di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da L.A., ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia. Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]

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“Vedi questo ricordino funebre? È di mio padre.”
“Ti somiglia”, osservò Hans Christian, e lesse. “’La sua vita continua nel cielo e nel cuore di quelli che quaggiú lo amarono’. Nato il 15-6-1921, morto il 10-3-1953. Trentadue anni, dunque, non 33!”
“È vero”, sospirai. “Devo aver fatto confusione. Parlami ancora di tuo padre, se ti va. Come si chiamava?”
“Hans Andersen.”
“E ti voleva bene?”
“Certo che me ne voleva. Viveva per me e assecondava ogni mio desiderio. Ero interamente padrone del suo cuore. La domenica mi fabbricava giocattoli, teatrini e figure. Spesso, la sera, ci leggeva a voce alta qualche romanzo o qualche storia tratta da ‘Le mille e una notte’. Era, anzi, solo in momenti come quelli che credo di poterlo ricordare allegro, perché non fu mai felice nella sua vita e nella sua professione.”

“Uscivate spesso insieme?”
“D’estate, soprattutto.”
“E dove andavate?”
“Per i boschi, quasi tutte le domeniche. Ma in quelle occasioni non parlava molto.”
“E che cosa faceva?”
“Si sedeva in silenzio, assorto in profondi pensieri, mentre io sgambettavo nei pressi, infilavo collane di fragole o intrecciavo ghirlande.”
“E tua madre veniva con voi?”
“Solo un paio di volte l’anno, nel mese di maggio, quando i boschi tornavano a splendere del loro primissimo verde, e allora si metteva una veste di cotone, che indossava solo in quelle occasioni, o quando andava a fare la Comunione. Era il suo solo abito delle feste, credo. Quando tornava a casa dal bosco, aveva sempre con sé una gran quantità di rami freschi di faggio, che poi venivano piantati dietro la mola. Piú avanti nella stagione infilavamo ciuffi d’erba di San Giovanni nelle fessure delle travi, e dalla loro crescita cercavamo di prevedere se le nostre vite sarebbero state lunghe o brevi. Rami verdi e quadri ornavano la nostra stanza, che mia madre teneva sempre perfettamente linda e in ordine. Era molto orgogliosa delle sue lenzuola e tende immacolate. Nella stagione del raccolto, invece, la mamma passava qualche giornata nei campi a spigolare e io l’accompagnavo. Guardandola, mi veniva in mente la Ruth della Bibbia, nei campi di Booz.”
“Come facevi a sapere di Ruth?”
“Dalle letture del babbo, naturalmente. Un giorno io e la mamma capitammo in un posto dove c’era un fattore d’animo rude e selvaggio. Lo vedemmo arrivare con un’enorme frusta in mano. Mia madre e tutti gli altri scapparono. Io, purtroppo, nella concitazione persi gli zoccoli di legno che avevo ai piedi nudi e rimasi indietro. Le stoppie mi pungevano al punto da impedirmi di correre. L’uomo mi raggiunse e sollevò la frusta per colpirmi, ma in quel momento alzai gli occhi verso di lui e, quasi senza rendermene conto, esclamai: ‘Come osa colpirmi? Non sa che Dio la sta guardando?’.”
“E lui?”
“Rimase talmente spiazzato che si pacificò subito. Mi dette un buffetto in una guancia, mi chiese come mi chiamassi e mi regalò un po’ di denaro. La mamma, quando glielo mostrai, osservò che dovevo essere un bambino davvero straordinario, se tutti erano cosí buoni con me. ‘Perfino quell’omaccio gli ha dato del denaro!’, esclamò.”
“Come mai tuo padre ti leggeva la Bibbia? Era molto religioso?”
“A dire la verità mio padre non ci leggeva soltanto la Bibbia, ma anche commedie e racconti, o libri di storia. La mamma non lo comprendeva quando le parlava di queste cose, e cosí egli finí per chiudersi sempre piú in se stesso. Un giorno, dopo aver letto la Bibbia, disse che, secondo lui, Cristo era stato un uomo come tutti gli altri, anche se straordinario. La mammai, nell’udire quelle parole, si spaventò e scoppiò in lacrime.”
“Perché?”
“Perché le era parsa una bestemmia. Anch’io, a dire il vero, rimasi inorridito e pregai il Signore di perdonarlo. L’avevo già sentito dichiarare spesso: ‘Non esiste demonio se non quello che ci portiamo nel cuore!’ e temevo per la sua anima. Quando, un mattino, si svegliò con tre profondi graffi su un braccio, prodotti probabilmente da un chiodo del letto, la mamma e le vicine sostennero che il diavolo doveva essere andato a visitarlo durante la notte, per dimostrargli la sua esistenza, e ci credetti anch’io.”
“Anche mia nonna Celerina era molto religiosa e aveva spesso delle visioni. È stata molto importante per me.”
“Come tutte le nonne del mondo.”
“Parlami della tua.”
“Mia nonna veniva a trovarci ogni giorno, anche solo per pochi minuti, pur di vedere il suo nipotino.”
“Il piccolo Hans Christian?”
“Già. Che era tutta la sua gioia.”
“E lei com’era?”
“Una vecchia tranquilla, di bella taglia e dagli occhi azzurri e miti. Purtroppo la vita si era accanita contro di lei. Da moglie di un contadino agiato, come ti ho detto, era presto caduta in estrema povertà, e adesso abitava col marito infermo di mente in una casetta che si erano comperati con i resti del loro patrimonio. Tuttavia non la vidi mai piangere. Mi faceva molta impressione, anzi, sentirla sospirare in silenzio e raccontare della madre di sua madre.”
“Cioè della tua trisnonna?”
“Appunto.”
“E che cosa ne diceva?”
“Che era stata una nobile dama di una grande città tedesca, Cassel.”
“E com’era finita in Danimarca?”
“Aveva conosciuto un commediante, insieme al quale era fuggita lontano dai genitori e dalla sua casa. Tutto questo, ripeteva spesso la nonna, adesso ricadeva sui discendenti.”
“Faceva anche lei la lavandaia?”
“No, la nonna aveva in cura il giardino del manicomio. Ogni domenica sera portava con sé qualche fiore, che le lasciavano prendere. Quei fiori facevano bella mostra di sé sul cassettone della mamma, ma erano miei. Avevo il permesso di metterli nell’acqua in un bicchiere e la cosa mi rendeva felice.”
“Dovevi essere un bambino molto sensibile.”
“Ho sempre amato gli alberi e i fiori, sin da bambino. Ricordo che un giorno di primavera, ai tempi di Copenaghen, ero andato sulla collina di Frederiksberg e d’un tratto mi ero trovato in mezzo a dei grandi faggi dal fogliame straordinario. Il sole dava trasparenza alle foglie, l’aria era fresca e profumata, l’erba alta e gli uccelli cantavano. Tanto splendore mi sopraffece. Abbracciai inebriato un albero e ne baciai la corteccia. Purtroppo, subito dopo, una voce commentò: ‘Ma è matto?’. Era un guardiano del castello. Corsi via spaventato e tornai in città muto e pensieroso.”
“Parlami ancora di tua nonna.”
“La nonna mi voleva un bene dell’anima, e io lo sapevo. Due volte l’anno bruciava le erbacce del giardino, che venivano incenerite in un grosso forno all’interno dell’ospedale, e in quei giorni io stavo con lei per la maggior parte del tempo, stendendomi sui mucchi di frasche e viticci e giocando con i fiori. Il cibo che poi mi davano superava di gran lunga quello che avrei ricevuto a casa.”
“E tuo nonno?”
“Te l’ho detto, era infermo di mente e mi metteva molta soggezione. Mi parlò una sola volta, e per giunta dandomi del ‘lei’. Intagliava nel legno delle strane figure di uomini con testa di animale, o di bestie alate e uccelli singolari, che metteva in una cesta.”
“A che scopo?”
“Per mostrarle in giro in campagna. Tutte le contadine lo invitavano, anzi gli davano del tritello e del prosciutto da portare a casa, perché regalava ai loro bambini quei suoi giocattoli artistici.”
“Un personaggio interessante, dunque.”
“Certo, ma anche un pubblico zimbello. Usciva dai boschi inghirlandato di fiori e cantava a squarciagola per le strade della città, facendomi morire di vergogna. Un giorno, mentre tornava a casa, udii dei ragazzi schernirlo lungo la via. Mi nascosi inorridito dietro una scala, consapevole che la loro vittima era del mio stesso sangue, mentre quelli passavano schiamazzando.”
“Dev’essere terribile perdere la lucidità.”
“Terribile davvero. Una delle mie massime paure è sempre stata quella di fare la fine del nonno. Ricordo che, nelle corti dell’ospedale in cui lavorava la nonna, tutti gli alienati non pericolosi, che avevano il permesso di circolare liberamente, venivano spesso in giardino da noi e io li ascoltavo conversare e cantare con un misto di curiosità e di timore. Spesso li seguivo per un tratto nella ‘corte verde’ sotto gli alberi, e quando c’erano i guardiani osavo perfino entrare nell’edificio in cui erano sistemati i pazzi furiosi. Le loro celle si aprivano in un lungo corridoio.”
“Ti è mai successo qualcosa di pauroso?”
“Un giorno me ne stavo accovacciato a terra, spiando attraverso la fessura di una porta una donna seminuda seduta su un mucchio di paglia, con i capelli sciolti sulle spalle. Ricordo che cantava con una voce bellissima. D’un tratto, però, balzò in piedi e si scagliò con un urlo contro la porta dietro la quale mi ero appostato io.”
“Non c’era nessuno con te?”
“Il guardiano, purtroppo, se n’era andato. Ero completamente solo e la pazza percuoteva la porta con una tale furia che lo sportello sopra di me cedette e si spalancò.”
“Quale sportello?”
“Quello per il quale veniva passato il cibo.”
“E che cosa accadde?”
“Che la pazza si affacciò e mi vide, e subito dopo tese un braccio per afferrarmi. Io mi misi a gridare spaventatissimo e mi rannicchiai ancora di piú contro il pavimento. Sentivo le punte delle sue dita toccarmi i vestiti, e quando, finalmente, arrivò il guardiano, mi trovò mezzo morto di paura. Da allora, il timore dei matti non mi ha piú abbandonato, in nessuna fase della mia vita.”
“Nemmeno da adulto?”
“No. Ma la paura maggiore, ripeto, è sempre stata quella di poter fare la loro fine. Ricordo che molti anni dopo, nel maggio del 1847, vidi a Odense la festa della società dei tiratori, che nella mia infanzia era sempre stata la giornata piú bella. Un’altra generazione di bimbi marciava portando, come allora, il bersaglio crivellato di colpi, e tutta la folla agitava rami verdi. C’era la stessa allegria, la stessa confusione, ma con che occhi diversi la vedevo adesso! D’un tratto, guardando fuori dalle finestre, notai un povero ragazzo semi-deficiente. Aveva il volto ben disegnato e gli occhi splendenti, ma nell’insieme della sua persona c’era qualcosa di fuori posto e gli altri ragazzi lo inseguivano schernendolo. Allora ripensai a mio nonno infermo, a me stesso, alla mia infanzia. Se fossi rimasto a Odense a fare l’apprendista, se il tempo e le circostanze non avessero attenuato quella forza di fantasia che mi aveva soggiogato cosí completamente, o se non avessi imparato ad adeguarmi all’ambiente, come sarei stato considerato? Non lo so. Ma la vista di quell’infelice mi fece battere il cuore, e il mio pensiero volò a Dio per ringraziarlo della Sua bontà e del Suo amore.”
“Io, invece, da piccolo, avevo una gran paura dei nani.”
“Perché?”
“Perché un giorno, in paese, arrivarono i carrozzoni di un circo e io andai a curiosare nel luogo in cui veniva innalzato il tendone. A un certo punto un nano mi si avvicinò e mi dette un grosso schiaffo, senza che gli avessi fatto niente.”
“Proprio niente?”
“Magari l’avevo guardato con insistenza, non lo so. Sta di fatto che, mentre lo confrontavo mentalmente con i nani delle fiabe da me lette nell’infanzia, all’improvviso mi si avvicinò e mi mollò una sberla terribile, che mi rintronò. Da allora, ho sempre avuto un sacro terrore dei nani.”
“Non c’è persona che, da piccola, non abbia provato una qualche paura, piú o meno infondata. Nel mio caso, le storie raccontate dalle vecchie, le figure dei mentecatti che vedevo girarmi intorno all’ospedale mi avevano impressionato al punto che, credulone e superstizioso com’ero, appena faceva scuro non osavo piú avventurarmi fuori casa.”
“A che ora andavi a letto, la sera?”
“Al calar del sole, in genere, ma non nella mia branda.”
“E dove?”
“Nel letto dei miei genitori, con le tendine di cotone a fiori abbassate tutt’intorno.”
“Perché?”
“Perché la mia branda occupava troppo spazio nella stanza, ed era ancora presto per ingombrarla con essa. La luce restava accesa e io potevo sentire tutto quello che succedeva, eppure ero solo, immerso nelle mie fantasticherie, come se il mondo reale non esistesse. Sentivo la mamma commentare: ‘Come sta buono, quell’angioletto! Sta cosí tranquillo per conto suo, senza che capiti nulla!’”

[Lucio Angelini, uno dei migliori autori italiani per ragazzi, ha pubblicato per EL, Emme, Panini Ragazzi, Il Capitello, Loescher, Flammarion-Castor Poche eccetera]