Scusate se insistiamo con Cesare Battisti. In Francia ogni suo nuovo romanzo è un evento. In Italia anche l’editoria più coraggiosa sembra (tranne rare eccezioni: la defunta Granata Press, Derive / Approdi, un tentativo Einaudi) trovare un ostacolo insormontabile nella sua condizione di espatriato, dopo un’evasione e un processo farsesco celebrato in contumacia.
Rischia così di non essere pubblicato in Italia questo straordinario Le cargo sentimental, storia appassionante del nostro paese letta attraverso le vicende di tre generazioni di ribelli.
Ne anticipiamo alcune pagine, da cui emerge vivace tutta la qualità della prosa di Battisti: un mix esplosivo di colloquialità, di ironia, di profondità, di improvvise aperture poetiche. Leggete questo assaggio: vi accorgerete che uno dei migliori scrittori italiani vive a Parigi.
Immaginarmi mio padre più giovane di vent’anni era un gioco da bambini. Bastava guardarlo di spalle. A parte la faccia, non doveva essere cambiato granché da allora. Ogni tanto si lamentava di mal di reni, ma si riferiva senz’altro al fondoschiena. Sfiderei chiunque a non lamentarsene dopo una giornata di 15 ore nei campi. Lavorava più degli altri, con la scusa che lui era quello con la testa più vicina alla terra e che la terra è notoriamente bassa. Ma ne parlava poco.
Credo che, fisicamente parlando, avrebbe fatto anche peggio pur di mettersi all’altezza degli altri. Era mia madre che non sopportava l’idea di vederlo piegarsi in quel modo. Se almeno arrivasse questa benedetta pensione di guerra… sospirava quando la mancanza si faceva sentire di più. Glielo sentivo ripetere spesso. Per i figli qualcosa da mangiare si trova sempre… Solo da quando non c’è più mi capita di pensare alle volte che era rimasta a bocca asciutta perché non ce n’era abbastanza. Allora mi sembrava naturale che si sacrificasse per noi, ci era abituata alla fame. “Un giorno, tanto tempo prima che incontrassi tuo padre, mi confidò una volta, due stranieri vennero a bere al pozzo di casa. Al vedere un pezzo di pane rammollire nel secchio dell’acqua, uno disse all’altro: “Ehi, hai visto come sono puliti da queste parti, lavano addirittura il pane.”
A me venne da ridere. Lei invece si mise a piangere e per anni io mi chiesi il perché. Mia madre nascondeva la miseria e i dispiaceri dietro un foulard che le copriva il capo e che teneva legato sotto il mento. La sola volta, sotto l’effetto di uno spinello, in cui osai strapparglielo via, lei mi dette uno schiaffo in pubblico. Avevo già venti anni allora, e anche una pistola in tasca.
Mia madre non era tipo da lasciarsi fare, avrei dovuto saperlo. Ma allora credevo ancora che le madri nascono tutte vecchie e pazienti. Era un periodo in cui mi sentivo estraneo e forte. Sì, minato da un’inconfessabile vergogna della famiglia, ma con uno schianto di fidanzata, che sapeva e faceva un sacco di cose e che, comunque, non sarebbe mai finita sposa di un nano come mia madre. Mi viene da ridere a pensarci adesso, non avendo ancora mai visto una foto di mia madre da giovane, pensavo che la poveretta non avesse avuto scelta. Ma questa è un’altra storia. Anzi, fa parte della stessa, ma non è nell’ordine cronologico. Prima ci fu la guerra, il pane a mollo nell’acqua del pozzo, il grande piccolo Teodoro, l’amore della Resistenza e la resistenza dell’amore. Infine, l’età in cui si è invulnerabili ai pregiudizi sociali e mamma e papà restano indispensabili, checché se ne dica.
Mia madre ha sempre trattato suo marito come un uomo tutto d’un pezzo e ringraziava segretamente il cielo di averle dato figli di taglia normale. Era abilissima negli spostamenti, sia in casa che nelle rare visite parentali, per ridurre al minimo la differenza di altezza tra lei e mio padre. E non hanno mai litigato per queste cose. Si surriscaldavano, anche loro come tutti, chiaro. Ma per altro, e per raccontarlo mi ci vorrebbero tutte quelle parole che mi sono rimaste incomprensibili. Anzi, che non ho mai ascoltato perché era rumore di fondo. Niente a che fare la musica delle nostre storie. I silenzi, quelli sì che me li ricordo bene. Serate intere a respirare uniti e basta, nessuna preoccupazione per l’altro. Una pace abissale.
Mia madre era credente e pregava, mio padre faceva finta di non vederla. Pregava anche mentre toglieva il malocchio a qualche paesano che ci credeva ancora. Le veniva da sua madre la facoltà di guarire. Da viva, solo a mia nonna era dato mettere fine all’assedio dei grillotalpa all’orto del vicino; anche dolori reumatici, distorsioni, slogature e ossa erano compito suo. Adesso capisco perché in quel periodo si vedeva in giro un sacco di gente sciancata. Comunque, delle sei figlie femmine lei era stata prescelta per occuparsi degli acciacchi altrui. Gratis, naturalmente, sennò non funziona.
Le sedute si svolgevano sempre in pieno pomeriggio. Dopo la siesta, mio padre non rientrava più in casa fino a sera. Sempre, anche se non aveva niente da fare fuori. E se per disgrazia gli capitava di rientrare proprio in quel momento, gettava un’occhiata schifata al tavolo, dove ufficiavano il piattino con l’acqua benedetta, il cucchiaio d’olio e la croce, evitando di guardare il tipo con il malocchio che in quel momento si sarebbe ficcato sotto terra. Mamma non faceva una piega, troppo impegnata a rompere quel maligno occhiolino d’olio che galleggiava nel piattino con l’acqua. Le sue labbra si muovevano a una velocità vertiginosa ma non si sentiva volare una mosca. A noi di casa non ce lo buttavano mai il malocchio, a parte mia sorella quando fu in età da sposarsi. Ma in quella fase pare che sia inevitabile: una ragazza a vent’anni fa invidia a tutti. In ogni caso eravamo sottoposti al rito della cacarella. A ogni cambio di stagione o di luogo, una scatoletta a testa di magnesia San Pellegrino non ce la toglieva nessuno. Svuotava, purificava, faceva bene e basta. Inutile fare resistenza, era capace di farcela bere anche nel sonno.
A volte, seduti sotto la pergola, quando l’afa del giorno cominciava ad allentare la morsa e nei campi non c’era niente da fare, lei raccontava storie di spettri. Sulle montagne vicine, quando non c’erano ancora né tedeschi né partigiani, i morti ammazzati erano pochi, i ritorni rarissimi. E poi non a tutti era dato vederli. Mia madre, invece, non poteva fare due passi da sola senza incontrarne uno. Agli spiriti più ricorrenti aveva addirittura dato un nome. Risultato: noi bambini ci si guardava bene dal rimanere fuori la sera. Giacché il crepuscolo, lo sapevamo tutti, era il momento propizio per le anime in pena, le peggiori. Per anni, l’estenuante lotta contro il terrore del buio, giacché ogni sera toccava al più piccolo, non in altezza ma in età, andare a prendere l’acqua fresca alla pompa. Erano solo dieci metri dalla porta di casa, ma mia madre su una distanza simile era capace d’intercettare un paio di morti.
Quando era in vena di confidenze, ci coinvolgeva sempre in qualche attività domestica, come sbucciare piselli o spennare pollastri. Quasi fosse peccato utilizzare la bocca e tenere le mani in ozio. Il giorno che osai chiederle il perché di questa sua mania, rispose che la gente che parla e non fa niente non solo non ha niente da dire a nessuno ma fa anche perdere tempo agli altri. Non so se avesse ragione o no, in ogni caso, che parlasse di spettri o di mio padre, che sgranasse mais o sbucciasse patate, lo faceva con trasporto. Certe volte, nel bel mezzo di un racconto, si fermava ad asciugarsi le lacrime, poi riprendeva un po’ febbrile:
…Gli occhi di vostro padre, solo quelli vedevo. Erano di una limpidezza mai vista. Qualunque corpo li portasse, pensai quando lo vidi per la prima volta, non poteva che ritenersi fortunato. Ma in quel momento soffriva molto. La pallottola uscendo gli aveva portato via un po’ d’osso. Non v’immaginate neanche che male fa farsi strappare via un pezzetto di femore. Eppure lui non faceva una piega. Anzi, sembrava che la sua unica preoccupazione fosse quella di essersi fatto sorprendere da me con un paio di calzini spaiati.
Il mito del partigiano Teodoro perdurava così tra la polvere di mais anni ’60 e le canzonette estive provenenti dalla radio del vicino.
“La mattina presto avevamo sentito degli spari un po’ più a valle, continuava mia madre. Due o tre raffiche corte, era frequente di quei tempi. Non ci facevamo più caso ormai alle detonazioni. Invece, verso mezzogiorno, lo zio Oscar, che tornava su dal villaggio, lo trovò mezzo svenuto dietro una roccia. Nonostante la ferita, tuo padre aveva risalito quasi tutta la costa. Oscar lo riconobbe subito. C’era ben poco da sbagliarsi… Avevamo tutti sentito parlare di lui. Tedeschi e fascisti avrebbero fatto chissà che per averlo tra le mani. Restò a casa nostra il tempo di rimettersi. Al principio eravamo un po’ intimoriti: si trattava di un famoso capo partigiano e poi quelli come lui, si sa, Dio li fa piccoli di statura ma larghi di cervello e con un cuore grande così. Durante il giorno, quando tutti stavano occupati con le bestie, io sola restavo in casa. Mentre lo medicavo, lui parlava. E allora mi faceva scoprire la faccia nascosta di tutte quelle cose che avevo sempre davanti agli occhi e che non vedevo mai. Non so come dire, aveva quella franchezza che fa sembrare istruito anche uno che ha appena fatto qualche anno di scuola.”
Giunta a questo punto del racconto, chissà perché, mia madre doveva per forza fare un’osservazione sulla lentezza delle nostre mani. Cambiava tono. Per esempio, non diceva più papà ma “vostro padre”, quasi dovessimo scattare sull’attenti. Ma le passava subito e ricominciava come prima.
…Dovevate vederlo quando si agghindava tutto, aveva il portamento di un signorino. Adesso si trascura un po’, ma è per via del lavoro, i soldi purtroppo non bastano mai. Neanche a paragonarlo con un sacco di altri screanzati, senza un pizzico di sale in testa. Tutti amici adesso, e si permettono anche di fare i gradassi con tuo padre. Ma quelli là li conosco bene io: dal venticinque luglio all’otto settembre erano tutti alla Casa del fascio e qualcuno di loro si arruolò perfino con i Repubblichini!
I pomeriggi erano afosi sotto il portico di casa. L’estate nell’Agro Pontino è feroce. Le giornate sono lunghe, non si muove una foglia. Mi capita ancora oggi, camminando per le vie di Parigi, di sentire un odore che mi attira direttamente sotto quel portico. In genere mi succede attraversando i quartieri d’immigrati, con i fichi maturi e la menta. Noi, laggiù ne avevamo un grosso cespuglio, era menta piperita e cresceva selvaggiamente accanto allo scolo della grondaia. Quando perfino le cicale si azzittivano dal troppo caldo e l’odore della menta saturava l’aria immobile, era il momento in cui mia madre raccontava di cose dure, di gente impazzita. Citava date.
Le piaceva ostentare la memoria che aveva per le date. Soprattutto quelle che per me contavano poco. Lei diceva “il venticinque luglio” e dava per scontato lo sbarco alleato in Sicilia, “l’otto settembre” uguale all’armistizio, la Repubblica di Salò non so più quando, Mussolini, il Re, la strage, la fame… A tutto corrispondeva una data, non ci si poteva sbagliare.
Per lei tutto questo era pane masticato. Io ormai non chiedevo più niente, abbandonavo le parole e mi mettevo a inseguire la musica. Mi sembrava che così facesse anche meno caldo. Però, l’essenziale di quei racconti lo avevo ritenuto. Perché dopo, quando queste date divennero storia sui libri di scuola, mi accorsi subito che qualcosa non quadrava. La versione non era la stessa, in quest’altra non c’era più vittoria. I partigiani erano spariti e con loro anche il sogno di libertà. Sui miei libri di storia la guerra di Resistenza stava in mezza pagina. Non era successo niente. Pigri racconti d’estate.
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