di Tito Pulsinelli

Vicenza.jpgI manifestanti che a Vicenza si sono opposti alla consegna della loro città alle forze armate degli Stati Uniti, sono spariti nel buco nero mediatico, che ha contrattaccato mettendo in scena l’avanspettacolo romano della politica. Compresi i guitti, i Pallari, torte in faccia, giochi a ruoli invertiti, ma il canovaccio è manieristico, con finale scontato. Uno psicodramma mediatico per ribadire l’immutabilità, l’ineluttabilità del passato a cui ci si dovrebbe real-politicamente rassegnare.
Tutti gli addetti al potere legislativo sono affini, ubiqui, interscambiabili, equivalenti, senza orizzonti strategici, succubi del nichilismo economico, e non hanno nulla di concreto e di originale da offrire. Non certo dei valori, ma nemmeno un progetto-paese diverso, nè un altro modo di proporsi e di interagire con il nuovo assetto del mondo emergente.

Questi esemplari omologati della nanopolitica, per i quali Financial Times e gazzette anglosassoni sono vangeli non-apocrifi, e Luttwack sarebbe un gigante geopolitico, in assenza di identità forti o peculiari, alla fine possono proporre solo se stessi: cioè i loro stili di vita, battute, simpatia, seduzione, dizione, tic, colore della cravatta e mediocrità.

Ma l’essere è cosa diversa dall’apparire, e la realtà continua a fare a pugni con la rappresentazione. La realtà, quella quotidiana delle persone in carne ed ossa, stride con quella prefabbricata dalla politica nei quotidiani vespai televisivi, e nei suoi collaterali surrogati.
Si confondono cittadini con spettatori, elettori con consumatori, così come si dà per scontato che mercato sia un sinonimo di società. Vicenza, il rifiuto del militarismo e della guerra, il portato di valori morali e sociali lì espressi, la percezione di un’altra collocazione del Paese, non hanno diritto di cittadinanza tra le priorità della classe dirigente.
I “partiti” — ossia l’effimero microcosmo di sigle usa e getta – non vogliono, non possono, non sanno o non osano rappresentarli. E mettono la testa sotto la sabbia per ignorare l’evidenza di una forza sociale concreta, tanto reale da aver portato alla luce del sole la loro estrema vulnerabilità, la loro lingua biforcuta e la doppia morale.

La cecità è una qualità condivisa dalla nanopolitica su scala europea. Ricordare la bocciatura referendaria della Costituzione europea in Francia e Olanda, aiuta a capire che la dittatura mediatica è lontana dall’onnipotenza, e che ormai votare è un’espressione di genuina sovranità solo quando si affermano scelte di rottura.
Tutta la fauna politica con monopolio della rappresentazione, si schierò coralmente per il “Sì”. La società transalpina e olandese, in modo trasversale, frammentò internamente i partiti, e impose il “No”. Ormai le società civili e nazionali riescono a strappare obiettivi importanti, pertanto ad affermarsi, alla condizione preliminare di andare oltre l’inerzia conservativa dei “partiti” e la loro sostanziale equivalenza.

E’ in questo modo che i movimenti sudamericani, nel decennio passato, di fronte alla scelta obbligata tra opzioni identiche del menú neoliberista, privilegiarono alcuni obiettivi strategici (acqua, gas, liberalizzazzioni commerciali) su cui condensare la maggior forza possibile. Attraversava partiti, ceti, sindacati, organizzazioni sportive, religiose e territoriali, che li assumevano come obiettivi non trattabili.
Questa dinamica ha portato vari Presidenti alla fuga. Questo concreto potere di veto dei movimenti, esercitato con fermezza contro vari governi, uno fotocopia dell’altro, ha portato oggi al nuovo corso sudamericano.
In questa fase, e in questa Italia con due diplomazie, con due governi, uno republicano e nazionale, l’altro monarchico e sovranazionale, il potere di veto non deve limitarsi all’elezione di una sparuta pattuglia di volubili parlamentari.

Soprattutto quando l’offerta elettorale viene spudoratamente tradita. Non ci sarebbero soldi per le pensioni però abbondano per comprare 133 aerei da guerra F35 dell’ultima moda, con un costo unitario superiore ai 100 milioni di euro. Non si tratta solo dell’inevitabile riproposizione dello scisma storico iniziatosi nel 1914, quando la partecipazione alla prima guerra mondiale spaccò definitivamente il movimento socialista europeo.
Non si tratta solo di guerra e pace. E’ offensivo per il buon senso comune e la dignità dei soldati italiani, presentarli come una versione post-moderna di ONG addette allo “sviluppo”. Gli interscambiabili governi italiani concordano che a Kabul bisogna “starci”, così come nel passato si dovette “stare” in Crimea, in Cirenaica, in Eritrea e in Somalia. E’ il “fai da te” che approdò ad un’impero da cartolina illustrata, che nemmeno ebbe sentore del petrolio libico.
Che ci si “sta a fare” in Afganistan? L’Armata Rossa, quella che arrivò in Lituania quando non c’era ancora stato lo sbarco in Normandia, le ha prese di santa ragione, e lì si innescò l’implosione sovietica. La democrazia è una missione impossibile perchè non si può imporla con la forza a chi non la vuole. Impossibile, dicono i classici, dove non è mai esistito uno Stato e i partiti sono fantasmi che non fanno nessuna ombra ai clan, vere colonne portanti della società afgana.
Bisogna avere una buona ragione per morire o perlomeno una ragione plausibile. Gli Stati Uniti ce l’hanno: far combattere alla NATO una guerra per puntellare il loro declinante egemonismo globale, nel tentativo di mettere radici in prossimità dell’Iran, Russia e Cina.

L’Europa, invece, non ha nessun bisogno di partecipare alle guerre di depredazione dei giacimenti energetici, perchè può disporre degli idrocarburi sufficienti accordandosi con i russi, gli arabi e gli iraniani. Gli europei, infatti, a differenza dei nordamericani pagano regolarmente le fatture di tutte le loro importazioni, con una moneta credibile.
Perciò possono sostenere con decisione il multipolarismo ed evitare le imposizioni della NATO. In primo luogo si tratta di scongiurare una nuova crisi simile a quella degli euromissili negli anni ’80. L’istallazione in terra polacca, ceca e italiana di nuove basi militari provocherà una risposta equivalente della Russia, cioè una nuova corsa armamentista.

Il blocco economico europeo deve fare una scelta di campo. Continuismo neoliberista, NATO, partito degli Stati Uniti d’Occidente, espansionismo militare, depredazione delle materie prime. Oppure multipolarismo, sovranità geopolitica, autonomia, cooperazione internazionale, pace.
L’unipolarismo, gli Stati Uniti all’apogeo, come forza senza precedenti nella storia, è una favola mediatica smentita dai fatti, cui crede solo la Commissione Europea o il tenutario vitalizio della sua politica estera.
Favola smentita sul terreno della supremazia nell’economia, finanze, brevetti e anche su quello militare.
Il deterrente bellico, mai misurato con nemici di pari grado, non riesce a essere più tale nemmeno contro potenze emergenti o Paesi in rovina. In Iraq, accanto a ogni soldato regolare — senza fanti offerti da altre nazioni – c’è un mercenario e mezzo.

La Commissione di Bruxelles, cioè la cupola decisionale dell’Unione Europea, designata senza scomodare gli elettori, rasenta l’umorismo quando per bocca dell’ex maoista portoghese Barroso, dà lezioni di democrazia e diritti umani. A chi? Non a Bush. Barroso, che non è stato eletto da nessuno, assomiglia a quei cardinali che senza l’abito di gala rosso, pontificano sulle virtù della democrazia e su quant’altro è loro alieno.
Non ha ancora dato una risposta coerente alla proposta fatta da Putin a Berlino: “Nessuno mette in dubbio le relazioni europee con gli Stati Uniti. Penso, però, che l’Europa consoliderebbe la sua reputazione di potenza mondiale davvero indipendente…se associasse le sue capacità con le risorse umane, territoriali e naturali, con il potenziale economico, culturale e di difesa della Russia”.

Nessuno può credere che i cinesi continueranno all’infinito a lavorare a dieci centesimi di euro l’ora, all’interno di zone speciali senza legge. Pechino sarà obbligata dalle ribellioni contro l’immensa differenza di condizioni di vita esistenti tra città e campagna, e dalla crisi ecologica galoppante, ad innalzare i salari per permettere maggiori consumi interni. Sospinti anche da un incipiente e inevitabile neoprotezionismo montante che ha toccato la campana a morto per il neoliberismo.
Il prossimo decennio vedrà cinque grandi macroregioni economiche che si atterranno a una formula pragmatica di libero scambio all’interno di ogni polo e di reciproco neoprotezionismo verso l’esterno.

Il modello individualista anglosassone non è riuscito a sbaraccare completamente lo Stato sociale tedesco, giapponese, francese e cinese, tantomeno a sussumerli a Wall Street. Perché?
Realizza gli interessi del 20% della popolazione, gli va stretto il suffragio universale, accentua il movimento verso la disuguaglianza assoluta dei redditi, e comporta il ritorno del pricipio oligarchico. E’ il nuovo nichilismo economico.
Con il multipolarismo come orizzonte geopolitico, e l’abbandono del “laissez faire” nelle nuove meta-nazioni, si avvanteggeranno i salariati perchè vi sarebbe una ripartizione più equa dei redditi nazionali. Sicuramente meno predatoria di quella praticata attualmente dall’oligarchia finanziaria, che ha notevoli margini di peggioramento qualora arrivasse a controllare il mercato-mondo.

Vicenza dice molto della forza soggiacente laddove non si posano i riflettori, della maniera in cui si compagina e si schiera, e del dato concreto di una moltitudine auto-organizzata e solitaria. Tanti alleati nella società e nessun sostegno dai vertici della politica.
Il ricatto cinico della scelta obligata tra un’opzione “partitica” contro un’altra di sostanza identica o simile, si ripresenterà sempre più spesso. L’accettazione forzata del purgatorio perché lo schieramento dirimpettaio è comandato da Lucifero, è un calcolo di dubbia efficacia. Se la lotteria politica permette sempre il medesimo risultato, significa solo che è truccata e non vale la pena comprare il biglietto. Non che il rifiuto del militarismo è una bizzarria dello spirito.
Vicenza deve carburare lentamente il dato più occultato dagli schiamazzi comunicazionali delle due ultime settimane: i bizzarri hanno la carta del potere di veto dei movimenti. “ La piazza non è il sale della democrazia” dice Napolitano. L’accentrata classe politica autoreferenziale non ne è neppure il prezzemolo. A ciascuno il proprio mestiere.
Ai “partiti” quello di sopravvivere al vuoto cosmico dell’esistente, affogando nei tatticismi di corridoio, con la suspence epocale della conta senatoriale. Ai movimenti spetta mantenere fisso il timone per aprire le rotte del futuro, e cominciare a tracciare la nuova cartografia della geografia sociale emergente.