di Lucio Angelini
[Lucio Angelini, uno dei migliori autori italiani per ragazzi, ha pubblicato per EL, Emme, Panini Ragazzi, Il Capitello, Loescher, Flammarion-Castor Poche eccetera]

fantasmaandersen.jpgLà fuori, nel mondo, c’è un tale marasma (infuriano guerre, distruzioni, malattie nuove, soprusi appena inventati), che preferisco starmene buono e tranquillo in questa specie di casa-armadio, dove nessuno può venirmi a cercare. Volete sapere perché mi chiamo Solingo? È presto detto. A mio padre, marchigiano di Recanati, piacevano un sacco le poesie di Leopardi e in particolare l’apostrofe:

Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume non ti dorrai… ”

Purtroppo, non avendo fatto il liceo classico (e probabilmente nemmeno le scuole medie), era convinto che Solingo fosse il nome della bestiola, cosí, quando nacqui, trovò poetico appiopparlo anche a me. E tuttavia, in qualche misterioso modo, quel nome riuscí a influenzarmi il carattere (i latini dicevano ‘Nomen omen’, no?), perché solitario divenni davvero.

O magari fu solo una coincidenza, ma mia madre, per tutta l’infanzia, non fece che domandarmi:
“Perché non vai al campo a giocare con gli altri bambini?”
“Uffa, mamma, ma che fastidio ti dò?”
“Sei pallido come un morto. Dovresti stare di piú all’aria aperta, correre nel sole!”
“Preferisco stare all’aria chiusa”, tagliavo corto io. E non c’era verso che le dessi retta. Me ne stavo ben trincerato nel magazzino, fra cataste del piú bizzarro ciarpame, in mezzo al quale avevo eretto un rudimentale teatrino.
L’episodio piú eclatante della mia fanciullezza fu quando, probabilmente attirato dal teatrino stesso, mi apparve il fantasma di un ragazzo alto, dinoccolato e dal grande naso.
“Ciao, che fai?”, mi chiese con voce squillante.
Io ero spaventatissimo, ma feci il possibile per non darlo a vedere.
“Sto costruendo una marionetta”, balbettai.
“Il brutto anatroccolo, vedo.”
“Sí, qualcosa del genere.”
“Ti converrebbe farne due esemplari, allora: uno piccolo e sgraziato per la prima parte della storia, l’altro in forma di magnifico cigno.”
“E chi ti assicura che il mio anatroccolo dovrà diventare un magnifico cigno?”
“Be’, è cosí che succede nella mia fiaba.”
“Perché, chi saresti?”
“Hans Christian Andersen.”

Immagino che vorrete sapere i dettagli dell’apparizione: com’era vestito, di dove fosse sbucato esattamente, eccetera. Purtroppo non li ricordo. So solo che, superato lo sbigottimento della prima volta, a poco a poco mi abituai all’idea che Hans Christian dovesse materializzarsi, fino a non farci piú caso. Certo, se in magazzino entrava qualcuno, lui aveva la discrezione di ridiventare di colpo invisibile, un po’ per non costringermi a maldestre spiegazioni, un po’ perché ai fantasmi, credo, non piace mostrarsi proprio a chiunque. Non che io avessi dei meriti particolari, per carità!, per beneficiare delle sue epifanie. Solo che, come mi confessò un giorno, da bambino aveva amato anche lui giocare con le marionette costruitegli da suo padre e, insomma, doveva essere tutta una questione di antenne. Lui le faceva vibrare a me, io, evidentemente, a lui. A un certo punto gli chiesi di raccontarmi nel dettaglio la sua storia. Hans Christian accettò, ma preferí diluirla nel corso di molte apparizioni, evocando ora questo, ora quell’altro episodio.
“Per prima cosa”, esordí, “sappi che la mia stessa vita è stata una sorta di fiaba.”
“In che senso?”
“Nel senso che, dopo un mucchio di difficoltà iniziali, finii per ritrovarmi perfettamente appagato e felice. Come dimenticare i festeggiamenti del 1867?”
“Quali festeggiamenti?”
“Quelli che mi tributò la mia città natale, Odense, a circa un cinquantennio dalla mia avventurosa fuga a Copenaghen.”
“Quale fuga?”
“Quella da Odense a Copenaghen, appunto.”
“E dov’è Odense?”
“In Danimarca, nell’isola di Fionia, per l’esattezza. Copenaghen, invece, è sull’isola di Selandia, un po’ piú a est.”
“Strano nome, Odense.”
“Viene da ‘Odino’, il dio pagano che, secondo la tradizione, viveva lí. Quando, a quattordici anni, pieno di paura, ma anche di speranza, abbandonai il mio paese natale per andare a tentare la fortuna a Copenaghen, non ero che un povero ragazzo di campagna. Invece, poi, finii per bere la cioccolata con la regina, seduto allo stesso tavolo, davanti a lei e al re.”
“Accidenti!”
“Non faccio per vantarmi, ma, come scrissi nella fiaba ‘Il brutto anatroccolo’, non importa tanto nascere in un recinto d’anatre, quanto essere usciti da un uovo di cigno.”
“Questa, se permetti, non mi sembra un’affermazione del tutto condivisibile.”
“Perché?”
“Perché allora la vita dipenderebbe tutta dal caso. Che merito c’è nell’uscire da un uovo di cigno? Se tutto dipendesse dall’uovo di provenienza, che cosa potrebbe mai fare un povero disgraziato uscito da un uovo d’anatra, per migliorare il proprio destino?”
“Hai ragione anche tu, da questo punto di vista. Diciamo, allora, che l’uovo è la nostra determinazione a perseguire certi obiettivi, a realizzare la nostra vocazione. Se io fossi rimasto a Odense, per esempio, avrei sicuramente finito con l’imparare un mestiere qualsiasi e soffocare ogni mio vero talento. Niente scrittura di fiabe, insomma!”
“Parlami dei tuoi inizi. Furono davvero cosí difficili?”
“Decisamente.”
“Che cosa faceva tuo padre?”
“Il ciabattino, poveretto, e del tutto controvoglia. Fosse stato per lui, avrebbe senz’altro preferito frequentare il ginnasio e diventare un intellettuale. Era nato da contadini benestanti, sui quali, però, si erano abbattute delle sventure. Il bestiame era morto, la fattoria era bruciata e, da ultimo, suo padre era uscito di senno.”
“Vuoi dire che era diventato matto?”
“Esattamente.”
“E la nonna?”
“La nonna non ebbe scelta. Dovette spingere mio padre a fare l’apprendista calzolaio, malgrado il suo desiderio di continuare gli studi. Alcuni cittadini facoltosi, a dire il vero, pensarono di mettere insieme una somma sufficiente a pagargli vitto, alloggio e istruzione, in modo da dargli un buon avvio nella vita; ma i loro buoni propositi non si tradussero mai in realtà. Al mio povero papà non rimase che metterci una pietra sopra, senza veder realizzare il suo desiderio piú caro. Non se ne scordò mai. Ne soffrí in modo terribile.”
“Come fai a saperlo?”
“Ricordo che una volta, da bambino, vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime, e fu quando un giovane del ginnasio venne a casa nostra a farsi prendere le misure per un nuovo paio di stivaletti. Ci mostrò i suoi libri e ci parlò di tutto quello che aveva imparato. ‘Ecco la strada che avrei dovuto percorrere anch’io!’, esclamò mio padre, baciandomi con trasporto. Poi rimase in silenzio per tutta la sera.”
“Insomma la sua fiaba non si concluse affatto con un lieto fine.”
“Tutt’altro. Il babbo si ammalò e morí.”
“Quando?”
“Al tempo in cui in Danimarca arrivarono i francesi.”
“Sí, ma quanti anni aveva quando morí?”
“Trentatré.”
“Che buffo! Anche mio padre è morto a trentatré anni.”
“Sono gli anni di Cristo. E di tutti i poveri cristi come loro, suppongo. Hai visto quante cose abbiamo in comune?”
“Già. Ma non trovo giusto che alcuni individui muoiano giovani e infelici, e altri abbiano il tempo e la possibilità di coronare i propri sogni.”
“Sai una cosa? Riguardo al destino dei miei genitori, ho sempre pensato che il Signore abbia negato loro la giusta dose di felicità proprio per favorire il mio particolare avvenire.”
“Appunto. E ti pare giusto?”
“Perché no?”
“Perché il Signore dovrebbe distribuire gioie e dolori in egual misura a tutti quanti, senza favoritismi… ammesso che poi esista.”
“Certo che esiste. Non dirmi che non credi in Dio!”
“Non sempre. E quelle poche volte, abbastanza a modo mio.”
“Io, invece, ho sempre avuto fiducia nella sua bontà, anche quando i disegni divini mi parevano piú difficili da interpretare. E ti dirò di piú: ho avuto spesso la conferma che ciò che avevo considerato un male, in realtà costituiva solo una tappa necessaria verso il bene finale.”
“E tuo padre, allora? Ti pare giusto che lui sia dovuto soccombere solo perché si adempisse il tuo particolare destino?”
“Non spetta a noi uomini giudicare. Forse mio padre non si battè abbastanza per realizzare le proprie aspirazioni. O forse, ripeto, il suo sacrificio era necessario perché si adempisse non tanto il mio particolare destino, quanto quello delle mie fiabe, destinate, come ben sai, non solo a me.”
“Non vedo proprio che cosa c’entrasse il sacrificio di tuo padre.”
“Una qualche ragione ci sarà stata.”
“Non trovi che Dio dovrebbe rendere gli uomini piú giusti, buoni e felici, visto che si prende la briga di crearli? Non poteva far sí che tuo padre continuasse gli studi, per esempio, sapendo che ci teneva cosí tanto?”
“Certo che poteva. Ma non è compito degli uomini interferire nelle Sue decisioni, che vanno accettate per quel che sono.”
“Ah, sí? E che cosa dovrebbe fare l’uomo, starsene con le mani in mano in attesa che si compiano gli eventi?”
“Tutt’altro. Ha il sacro diritto-dovere di battersi per sfruttare al meglio i propri talenti, ma se poi le cose non vanno come vorrebbe, è bene che dica: ‘Signore, sia fatta la tua volontà’. Per quanto mi riguarda, credo di avercela messa tutta a costruirmi l’avvenire che sognavo, a dispetto della mia situazione di partenza.”
“Eravate davvero cosí poveri?”
“Ti basti pensare che il mio papà, quando si sposò, dovette costruirsi da solo anche il letto nuziale.”
“Be’, in questo non ci trovo niente di sconvolgente. In fondo lo fece anche Ulisse.”
“Conosci l’Odissea?”
“Certo che la conosco. E so anche che Ulisse ricavò il letto nuziale da un grosso tronco d’ulivo. Tuo padre da che albero lo ricavò?”
“Non lo so, esattamente. Da un catafalco funebre, in ogni caso.”
“Un catafalco funebre?”
“Sí, quello che aveva sorretto la bara di un conte. L’uomo era stato esposto in gran pompa, tra fiori, drappeggi e candele, capisci?”
“Che orrore!”
“E perché mai? Vita e morte procedono sempre intrecciate, non lo sapevi? Ricordo che le strisce di panno nero rimasero per sempre attaccate al legno del letto sul quale, dopo qualche mese, al posto della nobile salma del conte, giacqui io, bimbo vivo e piangente: Hans Christian Andersen. Era il 2 aprile del 1805.”
“Che buffo. E tua madre che cosa faceva?”
“La lavandaia. Mi raccontò che da piccola i suoi genitori l’avevano spinta fuori di casa a mendicare, e una volta in cui non se l’era sentita di farlo, era rimasta per un intero giorno sotto un ponte a piangere. La mia fantasia infantile si raffigurava la scena con tutti i particolari, tanto che ne piangevo a mia volta.”
“Be’, hai ragione, la tua situazione iniziale non fu certo brillante.”
“E tuttavia se quando, da ragazzo, mi avventurai nel mondo senza denaro e senza amici, una buona fata mi avesse incontrato e detto: ‘Scegli ora la tua strada nella vita e lo scopo per cui lottare. Io ti proteggerò e guiderò verso il suo raggiungimento’, nemmeno in quel caso il mio destino avrebbe potuto essere diretto in maniera piú felice e assennata. La storia della mia vita non può che dire al mondo quello che ha detto a me: c’è un Dio benevolo, che guida ogni cosa per il meglio.”
“Ecco di dove traesti lo spunto per ‘Il brutto anatroccolo’, dunque. Dalla tua stessa storia!”
“Certo. Ma in questo non c’è nulla di strano. Noi scrittori siamo spesso autobiografici, quando ci mettiamo a inventare le nostre storie.”
“Anche i fratelli Grimm?”
“Per loro fu un po’ diverso, a dire il vero.”
“Perché?”
“Perché da un lato anche Jacob e Wilhelm Grimm misero insieme una monumentale raccolta di fiabe, dall’altro attinsero, essenzialmente, alla tradizione popolare.”
“Vuoi dire che non inventarono nulla di nuovo?”
“Piú o meno. Ma ebbero comunque dei meriti eccezionali, perché senza il loro lavoro di recupero quell’impagabile patrimonio di storie sarebbe andato perduto per sempre.”
“Li hai conosciuti anche di persona, i fratelli Grimm?”
“Sí, ma che figuraccia, a ripensarci bene, la prima volta.”
“Perché?”
“Perché quando, nel 1844, visitai il loro paese, la storia della mia ascesa era ormai diventata quasi altrettanto popolare delle mie fiabe e mi era stato detto che se a Berlino qualcuno doveva conoscermi, quelli erano senz’altro i fratelli Grimm. Per questo cercai con fiducia la loro abitazione. La cameriera mi chiese con quale dei fratelli desiderassi parlare. ‘Con quello che ha scritto di piú’, risposi, non sapendo, a quel tempo, quale dei due si fosse maggiormente interessato alle fiabe popolari.”
“E la cameriera che cosa ti rispose?”
“Disse che Jacob era il piú colto, per cui la pregai di condurmi da lui. Entrai nella stanza e mi trovai davanti Jacob Grimm, con il suo volto perspicace e caratteristico.”
“E fu gentile?”
“Gentilissimo, se per questo. Solo che non aveva la benché minima idea di chi fossi. Ricordo che, appena entrato, mi scusai per non avere con me una qualche lettera di presentazione, ma aggiunsi che il mio nome, forse, non gli sarebbe suonato del tutto sconosciuto. Allora Jacob Grimm mi domandò come mi chiamassi, ma, quando lo ebbe saputo, allargò le braccia e ammise di non avermi mai sentito nominare. ‘Che cosa ha scritto?’, incalzò. Gli citai diversi titoli, ma non serví. Non sapendo come risolvere la situazione, propose di condurmi da suo fratello Wilhelm. ‘No, grazie’, risposi, impaziente di scappar via. Gli strinsi la mano e mi congedai pieno di imbarazzo per la brutta figura fatta. Invece, poi, a distanza di qualche mese, Jacob trovò il modo di leggere i miei lavori e di apprezzarmi, e ci fu un periodo in cui ci frequentammo quasi quotidianamente.”
“Se ho ben capito, loro si erano limitati a mettere per iscritto i racconti della tradizione orale. Tu, invece, ne inventasti di totalmente nuovi.”
“Piú o meno. Ma all’inizio feci anch’io come loro: presi spunto dalle storie che avevo sentito raccontare nell’infanzia.”
“Quali storie?”
“Quelle delle vecchie filandaie di Odense. Devi sapere che vicino alla fabbrica della birra c’era un locale in cui si davano convegno le vecchie bisognose, che vi andavano a filare. Ben presto divenni il loro beniamino, perché avevo una grande parlantina. Mi dicevano che ero un bambino troppo intelligente per poter vivere a lungo, e ricordo che questo mi lusingava oltremisura.”
“Di che cosa parlavi loro?”
“Del corpo umano, per esempio. Avevo sentito nominare i polmoni, il cuore e i visceri, e tanto mi bastava per improvvisare delle conferenze. Tracciavo col gesso sulla porta una serie di scarabocchi rappresentanti gli intestini e illustravo loro il cuore e i reni, e la cosa non mancava mai di suscitare una profonda impressione. Le vecchie, poi, contraccambiavano la mia eloquenza con storie che mi aprivano davanti un mondo ricco come quello delle ‘Mille e una notte’. Le prime fiabe che scrissi da adulto partirono proprio dai loro racconti, poi, a poco a poco, presi a idearne di completamente nuove, benché mescolandovi qualche frammento di vita vissuta.”
“In che senso?”
“Nel senso che la fantasia di uno scrittore si nutre sempre, inevitabilmente, di quello che egli ha visto, udito o letto da qualche parte, anche se non ne ricorda di preciso il luogo o il momento. Solo Dio può creare dal nulla. L’uomo, al massimo, può ri-creare, combinare.”
“Quali elementi della tua vita inseristi nelle tue storie?”
“La casa della mia infanzia, per esempio. Essa consisteva in un’unica stanza, quasi interamente occupata dal deschetto da calzolaio del mio babbo, dal letto e dalla branda ribaltabile in cui dormivo io. Attraverso una scala si poteva salire sul tetto, dove, tra la grondaia e la casa dei vicini, era posta una grande cassetta di terra, il solo giardino di mia madre, che ci coltivava i suoi ortaggi. Ebbene, proprio un giardino simile fiorisce nella mia fiaba ‘La regina della neve’…”
“Quella dei due amici Kay e Gerda? E del diavolo che inventa quello specchio terribile?”
“Appunto.”
“E l’idea del diavolo di dove la prendesti?”
“Non avevo che l’imbarazzo della scelta. Ne avevo sentito parlare in abbondanza per tutta la fanciullezza. Ricordo che un giorno d’autunno la mamma mi portò con sé in una gita al suo paese natio, Bogense, nella tenuta di una signora presso i cui genitori un tempo era stata a servizio. La padrona aveva detto che saremmo potuti andare a trovarla quando avessimo voluto, e quella prospettiva mi aveva rallegrato per anni. Adesso si realizzava.”
“E come andaste a Bogense?”
“A piedi, naturalmente. Ci mettemmo due giorni interi, ma il luogo, poi, si rivelò piacevolissimo. La campagna mi fece una tale impressione che desiderai fermarmici per sempre. Era giusto la stagione del luppolo; mia madre e io sedevamo nel granaio con parecchia altra gente intorno a un grande recipiente, e aiutavamo a selezionare i coni. Si raccontavano storie mentre si era seduti al lavoro, e ognuno riferiva quali meravigliose cose avesse visto o provato. Tutti conoscevano perfettamente il diavolo dal piede equino, gli spettri e i presagi. Un pomeriggio sentii un vecchio asserire che Dio sapeva ogni cosa, passata e futura. Quell’idea mi occupò per intero la mente, e verso sera mi allontanai dal cortile tutto solo, per andare verso un grosso stagno profondo. Mi avventurai su alcuni massi che si spingevano proprio in mezzo all’acqua e mi dissi: ‘Di sicuro Dio avrà già stabilito da un pezzo fino a che età io debba vivere, ma se adesso mi getto in acqua e annego, allora le cose da Lui predisposte non andranno piú secondo la sua volontà!’. E di colpo mi sentii assolutamente risoluto ad annegarmi.”
“Lo facesti veramente?”
“No.”
“Perché?”
“Perché subito dopo un nuovo pensiero mi attanagliò la mente.”
“Quale pensiero?”
“Che fosse stato il diavolo a indurmi in tentazione, per potersi impadronire della mia anima. Emisi un forte grido e, fuggendo via dal luogo come se fossi inseguito, corsi a rifugiarmi in lacrime tra le braccia di mia madre.”
“E lei che cosa ti disse?”
“Né lei, né alcun altro, riuscí a cavarmi di bocca una sola parola su quanto mi aveva sconvolto. ‘Avrà sicuramente visto un fantasma’, osservò una delle donne; e alla fine poco mancò che non ci credessi anch’io.”