di Chiara Cretella

miss_siddal_conny_stockhausen.jpgElizabeth Eleanor Siddal (1829-1862) è passata alla storia come la musa dei preraffaelliti ma non tutti sanno che Lizzie — così viene chiamata, nei versi che la ritraggono, dalla cognata poetessa Christina Rossetti — era anche una valida pittrice, tanto che Ruskin le comprò la maggior parte dei suoi schizzi e riconobbe che l’allieva-amante di Dante Gabriel Rossetti aveva superato il suo maestro.
La magmatica fanciulla dai capelli rossi era figlia di un coltellinaio e conobbe Rossetti e la sua confraternita per pura coincidenza. Iniziò a posare per molti di loro, come Walter Howell Deverell, William Holman Hunt e John Everett Millais. Fu quest’ultimo a regalarle l’eternità ritraendola nelle vesti di Ofelia annegata nel fiume.

Per realizzare il quadro il pittore volle che la modella posasse in vasche d’acqua per molto tempo, cosa che minò indelebilmente la sua cagionevole salute. La bellissima moglie di Rossetti, la fata dagli splendidi capelli rossi e il volto quattrocentesco, era infatti malata sin da giovanissima, anche se non è ancora chiaro agli storici di quale natura fossero tali disturbi. Le cronache parlano di una strisciante depressione, divenuta ben presto follia, dopo che la sventurata partorì un bambino morto. Dopo l’amore passionale e scandaloso dei primi anni infatti — convivevano more uxorio in epoca vittoriana —, Rossetti cominciò una lunga serie di tradimenti che culminò con la follia adorante per Jane Morris, la moglie del suo migliore amico, il genio del revival neo-medievale, William Morris. Nell’ambiente insieme promiscuo e casto della Red House Jane incarnò la bellezza sensuale, la Persefone ammaliatrice ed oscura, mentre Lizzie divenne l’emblema della spiritualità e della purezza ultraterrena.
Dopo che la bella Jane, nello stesso periodo dell’aborto di Lizzie, diede alla luce un bimbo che avrebbe potuto essere di Dante, Elizabeth si tolse la vita, avvelenandosi con l’essenza del fiore del laudano. Da allora, Rossetti che già n’era ossessionato in vita, divenne l’ombra di se stesso. Fece seppellire nella tomba di Elizabeth un libro di versi che aveva composto per lei, ma dopo dieci anni decise di pubblicare queste poesie per riassestare le sue finanze, e fece disseppellire il cadavere. All’apertura della cassa apparve una donna perfettamente conservata, intatta nella sua bellezza, e un’inspiegabile massa lunghissima di capelli fulvi cresciuta dopo la morte, che aveva avvolto tutto il cadavere. Una sorta di raggiante divinità, che consegnò al mito la sua icona. La tela di Ofelia apparve dopo la sua morte quasi come una preventiva sacra rappresentazione della triste fine che la sventurata aveva scelto per sé.
Le poesie di Rossetti passarono però inosservate al grande pubblico e non risollevarono l’autore, che esattamente dieci anni dopo, colto dai rimorsi, tentò il suicidio con lo stesso rito che aveva officiato sua moglie. Oggi per la prima volta appaiono integralmente in Italia le poesie di Elizabeth (Il vero amore non ci è concesso. Le poesie di Elizabeth Eleanor Siddal, a cura di Conny Stockhausen, Panda Edizioni, Padova, 2006, pp. 48, € 7,50) una manciata di brevi componimenti dotati di una grazia e di una levigatezza gotico-romantica, in cui si presagisce tutta la consapevolezza della morte vicina. La bella morte in età giovane, leitmotiv dell’epoca vittoriana, viene declinata in versi leggeri, carichi di un sentimento di irrimediabile finitezza dell’amore. Il corpo che si avvia alla distruzione vede una speranza nel risorgere dello spirito, nell’unione mistica degli amanti sul sepolcro, nel letto di erba che diviene una culla per l’anima, nel “fiume che scorre eterno”. L’amore si alterna all’odio per l’uomo “bugiardo” e vile che ha osato ingannare un’anima bella. E la sensualità dirompente si rasserena tutta in una visione narcisistica e glaciale, in cui lo specchio d’acqua accompagna la danza macabra della morte.
Il tema della morte come nostos, come ritorno della donna alla grande madre: «ed io conoscerò l’essenza della terra», rispecchia una iconografia personale che vede nella «sacra morte» un congiungimento fecondo e risolutivo della propria funzione: «niente tranne il riposo sembra buono per me». Versi carichi di una lucidità feconda, tali da convincermi, dopo la loro lettura, a intraprendere una piccola ricerca, poiché davvero troppo simili a quella di un’altra giovane suicida entrata nel mito: «e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:/finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me» (Sylvia Plath, Io sono verticale).
Vengo così a scoprire alcune consonanze: Sylvia è morta esattamente 101 anni dopo Lizzie, quasi alla stessa età (Sylvia 31 e Lizzie 32 anni), e ha scelto per il suo suicidio esattamente lo stesso giorno della sua sfortunata antenata: l’11 febbraio. Elizabeth cerca un rimedio ai suoi problemi psichici nella droga del laudano, così come Sylvia subisce una difficile psichiatrizzazione — non c’è dunque da stupirsi se l’11 febbraio è anche lo stesso giorno scelto per suicidarsi dalla poetessa Amelia Rosselli —. Nel 1861 Elizabeth abortisce, esattamente cento anni dopo, nel 1961, anche Sylvia Plath perde un bambino e lascia traccia di questo dolore in molte poesie.
Se l’ossessione per l’acqua e per lo scorrere si rivela in molti componimenti di Elizabeth — che fa sua l’immagine che Millais le ha dipinto addosso come un sudario di morte — non deve stupire se la poesia di Sylvia Io sono verticale fa parte di una raccolta chiamata Attraversando l’acqua (1971), che prende il nome dall’omonima poesia in cui si riaffaccia lo specchio della morte: «Ogni mattina il suo viso si alterna all’oscurità./In me lei ha annegato una ragazza, da me gli sorge incontro». Entrambe in perenne lotta intestina tra aspirazione personale e dovere coniugale, hanno ambedue condiviso la medesima passione dei loro mariti, ma il loro talento ha generato gli stessi conflitti e la stessa tragica fine.
La Beata Beatrix Lizzie viene ritratta come una musa morta giovane che assomma su di sé la purezza della giovinezza e l’incorruttibilità dell’eternità poetica. Una musa delusa, che infrange lo specchio della rappresentazione maschile attraverso una propria partenogenetica mitopoiesi. Una sorta di santificazione che ha accomunato altre poetesse di epoche lontane e vicine, si pensi solo ad Anne Sexton.
Problema centrale rimane l’immagine in scena: donne che amano troppo, impossibilitate a mettere il proprio talento davanti a quello dell’uomo, donne che i loro uomini hanno amato e tradito, innalzato e abbandonato con la stessa intensità, donne che agli uomini hanno rubato la scena nell’unica accezione a loro accessibile, nella fuga introiettiva dell’alterità e dell’alienazione. L’aura della morte ha reso loro il posto di belle addormentate in un bosco di ricordi, perfettamente conchiuse nell’estrema scelta di sottrarsi all’impari lotta con la vita.
Rossetti cercherà l’emulazione della morte e il rito della profanazione del sepolcro come riappropriazione della scena, Ted Hughes distruggerà l’ultimo diario di Sylvia. Le analogie tra Lizzie e Sylvia sono molteplici e non fanno pensare a una semplice casualità: le loro parole, costantemente dissepolte da altre schiere di donne, continuano a scorrere eterne, come Ofelia, nel fiume della poesia.