caroloates.jpgJoyce Carol Oates è nata nel 1938. Insegna a Princeton, e dirige la prestigiosissima Ontario Review. E’ da anni, insieme a Roth, la candidata Usa al Nobel per la letteratura.

Perché non vieni a vivere con me,
è tempo ormai

di Joyce Carol Oates

Il secondo giorno, era un mattino limpido e ventoso di marzo, vidi mia nonna che mi fissava: quei suoi occhi scavati, quella pelle bianchissima, una donna giovanile con i capelli scuri scuri come non me la ricordavo, lei che era morta mentre stavo al college, tanti anni prima, nel 1966. Poi vidi — chiaro che fu praticamente nello stesso istante — vidi che il volto era il mio, i miei occhi in quel volto che non fluttuava in uno specchio ma su una superficie metallica, a denti scoperti in un sorriso attonito; e alla vista del mio volto che non era il mio volto risi, credo che il suono sia stato quello.
Se hai problemi di insonnia, ti racconti che esistono profonde verità rivelate di notte soltanto agli insonni, come quei minerali fosforescenti che al buio appaiono venati e luccicanti, ma di giorno sono ruvidi e insulsi, e devi esaminarli, quei minerali, in assenza di luce per scoprirne la bellezza: così dici a te stessa.

Forse perché faticavo tanto a dormire quando avevo dodici, tredici anni, nessuno voleva definire il mio problema “insonnia”, una parola troppo clinica, troppo adulta, e comunque dicevano: “Se ti sforzi dormirai”; ma poi li sentivo mormorare: “Vuole solo attenzione… sai com’è fatta”, e io mi offendevo e mi arrabbiavo, ma mi sentivo anche tutta speranzosa, con la voglia di chiedere: “Perché, come sono fatta, siete voi quelli che me lo possono dire?”.
In realtà, anche la nonna aveva problemi d’insonnia — “soffriva di insonnia” era la severa espressione — ma nessuno stabilì fra noi un rapporto di causa ed effetto. La nostra famiglia era fatta così: temevano che una debolezza trovasse giustificazione nell’altra, che le cose sfuggissero al riserbo e al controllo.
In realtà, avevo avuto difficoltà a dormire fin dalla prima infanzia, ma non vi avevo trovato nulla di male. Non era per il gusto del segreto, e neppure per il desiderio di far contenti i miei genitori che fingevo di dormire: pensavo solamente che si dovesse fare così, pensavo che quando la mamma mi metteva a letto dovevo chiudere gli occhi, così lei se ne andava: era il modo per congedarla, ma subito dopo, rimasta sola, i miei occhi si riaprivano senza tracce di sonno. A volte era giorno, a volte era notte. Spesso la notte vedevo, distinguevo le sagome offuscate degli oggetti, oggetti familiari che al buio avevano perso il loro nome, mentre, sdraiata immobile senza che nessuno mi guardasse, mi sembrava di non avere nome e che il mio corpo fosse indefinito e senza forma. Il punto essenziale era giacere immobile, respirando appena, finché in ultimo — dopo minuti, ma anche dopo ore, se si sentivano dei rumori in casa o fuori, per strada (per quasi tutta la mia infanzia a Hammond abbiamo abitato in una via di molto traffico) — un lago d’acqua scura e calda cominciava pian piano a sciabordarmi sui piedi finché non mi copriva le gambe, il petto, la faccia… quello che gli adulti chiamavano “sonno”, l’esperienza più elusiva, più misteriosa e strana, una nebulosa trasparenza di sfumature e trame cangianti che circondavano tesi isolotti di veglia, cosicché nel corso di una notte dormivo, mi destavo, e dormivo e mi ridestavo dieci volte mentre l’acqua mi sciabordava in viso e si ritraeva, e questo era del tutto naturale e del tutto desiderabile, perché quando dormivo un’altra specie di sonno, greve, profondo, intinto in una sostanza né acquea né trasparente, ma sudicia, limacciosa e senza luce, allorché mi tuffavo in quel sonno e riuscivo a risvegliarmi sudata e tremante e con il cuore che batteva forte e la testa pulsante, quasi che il mio cervello intrappolato nel cranio (ma allora “cervello” e “cranio” non erano concetti a me noti) avesse corso forsennatamente come una piccola macchina andata fuori giri, la sensazione era di totale disperazione e di uno sfinimento così profondo da somigliare alla morte: all’assoluto non-essere, all’oblio; e non sapevo, né lo so ora dopo decenni, quale sonno sia preferibile, quale sonno sia normale, in che modo si venga definiti dal sonno, da dove in effetti il “sonno” si origini.
Qualche anno dopo, ormai adolescente — dormivo in una stanza poco lontana da quella dei miei genitori — spesso, nelle notti insonni non facevo che accendere la lampada e leggere, leggevo fino all’alba, fino al giorno e alla resurrezione dell’andirivieni diurno in uno stato di concentrazione assoluta; o a volte accendevo la radio sul comodino, ora naturalmente badando a tenere il volume basso, basso e segreto, ascoltando incantata lontane stazioni, di Pittsburgh, di Toronto, di Cleveland; c’era una stazione folk che trasmetteva da Cleveland, musica country che di giorno non avrei mai ascoltato. Una dopo l’altra acquisii un’intima conoscenza delle voci dei conduttori sul continuum del quadrante luminoso, mi sembrava impossibile che i loro proprietari non conoscessero me. Ma a volte la mia stanza mi soffocava, sentivo una necessità di aria fresca e mi vestivo in tutta fretta infilandomi qualcosa sopra il pigiama e anche con la pioggia o con il freddo fuggivo uscendo dalla porta di cucina, così silenziosa e furtiva che mai nessuno mi sentì, nessuno di loro sentì ce la farò; perché lo voglio fare, assopiti nel loro sonno pesante uguale al sonno dei molluschi, senz’occhi. E fuori, nella notte: la sorpresa della via mutata dall’ora tarda, dal vuoto, dal silenzio; camminavo fino in fondo al nostro vialetto guardando, ascoltando, con il cuore in tumulto. Allora è così… che è veramente! Le solite cose apparivano strane, i marciapiedi, i lampioni, le case dei vicini. Ma questo dato non aveva nessuna coscienza della propria realtà se non attraverso di me.
Perché questo è stato uno dei principi della mia vita.
E se qua e là lungo l’isolato una finestra era illuminata dall’interno (un altro insonne?), o un’auto solitaria passava per la via preceduta dalla luce dei fari; o se sentivo un treno in lontananza o un aereo lassù solcava il cielo con le luci brillanti e intermittenti, quale felicità mi riempiva i polmoni, che gratitudine, che convinzione: in quel momento ero completamente sola, e invisibile, che è come essere soli.
“Passa quando vuoi, gioia, non c’è bisogno che mi avverta” ripeteva spesso mia nonna. “Passa dopo la scuola, ti prego, in qualunque momento!” Io cercavo di ignorare la supplica nella sua voce, cercavo di non scorgere il lieve affanno nei suoi occhi, e la speranza.
La nonna era una “vedova”: suo marito (che non era mio nonno) era morto per un tumore al fegato quando avevo cinque anni.
La nonna aveva due occhi bellissimi. Profondi, scuri, intelligenti, vigili. E i suoi capelli erano di un dolce grigio-argento, non ruvidi come quelli degli altri, ma sottili, di seta.
La mamma diceva: “A sentire la nonna, sei un angelo”. Parlava in tono divertito, ma — lo capivo — anche un po’ accusatorio. Perché sì, io ero la nipote prediletta, anzi la persona di tutta la famiglia cui la nonna voleva più bene, e mi crogiolavo nel suo amore come al calore di un sole privato. La nonna mi voleva un bene illimitato e acritico, e questo irritava i miei genitori, coscienti che un bene così forte mi rendeva impervia al loro amore più ricco di sfumature, anzi: non solo impervia, ma indifferente alla minaccia che me lo negassero… cioè all’unico vero potere che i genitori esercitano sui figli. Oppure no?
Andavamo spesso a trovare la nonna, soprattutto da quando era rimasta sola. Lei veniva da noi. Di domenica, per feste e compleanni. Un paio di volte alla settimana andavo io da lei attraversando il fiume in bicicletta, o passavo finita la scuola; la nonna mi invitava a portare le mie amiche, ma ero troppo timida. Non mi fermavo mai molto, la sua felicità di vedermi mi metteva a disagio. Mi preparava sempre i miei dolci preferiti, il porridge con la crema e lo zucchero di canna, la crostata di mele, la torta al cioccolato e nocciole, le caramelle fondenti, i pasticcini alla crema di limone… e io mi sedevo e mangiavo e lei mi guardava: e mangiando avevo fame, la fame era nella mia bocca. Anche adesso al ricordo di quei cibi mi ritorna la fame come un impulso improvviso, una pena. Nella bocca.
A casa la mamma mi chiedeva: “Ti sei rovinata l’appetito un’altra volta?”.
Il fiume che ci separava era il Cassadaga, che scorreva da est a ovest verso il lago Ontario attraversando la cittadina di Hammond, nello stato di New York.
Dopo la mia partenza, quando avevo diciotto anni, sono tornata a Hammond solo in visita. Adesso sono tutti morti e non torno più.
Il ponte che ci univa era quello di Ferry Street, un ponte che attraversammo centinaia di volte. La nonna viveva a sud del fiume (sei isolati a sud, due a ovest), noi a nord (sei isolati, e uno e mezzo a est), a circa cinque chilometri di distanza. Il ponte di Ferry Street, costruito nel 1919, era uno di quei ponti da incubo, lunghi e stretti e appuntiti — la mia infanzia è piena di ponti del genere — che correva dieci metri sopra il Cassadaga, con campate alte, ripide rampe su entrambi i lati, sei piloni di cemento, reticoli di ferro arrugginito e decorazioni neoclassiche in stile Chicago Commercial, che era poi lo stile architettonico di Hammond in generale.
Il ponte di Ferry Street. A volte, con il vento forte, lo sentivi ondeggiare, quando lo attraversavamo in auto con papà lui scherzava sul tremito delle assi, e da sotto quel tremito ci arrivava un rumore più cupo e più sinistro, la vibrazione ronzante del fiume, un mormorio, una carezza segreta alle piante dei piedi, alle natiche e fra le gambe, pertanto era un sollievo indescrivibile quando la macchina aveva superato indenne il ponte e scendeva la rampa verso riva. Il ponte di Ferry Street era talmente stretto che ci passavano a malapena due auto, ma soltanto una volta mio padre fu costretto a fermarsi, circa a tre quarti di strada: un camion carico di ghiaia puntava verso di noi e l’autista non dava alcun segno di voler rallentare, così mio padre frenò, inserì precipitosamente la retromarcia e retrocedette rosso in viso, dopo di che il ponte di Ferry Street non fece mai più ridere né lui né i suoi passeggeri.
L’altro giorno, quel giorno di sole e vento quando ho visto il volto della nonna nello specchio, o meglio in quella superficie metallica nel centro cittadino, voglio dire, il volto che sembrava della nonna ma non lo era, ho cominciato a pensare al ponte di Ferry Street e da allora non ho più dormito bene, con il ponte nell’occhio della mente, come vi capita quando avete l’insonnia, e le immagini che dovrebbero stare dentro ai sogni vengono liberate e scorrazzano nel giorno come fatali emboli nel sangue. Non sapevo come avessi memorizzato quel ponte, e avevo dimenticato il perché.
Nel periodo a cui ripenso avevo dodici o tredici anni, so che avevo quell’età perché allora il ponte di Ferry Street era chiuso per riparazioni ed era su quel ponte di Ferry Street che passavo per andare a trovare la nonna. Non ricordo se fu una decisione consapevole o se mi incamminai e basta, senza sapere dove andavo e perché. Erano le tre del mattino. Nessuno sapeva dove fossi. Oltre le transenne e le insegne deviazione — ponte interrotto, la luna era così accesa che mi illuminava la via come il viso di un folle.
Tante volte avevo osservato trepidante alcuni ragazzi del quartiere camminare con infinita lentezza fra le travi d’acciaio del ponte scheletrico, le braccia aperte per tenersi in equilibrio: perciò sapevo che era fattibile e neanche troppo rischioso, sapevo di potercela fare se solo avevo coraggio, e mi sembrava di averne a sufficienza, e adesso era il momento di dimostrarlo. Sotto di me il fiume scorreva un po’ più alto del solito, era ottobre, era scesa parecchia pioggia, ma quella sera il cielo era limpido, le stelle come punture di ghiaccio, e quella luna splendida e lucente che mi rischiarava la via per cui pensai ce la farò già issandomi su quella che sarebbe stata la nuova superficie del ponte allorché finalmente l’avessero ultimato: fatta non più di assi ma, modernamente, di una specie di struttura di ferro non ancora posata del tutto. Ma le travi d’acciaio erano larghe una trentina di centimetri e si intrecciavano, quattro per la larghezza del fiume, e (le contavo attraversando, non dimenticherò mai quella conta) quattordici più strette poste perpendicolarmente alle prime; e circa un metro sotto queste travi c’era un intrico di cavi che volendo si sarebbe potuto definire una rete, una rete di salvataggio, in effetti non c’era pericolo, Ce la farò perché voglio farlo, perché non c’è nessuno a fermarmi.
E sull’altra sponda, la casa della nonna. E anche se le imposte erano chiuse, anche se non potevo fare altro che osservarla in silenzio e poi tornare a casa senza mai raccontare a nessuno quello che avevo fatto, tuttavia avrei dimostrato qualcosa Perché non c’è nessuno a fermarmi, che per me è stata una delle chiavi principali della vita. Rinnegare questa chiave significherebbe rinnegare tutta la mia vita.
Tremante di emozione, mi arrampicai su una delle travi. Ma com’era fredda!… Ed ero uscita senza guanti.
E che chiasso quel fiume sotto di me, rombava come un applauso ironico; e puzzava, anche, di metallo e salmastro. Sapevo che non dovevo guardar giù, e mi tenni ben salda mentre si alzava un vento pungente che mi fece lacrimare, e pensavo Non puoi tornare indietro: mai, ma nel frattempo mi ripetevo che la trave era sicura, se fossi stata prudente, non li avevo visti i ragazzi attraversare senza scivolare? Non lo attraversavano anche i muratori, un sacco di volte al giorno? Decisi tuttavia di non alzarmi in piedi — avevo paura — ma di restare accovacciata reggendomi al bordo della trave con entrambe le mani e così, goffamente, avanzando un centimetro alla volta, rattrappita, prima il piede destro e poi il sinistro, e poi il destro e ancora il sinistro: superando la prima trave perpendicolare, poi la seconda e la terza e la quarta: così con questo sistema goffo e faticoso mi costrinsi a procedere fino a quando i muscoli delle cosce non mi fecero tanto male che dovetti fermarmi commettendo l’errore, che subito intesi come tale, di guardare in basso; vedendo il fiume dieci metri più sotto; quel suo scorrere così rapido e possente, da sembrare infuriato, e le spire dei mulinelli d’acqua screziata di schiuma, minacciosa, che passava esattamente a perpendicolo rispetto alla direzione in cui mi muovevo.
“Oh no. Oh no. Oh no.”
Un’onda di terrore, fredda e tagliente, mi guizzò dentro, quasi letteralmente nelle viscere, trapassandomi in mezzo alle gambe, salendo dal fiume stesso, e non potei più muovermi, rimasi rannicchiata sulla trave incapace di fare una mossa, tutta la forza era stata risucchiata dai miei muscoli e io, paralizzata, sapevo che Stai per morire; certamente, morire benché con un’altra parte della mia mente (nella mia mente c’è sempre quest’altra parte) riflettessi con logica quasi didascalica che la trave era sicura, era abbastanza ampia, e abbastanza piana, e né umida, né gelata né viscida, ma sì, era sicura senz’altro: se per esempio fosse stato un pezzo del nostro cortile, se per esempio mio padre avesse adagiato un’asse piana sull’erba, un’asse larga non più della metà della trave, io, Claire, non sarei forse riuscita a camminarvi sopra senza il minimo tremore, senza paura? con sicurezza? con grazia, persino? persino a occhi bendati? senza esitare neppure un momento? senza sbattere una palpebra, senza la minima palpitazione? Sai bene che non morirai: non fare la sciocca ma passarono almeno cinque minuti prima che mi obbligassi a ripartire, a spostare in avanti la gamba intorpidita, il piede indolenzito, mi costrinsi anche a guardare in alto fissando risolutamente gli occhi sulla riva opposta, o quella che con un atto di fede decisi che era la riva opposta, un caos di cavalletti e barili e attrezzature ora soltanto a chiazze illuminati dalla luna.
Ma ci arrivai, arrivai dove volevo, senza ricordarmi esattamente il perché neanche un momento.
Ecco, il peggio è passato: per adesso.
La casa della nonna era quello che si chiama un bungalow, semplice stucco, un piano, costruita a due passi dalla strada, mi sembrò più vicina al fiume di quanto mi fossi aspettata, forse stavo correndo per la disperata premura di arrivarci, sentivo il furibondo scorrere dell’acqua che risuonava come cento voci mormoranti e le strade mi stupirono per la loro solitudine — tanti spazi non edificati, fosche trasparenze di nulla dove un tempo c’erano degli edifici — e un autobus bene illuminato passò in silenzio, quasi vuoto, solo il conducente e un unico passeggero (maschio) seduti eretti e immobili come manichini, e io presa dal panico mi ritrassi nell’ombra perché non mi vedessero; forse mi avrebbero fatta arrestare; una ragazzina della mia età per la strada a quell’ora, sola, con gli occhi pesti e atterriti, la faccia pallida, la bocca colpevole, giacca e pantaloni di velluto sopra il pigiama, scarmigliata come una fuggitiva. Ma l’autobus passò, svoltò a un angolo e scomparve. Ed ecco lì la casa della nonna, non buia come mi aspettavo, ma illuminata, e guardando dal marciapiede vidi la nonna, o una figura che scambiai per la nonna, ma cosa ci faceva alzata a un’ora simile, che cosa straordinaria che fosse sveglia come per aspettarmi, e allora ricordai — con quanta immediatezza mi nascevano questi pensieri, vaghi come minuscole bollicine che, scoppiando, sprigionavano ricchezze che avrebbero richiesto un lungo tempo per essere raccontate benché in realtà durassero poco più di un istante! — ricordai che avevo sentito la famiglia parlare dei comportamenti talvolta strani della nonna, strani e preoccupanti in una donna della sua età, anzi, di qualunque età: il problema era l’insonnia, a meno che la sua insonnia non fosse la causa bensì la conseguenza di un malanno dell’anima; così era stato riferito a mio padre, suo figlio, che era stata vista camminare di notte in zone pericolose per una donna sola, l’avevano notata allo spettacolo di mezzanotte del cinema nel centro di Hammond, e anche quando viveva suo marito (che lavorava al lago su di un cargo e spesso era assente) lei bazzicava le bettole locali senza bere molto, ma pur sempre bevendo, e comportamenti simili avrebbero potuto metterla nei pasticci, o comunque in famiglia lo temevano, e oltretutto la nonna fumava, fumava per strada — che è “da donna equivoca”, diceva mia madre — anche mia madre fumava ma mai per strada; la famiglia amava raccontare all’infinito la storia di un cugino di mio padre venuto a Hammond in corriera, che arrivò alla stazione verso le sei del mattino per trovarvi, lì nella sala d’aspetto, mia nonna con la sua vecchia pelliccia di volpe, seduta con un libro in grembo e una sigaretta in mano, lì placidamente seduta senza badare ai due o tre presenti, dall’inequivocabile aspetto di relitti umani, seduta a leggersi il libro (la nonna leggeva sempre: poesie, biografie di grandi uomini come Lincoln, Mozart, Giulio Cesare, Gesù di Nazareth) e il cugino di mio padre entrò, la vide e disse: “Zia Tina, ma che diavolo ci fai qua?”. E la nonna alzò gli occhi serafica e disse: “Perché no?… È una sala d’aspetto, non ti pare?”.
Un’altra stranezza della nonna — da quello che potevo giudicare non aveva niente a che fare con l’insonnia, a meno che tutte le nostre stravaganze, come avviene secondo gli altri, non siano morbosamente collegate — fu la sua decisione di cremare il corpo del marito; non sepolto in un cimitero, ma cremato: il che significa ridotto in pura cenere; il che significa l’annichilimento; e sebbene la cremazione fosse evidentemente stato un desiderio di suo marito, alla famiglia era parso che la nonna l’avesse esaudito con un eccesso di sollecitudine, così immediatamente dopo la morte del marito che nessuno ebbe la possibilità di dissuaderla. “Che cosa atroce” commentò mia madre con un brivido “da fare al proprio marito!”
Pensavo a queste cose adesso, guardando dalla finestra la figura di un uomo, un uomo che parlava con la nonna in cucina, mi sembrò quasi che il mio nonno acquisito non fosse ancora morto, e quindi non ancora cremato, e che si potesse risolvere la controversia almeno in parte, ma dovevo già avere bussato alla porta perché mi trovai davanti la nonna che apriva; dapprima mi guardò con l’aria di non riconoscermi, poi rise e disse: “Cosa ci fai tu qui?” e tentai di spiegarmi ma non ci riuscii; le parole non uscirono; battevo i denti per il freddo e lo spavento e le parole non uscirono ma la nonna mi fece entrare, era più alta di come me la ricordavo e più giovane, i capelli scuri e ondulati le ricadevano sulle spalle e rideva accompagnandomi in cucina dove ci aspettava un uomo, uno sconosciuto. “Harry, ti presento mia nipote Claire” disse la nonna, e l’uomo fece un passo avanti guardandomi con interesse e tuttavia parlando di me come se non fossi stata presente. “È tua nipote?” “Sì.” “Non sapevo che avessi una nipote.” “C’è un mucchio di cose che non sai.”
E la nonna rise a tutti e due, a noi due che ci guardavamo perplessi e reciprocamente dubbiosi. Ridendo, rovesciò la testa all’indietro come una ragazza, o come un uomo, e scoprì i denti bianchi e forti.
Poi mi fecero sedere a tavola, al mio solito posto, la nonna andò ai fornelli per prepararmi qualcosa e io restai lì in silenzio, senza più timore, ma nemmeno del tutto a mio agio anche se sapevo che ormai ero al sicuro, ora la nonna si sarebbe presa cura di me, non avrebbe potuto succedermi nulla, vidi che la cucina a me familiare era stata modificata, era molto ben illuminata, con una luce quasi accecante, ma negli angoli restavano ombre profonde, la parete posteriore dove un tempo c’era il lavello si dissolveva in quello che avrebbe dovuto essere il cortile ma con la coda dell’occhio vidi il cortile dove c’erano i fiori e le aiuole delle verdure, alla nonna piaceva tanto lavorare in cortile, in estate dovunque andasse in visita portava fiori e ortaggi, i suoi fiori più belli erano le peonie, peonie cremisi, grosse e magnifiche, e il pensiero delle peonie si confondeva con l’aroma del porridge che la nonna mescolava sul fornello della cucina economica, il porridge era il primo cibo della mia infanzia; o almeno il primo che ricordavo; ma la nonna lo preparava a modo suo, aveva una maniera tutta speciale di mescolare lo zucchero di canna, la crema, il cucchiaio di miele scuro, sicché al solo pensiero mi sentii nella bocca un’acquolina torrenziale, quasi dolorosa, non potei trattenere la saliva ed ero imbarazzata perché una goccia mi colava sul mento e pareva che non me la asciugassi e Harry, l’amico della nonna, mi guardava; ma alla fine riuscii ad asciugarmi con le dita: e Harry sorrise.
Poi formulai il pensiero, non un pensiero nuovo, mi girava per la testa già da anni, ma ora si definì con forza insolita, come la saliva che mi riempiva la bocca, che alla morte dei miei genitori sarei venuta a vivere con la nonna… naturalmente: sarei venuta a stare da lei; e la nonna ai fornelli che mescolava il porridge in un tegame dovette sentire i miei pensieri perché disse: “… Claire… perché non vieni a vivere con me, è tempo ormai, non ti sembra?” e io risposi: “Certo” ma credo che lei non avesse sentito perché mi ripeté la domanda voltandosi verso di me con un sorriso, gli occhi scintillanti e la bocca così fantasticamente rossa, e sulle guance due delicate nuvolette di cipria e allora il mio cuore percepì tutta la sua bellezza, era giovane come mia madre o forse più, e lei rise dicendo: “… Claire… perché non vieni a vivere con me, è tempo ormai, non ti sembra?” e ripetei anch’io: “Ma certo, nonna” annuendo e sbattendo le palpebre perché avevo le lacrime agli occhi, lacrime di sconfinata felicità e conforto, “… oh, nonna, ma sicuro”.
Harry, l’amico della nonna, disse che faceva il radiotelegrafista su una nave, o che l’aveva fatto, non portava uniforme e non dimostrava ai miei occhi nessuna età precisa… capelli a spazzola dai riflessi argentati, spalle e braccia muscolose, ma aveva forse una voce familiare? Forse l’avevo ascoltato alla radio? La nonna gli stava chiedendo di parlarmi dell’universo, pronunciò chiaramente quelle strane parole: “Perché non parli a Claire dell’universo?” e Harry mi guardava accigliato e disse: “E cosa dovrei dire a Claire dell’universo?” e la nonna rispose ridendo: “Be’… qualsiasi cosa!” e Harry si strinse nelle spalle: “Diamine… non saprei”, poi alzò la voce e mi guardò con aria comprensiva: “… l’universo risale a molto tempo fa, credo. Dieci miliardi di anni? Venti miliardi? Che differenza fa? Dicono che sia iniziato con un’esplosione e in un secondo, be’, anzi, una frazione di secondo, abbia allentato la sua pressione, e ancora adesso si stia dilatando, espandendo” allargò le mani con un gesto teatrale “e credo che sia in gran parte costituito da vuoto, qualunque cosa sia questo “vuoto”. Si sta ancora espandendo, tutti i pezzi si allontanano, esistono un miliardo di galassie come la nostra, o forse un miliardo di miliardi di galassie come la nostra, ma non preoccuparti, durerà in eterno anche dopo la nostra morte…” ma a questo punto la nonna, accorgendosi del mio turbamento, si voltò di scatto e disse: “Caro, non dire questo alla bambina, non spaventare la povera Claire piccolina con questo”.
“Ma mi hai chiesto di spiegarle…”
“Oh, finiscila.”
La nonna corse ad abbracciarmi, mi fece accomodare sulla sedia come se fossi una bambina molto più piccola di quella che ero, lì seduta a tavola, e non toccassi terra con i piedi; e c’era la mia tazza speciale, la tazza che la nonna mi teneva da parte, di un giallo vivo con gli agnellini che correvano sul bordo, sì, e anche il mio speciale cucchiaio, un bellissimo cucchiaino d’argento con incisa l’iniziale C, che la nonna teneva sempre lucido perché sapessi che ero al sicuro, che nulla avrebbe potuto farmi del male, finché restavo con lei la nonna non avrebbe permesso che mi accadesse nulla. Mi versò il porridge nel piatto e intanto diceva: “… è vero che un giorno tutti dovremo morire, tesoro, ma non adesso, sai, non stanotte, sei appena venuta a trovarmi, vero tesoro? E ti fermerai forse? Forse non andrai più via? È tempo, ormai?”
Le parole è tempo risuonarono con una flebile eco.
Le risento anche adesso: è tempo; tempo.
Le braccia della nonna erano tornite ed eleganti, la sua pelle pallida e liscia e delicatamente traslucida, come un uovo in controluce, e vidi che portava molti anelli, la fede nuziale che conoscevo ma anche altri, brillanti, e le mie braccia erano così sottili vicino alle sue, le mie mani sembravano così piccole, come passerotti, e i miei polsi tanto ossuti, e mi venne da pensare, che cosa orribile, che la mia presenza nell’universo fosse definita dalla carne e dalle ossa: questo punto di accesso all’universo che ero io che ero io che ero io; e nessun altro; e tuttavia di una materialità così fragile che il minimo fuoco poteva consumarla. “Oh, nonna… ho tanta paura!” Gemevo, comprendendo che sarei stata ridotta in cenere e la nonna mi consolò, mi fece accomodare sulla sedia, mi mise fra le dita il mio bel cucchiaino e disse: “Gioia, non pensare a queste cose, mangia. La nonna lo ha preparato per te”.
Io mangiavo il porridge caldo, che era un po’ troppo caldo, ma cremoso come piaceva a me, avevo una fame da lupo, mangiavo come una lattante al seno, alla cieca, con la testa china e gli occhi semichiusi colmi di lacrime e la nonna domandava è buono? è buono? Ci aveva messo anche qualche cucchiaio di miele scuro è buono? E io annuivo in silenzio, sentivo i granelli di zucchero di canna che non si erano sciolti nel porridge, ruvidi come frammenti di vetro, e capii che erano proprio frammenti di vetro, alcuni grossi come noccioli d’uva e non volevo offendere la nonna ma avevo paura di inghiottire il vetro, perciò mangiando facevo passare i frammenti attraverso il porridge masticato e poi li dirigevo verso un lato della bocca in un angolino fra le gengive inferiori di destra e l’interno della guancia e la nonna mi guardava e chiedeva è buono? e io rispondevo: “Buonissimo” trangugiando fin quasi a soffocare, “… buonissimo”.
Poco dopo, mentre né la nonna né Harry mi guardavano, sputai i pezzetti di vetro sulla mia mano ma non lo seppi mai con sicurezza, non lo so neanche adesso: se erano vetro e non, per esempio, granelli di sabbia o frammenti di guscio d’uovo o forse proprio zucchero di canna così cristallizzato che nemmeno il porridge bollente era riuscito a scioglierlo.
Stavo uscendo da casa della nonna, era tardi, era ora di andarmene, la nonna disse: “Ma perché, non dovevi restare?” e io risposi: “No, nonna, non posso” e lei disse: “Gioia, credevo che saresti rimasta” e io: “No, nonna, non posso” e la nonna: “Ma perché?” e io dissi: “Non posso e basta” e la nonna, ridendo, ma con una punta di irritazione: “Sì, ma perché?”. Il suo amico Harry era scomparso dalla cucina, in cucina non c’era nessuno tranne la nonna e me, ma eravamo anche in strada, e il frastuono del fiume era vicino, perciò la nonna mi abbracciò l’ultima volta e mi spinse dolcemente dicendo: “Bene… buona notte Claire” e io, in tono di scusa: “Buona notte, nonna” domandandomi se non era meglio pregarla di non parlare ai miei genitori di quella visita nel cuore della notte, e lei indietreggiava, con gli occhi scuri e tristi fissi su di me come un mezzo rimprovero: “La prossima volta che vieni a trovare la nonna ti fermerai… vero? Per sempre?” e io risposi: “Sì, nonna” anche se ero molto spaventata e appena svoltato l’angolo incominciai a correre.
All’inizio feci molta fatica a trovare il ponte di Ferry Street. Però sentivo il fiume lì vicino… lo sento sempre vicino, il fiume.
Alla fine, ritrovai il ponte. Lo so che ritrovai il ponte, altrimenti come avrei fatto a tornare a casa? Quella notte?