in cui il copyleft trova sempre maggiore considerazione e sfonda barriere sinora ritenute invalicabili, c’è da sperare che anche la scommessa di Vibrisselibri sia vinta. Che cento fiori boccino, diceva un tale…