IO SONO LEGGENDA

di Danilo Arona

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A pochi chilometri da Bassavilla, in un collinare paese che si chiama San Salvatore Monferrato, andando a grattare sotto la proverbiale indifferenza piemontese ci s’imbatte in un macabro mistero di provincia che, di sicuro, non sarebbe spiaciuto a Edgar Poe. E’ la storia di Paolo Provera, classe 1850, che progettò e realizzò nell’ultima parte della sua vita un clamoroso “monumento a sé stesso”, una spettacolare cappella funeraria piena in ogni suo dove di lapidi, poesie incise su pietra e diversi busti raffiguranti amici e parenti “ospitati in loco”
A tutti pare ancora incredibile, ma il Provera seppe predire e programmare la sua morte in modo da farsi seppellire seduto su una grande sedia di cemento: una posizione francamente anomala, soprattutto per un morto, a indizio di una ferrea volontà che si spinse ad attendere la fine, prevista con assoluta precisione, il busto circondato da una robusta catena metallica in modo che — una volta privo di vita — il corpo non avesse a cadere in avanti, andando a vanificare il progetto rimuginato per anni. .

L’interno dell’edicola è pieno di incisioni di questo tenore: “Creai quest’opera e gran lavoro mi costa, ma mi rallegro molto nel pensiero che servirà a eterna sosta”, oppure, “Ti vidi alfin, o sepolcro mio. Or che tu sei il lavoro a me più caro, se chiedessi ancor tregua a Dio, mi potrebbe tacciare per un avaro”, e ancora, “L’umile artista, il sottoscritto stesso, che creò questa tomba non comune, si raccomanda a chi sarà in possesso d’averla a tenere ben immune”.
Personaggio curioso, vero? Di più, a quanto si evince dalla sua biografia. Nato nel 1850, da giovane ci provò come mastellaio e bottaio, ma la sua attività prevalente fu quella dell’oste, lavoro che svolse sino a quando non decise di ritirarsi a riposo. Dai dintorni a Bassavilla (che allora senza dubbio si chiamava Alessandria) si trasferì a Torino, dopo aver contratto matrimonio con tal Angela Teresa Porzio, e acquistò un’osteria, impresa che si dimostrò economicamente proficua. Ritornò a San Salvatore nel primo decennio del secolo scorso, dove seppe trascorrere una vecchiaia tranquilla e agiata. Fu uomo ingegnoso, attivo e “fuori dal gregge” per la sua originalità. Lo testimoniano il suo soprannome, ancora oggi leggenda (“Tanta sà”, ovvero “tanto sale”, alludendo alla sua intelligenza), la sua casa ricca all’epoca di scritte e decorazioni, le sue svariate “fidanzate” e l’edicola funeraria di cui sopra.
“La sua casa era piena in ogni centimetro quadrato di poesie scritte sui muri”, dichiarò qualche anno fa Attilio Benzi, “di decorazioni e di congegni che non si capiva cosa fossero. Una volta costruì un uccello di legno, un’aquila con le ali snodate che mise in terrazza. Secondo lui, quando tirava il vento, il battito delle ali doveva mettere in moto una piccola pompa per tirare su l’acqua dal pozzo. Mi pare però che la storia non abbia mai funzionato. Quando Paolo morì, io ero a militare, ma non dimentico tutti i preparativi che aveva messo in atto negli anni precedenti per sistemare la sua tomba”.
“Era ingegnoso, ma di certo un po’ strano”, disse Giulia Demartini. “Un giorno chiamò noi vicini nel laboratorio che aveva costruito al piano terreno della sua villetta per farci vedere la sua opera. Vedemmo una specie di massiccia poltrona di cemento e lui ci disse: Con quella andrò al camposanto!, mostrandoci anche, sedendosi dentro a quel cadregone e mettendosi una catena attorno al busto per non cadere, come sarebbe morto. Noi non gli credemmo, ma invece era tutto vero”.
Paolo dedicò infatti gli ultimi anni della sua vita con ostinazione maniacale alla costruzione del suo sepolcro, realizzato in materiali poveri (cemento, calce e ferro battuto) e adorno di busti di vari parenti, lapidi e poesie. Il tutto ruotava attorno a quello strano chiodo fisso, l’essere inumato da seduto. L’uomo fece persino una prova generale della sua morte e il suo sarcofago, realizzato in cemento perciò quanto mai ingombrante e pesante, venne adattato per essere trasportato con due stanghe, come una portantina. Ma, siccome Provera non poteva essere matematicamente sicuro che il suo desiderio sarebbe stato esaudito a meno di non farsi trovare già morto e seduto nella cassa da lui appositamente realizzata (pronto insomma per essere tumulato), il 12 aprile 1930 accese un braciere di carbone e si sistemò dentro la sua costruzione. Si assicurò alla catena posta di traverso e attese così la fine. Tutto avvenne come previsto e il 14 aprile 1930 si prese atto dell’accaduto, ovvero che Paolo Provera era indubitabilmente defunto.
All’alba del giorno dopo l’insolita bara fu caricata sopra un carro trainato da una coppia di buoi in direzione del cimitero e sistemata al centro della cappella. In piedi.
Questa la storia. Ovvio che qualche anno fa, quando ne venni a sapere, andai a visitare la tomba. A me, Van Helsing di provincia, un tipo che s’incatena in piedi all’interno del proprio sarcofago funerario ricordava non poco diverse leggende dell’Europa dell’Est, dove quelli che si credevano vampiri venivano assicurati alla terra e alla cassa da morto con un cospicuo supplemento di catene. Appunto, la Transilvania o le “esequie premature” di Poe, qui, nella fosca e “normale” Bassavilla. E me ne stavo lì, tra lo stupito e il divertito, ad ammirare busti barbuti e le tante iscrizioni, quando scorsi con la coda dell’occhio, in un angolo buio, un tipo magro ed esangue, spettinato come Enrico Ghezzi, pure lui fuori sincrono, tenuta dark, occhiaie nere e denti bianchissimi.
Scherzo? Per niente. Con questo tizio, per quel che può significare, ci ho perfino fatto amicizia. E di lui vi parlerò in dettaglio in altra occasione, anticipandovi però che trattasi di un “vampiroide”, un particolare genere di emarginato che ama vivere solo di notte, schivando le folle e nutrendosi di carne quasi cruda. E si trovava lì, davanti al monumento funebre di Provera, convinto che lui fosse “di famiglia” e che non volesse proprio “tornare”, una volta morto.
Sì, capisco, forse sono dotato anche di una bella fantasia (anche se poi non è un gran dono). Ma sette giorni fa, qualcuno lo avrà pur letto sui giornali, a trecento metri da casa mia, un tipo è stato sgozzato, incaprettato e poi gettato in un pozzo. L’assassino, un giovane disturbato, ha confessato di averlo fatto perché “quello era un vampiro e la Pasqua si stava avvicinando e lui avrebbe fatto dell’altro male”.
La follia convive in mezzo a noi, ne abbiamo già discusso. Ma convivono anche le leggende e i miti come termini di raffronto, diconsi “deliranti”, con il quotidiano ancor più folle. E, finché le leggende sopravvivono, non ce la sentiamo di escludere altre possibilità.
Vampiri? Io ne conosco un sacco.