di Alberto Prunetti

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L’industria del cibo è una di quelle in cui il lavoro è condotto ancora coi ritmi delle fabbriche tayloriste. A turni spesso massacranti i cibi escono dalle scatole e dalla surgelazione e arrivano sui piatti di spocchiosi clienti, dopo essere passati attraverso le mani imprecanti di una serie di schiavi che a catena li trattano: passare i pelati, soffriggere, tagliare, affettare, cuocere, sono i verbi della schiavitù culinaria, verbi che risuonano in certe sarabande infernali tra pentole, fritture d’olio, getti bollenti di lavastoviglie, stridii d’affettatrice, su cui rimbomba a ritmi sempre più serrati la campanella del cuoco, richiamo imperioso che il cameriere, questo topolino pavloviano, non può eludere.


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La culinaria è una disciplina di asservimento che utilizza la forza lavoro di alcune persone con una specializzazione alimentare di vario livello (dal cuoco all’aiuto-cuoco, fino all’apprendista e al lavapiatti “con minima esperienza di cucina”). Ben altro piacere darebbe invece la culinaria in una società non autoritaria, in cui uomini e donne convenissero all’ora del meriggio a panici banchetti: essa sarebbe, più fedelmente a certe allusioni ingenuamente onomatopeiche, l’arte di cucinare senza mutande.

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Eroi della gastronomia mitologica: Saturno che mangia i suoi figli, ma anche Tantalo, che fa a pezzi il figlio e lo offre come cibo agli dei, rivela ai mortali le ricette dell’Olimpo e sottrae dalle mense celesti l’ambrosia e il nettare; eroi della gastronomia biblica: la mela di Eva, Giona ingoiato dalla balena, Jesus briaco a Cana e pesciaiolo nel giorno della moltiplicazione, ma anche il Padre primo classificato nella disciplina del lancio della manna; eroi della gastronomia iconografica: i Mangiatori di Patate di Van Gogh, le Nozze contadine di Bruegel, il Picnic sull’erba di Manet, qualche frittura in Bosch; eroi della gastronomia letteraria: le streghe del Macbeth, le madeleines di Proust, il conte Ugolino col suo “fiero pasto”. Quante bocche che si aprono, quante fauci insaziabili alla ricerca di succulenze d’asporto o da tavola. Ma ai giorni nostri? Cosa dire dei tanti casi di anoressia? O al contrario dell’ipernutrimento nevrastenico che forza all’attività coatta mascelle e acidi gastrici? Agli stomaci ulcerosi dei nostri contemporanei contrapporrò la fame superba di Morgante e di Margutte cantata dal Pulci: Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa / e rompe e guasta masserizie e vasa / ciò che trovava, ogni cosa fracassa / ch’una pentola sol non v’è rimasa / di cacio e frutte raguna una massa / e portale a Morgante in un gran sacco / e cominciorno a rimangiare a macco.

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Dialettica servo-padrone. Il rapporto tra il manovale del cibo e il proprietario ristoratore è ovviamente un esempio della dialettica servo-padrone. Molti ristoratori hanno cominciato come camerieri e a prezzo di non aver mai vissuto una vita di piaceri si sono affrancati, sono diventati dei liberti. Divenuti proprietari hanno assunto altri schiavi, ma non solo per soggiogarli, ma anche per averli accanto come compagni di servitù. Nelle loro intenzioni la ristorazione è un’attività in cui ognuno è padrone all’interno delle singole funzioni, il pizzaiolo padrone in pizzeria, il cameriere è padrone in sala, il cuoco padrone in cucina, il lavapiatti padrone al lavello. Ma quando si tratta di aprire la cassa, tutti questi supposti padroni ritornano schiavi, e il vero padrone, quello che conta i soldi, distende allora il suo sguardo di bottegaio rifatto sul locale. Ma, padrone per un momento in virtù dell’autorità conferitagli dalla cassa (e quindi di fatto schiavo del denaro), il ristoratore ricorda la sua nascita tra i ceppi, si vergogna di questo istante di sovranità e subito ritorna a fare lo schiavo, servendo il cliente in tutte le sue bizze, facendo spesso i lavori più umili, non disdegnando di pulire i cessi, attaccato al suo lavoro — da cui desume l’unico motivo per non ammazzarsi – ora con dita rattrappite, ora con saldezza di principi, a seconda della maggiore o minore sincerità a se stesso. Tuttavia, allorché coglie nel dipendente una tensione a disconoscere la sua autorità, allora il ristoratore ritorna a farsi padrone. Per far questo basta che egli attraversi lo spazio in cui uno dei suoi dipendenti esercita la sua servitù nell’illusione di “abitare la sovranità”. Basta ad esempio che egli entri in pizzeria o in cucina con l’atteggiamento di chi osserva o comanda. Quando il ristoratore convoca il pizzaiolo nega le relazioni che quest’ultimo ha con le cose di cui si prende cura, perché il signore dispiega le sue, e con la sua autorità impercettibile a terzi, dà al servo, immerso in quello sguardo, la chiara consapevolezza di essere in un luogo dove tutte le cose dicono la sua servitù. Infatti l’ordine delle cose in pizzeria, dalle spatole d’acciaio ai contenitori per la mozzarella sino ai vasetti d’origano e alla temperatura del forno, è immagine della volontà del padrone, per cui al pizzaiolo non rimane che cogliersi come strumento definito dal rapporto cogli altri strumenti della pizzeria, la legna, le pale, il pomodoro.

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Vivendo sempre davanti a tavole imbandite gli addetti alla ristorazione vedono di fatto bandita la loro voglia di esistere. Pertanto si adoperano a rivolgersi complimenti reciproci che leniscano la sterile monotonia d’ogni giorno: appassionato sarà il ristoratore privo di ogni passione che non sia seppellirsi 24 ore al giorno in un locale; sfizioso sarà il cliente rompicoglioni che proponendo richieste gastronomiche esotiche dimostra la sua comprensione per il martirio dei lavoratori alimentari; intelligente sarà il dipendente sottomesso, impagabile sarà il servo contento e cerebroleso che sgobba con la stessa determinazione di un mulo (e che infatti spesso non viene pagato affatto).

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Nel tragitto dalla casa al luogo di lavoro — il momento più pericoloso della giornata, in cui il ristoratore è simile all’individuo che nel mito platonico della caverna vede per la prima volta il sole – questi si renderà conto che esistono individui sfaccendati, dediti unicamente proprio sollazzo. Il ristoratore si sentirà in dovere di mostrare uno sguardo corrucciato per questi delinquenti cui nessuno ha ancora messo un giogo. Del fatto che ci sia gente che non lavora i ristoratori sono turbati, addirittura ne vedono un oltraggio alla loro vita di sacrifici, all’ampio conto depositato nella banca delle occasioni perse, e così, tra una fatica e un’invocazione ai carabinieri, che “se facessero il loro dovere” dovrebbero arrestare anche il papa, “quello sfaccendato”, se ne vanno i giorni loro finché una malattia non li priva anche del lusso di respirare.

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Il pizzaiolo, questo dannato del forno, è una di quelle figure che partecipano a proprio danno all’attività di produzione del cibo: è condannato a spianare delle palline di acqua, sale, lievito e farina (ma la realtà è spesso più drammatica, ci sono farine speciali, farine precotte, lieviti naturali, liofilizzati, a pasticche, polvere lievitanti e quant’altro ancora); è obbligato a trovare tecniche spettacolari di spianaggio per liberare dalla noia della solita focaccia l’incauto degustatore; è infine costretto a proporre alternative di condimento elaborate per la soddisfazione di palati sempre più insoddisfatti.

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In un panorama gastronomico così desolante il pizzaiolo, che in un passato mitico e mediterraneo ci immaginiamo sorto dal connubio etnéo tra il dio Vulcano, signore dei forni, e Cerere, dea delle biade e delle farine, è oggi nient’altro che una squallida controfigura di Pulcinella.

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Gli attrezzi del mestiere: se il cuoco è schiavo delle padelle e il cameriere dei vassoi, il pizzaiolo avrà il suo daffare a liberarsi negli incubi notturni dalle pale, con cui impala e sforna la merce della cui valorizzazione è stato incaricato. A lungo andare il pizzaiolo arriva ad assomigliare agli strumenti che maneggia, al punto che, già pensato da chi lo circonda più come una funzione espletata (l’addetto alla pizza) che come individuo in carne ed ossa, egli finisce per diventare degli arnesi una semplice escrescenza parlante (parlante al solo fine di chiamare, a cottura avvenuta, le cameriere per servire i piatti).

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Pizze al silicone, alla vernice rossa, alla ruggine e al vaiolo con scaglie radioattive a crudo, calzoni all’ammoniaca e alle quattro escoriazioni. Apoteosi della commestibilità capitalista che rende digeribile anche la merda, purché ci sia sopra un’etichetta del Ministero della Somministrazione e del Sostentamento.