ZOO coopertinaMarilù Oliva, Lo Zoo, Elliot Edizioni, 2015, pp. 200, € 15

E’ da pochi giorni in libreria il nuovo romanzo della nostra Marilù Oliva, Lo Zoo, un noir ambientato in un luogo di mare indefinito del Salento, in una tenuta chiamata Pescoluse. Lì una Contessa che non vuole cedere allo scorrere del tempo – insieme a un gruppo di sodali con fissazioni e ambizioni diverse – esercita il proprio esecrabile potere su sette persone segnate da una difformità o genetica o imposta da interventi chirurgici, che sono state sequestrate e vengono tenute in gabbia: uno zoo umano, appunto. Ma la prigionia è il pretesto per parlare di concetti più astratti, quali l’abuso dell’altro, la libertà, la diversità e, soprattutto, il coraggio che occorre per pensare alla ribellione, come anticipa la dedica iniziale:

Agli imbrogliati. Agli inguaiati.
A chi si ribella nonostante l’ignoto:
ché ci vuole coraggio a dire no.
A chi vive in gabbia, costretto,
ma non millanta illusorie libertà,
perché riconoscere le sbarre
è molta più fatica che infrangerle.

Lo Zoo è il secondo volume di un ciclo inaugurato dalla scrittrice bolognese col precedente Le Sultane (finalista al Premio Scerbanenco) e dedicato al tema del tempo. Se ne Le Sultane l’Oliva voleva catapultare il lettore alla fine del tempo umano attraverso una tragicommedia pulp che ruota attorno alle vicissitudini criminali di tre vecchiette, qui il tempo si snoda su due binari: quello della storia, cristallizzato nell’afa di un luglio caldissimo, e quello della scrittura, che punta su un gioco di dilatazioni/concentrazioni anche attraverso l’utilizzo di espedienti narrativi quali flash-back, ellissi e anticipazioni.
Vi proponiamo l’incipit del romanzo.

L’Uomo Scimmia

L’uomo più irsuto del mondo è nato ventidue anni fa tra i monti del Guìzho-u, in Cina. I peli ricoprono il novantacinque per cento dell’epidermide, lasciando liberi solo gli incavi degli occhi, la bocca, i palmi delle mani, dei piedi e le pudenda. Sul resto della superficie cresce un fitto manto che, unito a una postura leggermente ingobbita, a un naso camuso e a un prognatismo accentuato, lo fa somigliare più a uno scimpanzé che a un Homo sapiens. Quando era molto piccolo, sua madre lo teneva nascosto e ogni settimana gli spalmava addosso strisce di pece bollente mista a colla di pesce, praticando una sorta di rudimentale ceretta, i cui strappi preannunciavano grida strazianti. Ma i peli risorgevano e un giorno, strozzata dalla povertà, l’aveva preso per mano e l’aveva trascinato di casupola in casupola, perché provassero a sentire quanto fosse morbido e gli regalassero qualche yuan.
La Contessa l’aveva visto per la prima volta sfogliando l’ultimo numero di Vogue, in un pomeriggio dilatato dalla noia, e subito aveva ventilato l’idea. Quest’uomo-orso avrebbe stuzzicato il suo Cristoforo. Ingabbiare un ominide: che ostentazione di potere. La Contessa aveva dimestichezza con le prigioni, quelle fatue e invisibili della mente, e già aveva provato a incellare il tempo: ma gli anni erano trascorsi, ogni decade coi suoi confetti e i suoi crepuscoli.
I trenta. Avevano segnato la nuova vita, l’agente faccendiere, un contratto che l’avrebbe fatta svettare a matrona dei teleschermi. Giorni e nottate dedicati a copioni, flash, palestre, atelier.
I quaranta. Gli anni della fioritura ingorda. Scoppiava di salute, dimostrava quindici anni di meno, la sua fama si era consolidata, l’impulsività era stata domata, nessuno ormai cercava di farle lo sgambetto, perfino quelle arpie delle rivali aspiranti conduttrici si prostravano ai suoi piedi, mentre trasudavano invidia. E più erano giovani, più avevano faccia tosta, le sgualdrine, pronte a buttarsi nel primo camerino per cinque secondi di apparizione. Ma a lei non interessava, che si svendessero pure, lei aveva altro cui pensare. Era piombato un marito che la adorava – brutto come la fame, ma non si era formalizzata visto che quello vantava nobili origini: un conte, addirittura! Pure ministro. Con lo sposalizio erano piovuti prebende e soldi.
I cinquanta: la solidità, la conferma del casato. Il Presidente della Repubblica la chiamava per le festività. Quello del Consiglio le spediva cioccolatini a San Silvestro, accompagnati da un gioiello. Un boss della Sacra Corona Unita, fregiato della copertura di Sindaco del paese in provincia di Lecce dove risiedevano, la omaggiava di un mazzo di fiori grande come una valigia il giorno del suo compleanno, senza chiederle l’età.
I sessanta. Aveva cominciato a capitolare quando il consorte era morto di cancro. E non per il dolore. Al funerale di lui era ruzzolata rovinosamente sulla stradina di ciottoli del cimitero, complici tacchi sottili come steli di fiore e una discesa ripida, passaggio obbligato per arrivare alla tomba di famiglia. Aveva sbattuto la testa contro uno spigolo del sepolcro del fu Nicodemo Ingrassia, era stata soccorsa dai parenti che le volevano tamponare il sangue che le macchiava i bei capelli biondi, ma lei li aveva cacciati malamente: non sopportava quando le si toccava la chioma. Quel giorno, secondo alcuni, era cominciata la sua follia. Con il decesso del marito molte certezze erano crollate. Era come se si fosse portato nella tomba anche la capacità – di lei – di contare in società. Non le venivano più recapitati fiori e scatole di cioccolatini.
Si era ritirata dalla televisione, pur mantenendo i contatti, e le vedette arriviste si affastellavano come rapaci. Nel mentre, era stata costretta ad aumentare le sedute dal chirurgo e – aggiusta di qua, taglia di là, livella, riempi, stendi – aveva valutato che le conveniva farselo partner, il dottor Cristoforo Tommaseo, pure se era tanto più giovane di lei, almeno di una ventina d’anni.
Ora che ha compiuto settant’anni, pensa che non sia giusto. Tre decadi ancora per arrivare al centenario. No, non è per niente giusto che per assaggiare il secolo manchi così poco e lei stia scomparendo come carta velina usurata, trent’anni sono solo il volo di un gabbiano, sono la durata stanca di un bolero, la percezione del tempo è un imbroglio: più si diventa vecchi, più aumenta la velocità di caduta e non esiste una frizione per rallentare.
A forza di rimuginare, un bel giorno la donna stava piluccando distrattamente Vogue, quando si era imbattuta nella foto di quell’uomo villoso e la fantasia aveva cominciato a viaggiare, facendosi forte anche di un dettaglio: l’amore di Cristoforo per gli esperimenti. Una volta, dopo un tentativo arrischiato di lifting facciale, la paziente non era stata più in grado di chiudere le palpebre, e la bocca era rimasta storta.
Che prevaricazione, sospenderlo dall’albo. Le riviste scientifiche lo snobbavano e il mondo accademico elargiva riconoscimenti ai soliti dinosauri o alla loro progenie. Bisognava cambiare registro. Così la Contessa aveva preso il volo, la mission era ben precisa. Nella faraonica tenuta delle Pescoluse ereditata dal marito pugliese, in quella distesa di terre con palazzo e torre, piscina, cespugli, spiaggia privata, avrebbe impiantato un’attrazione irresistibile. Un regalo per il suo chirurgo, che avrebbe potuto sbizzarrirsi col bisturi.
Uno zoo composto da umanità tradite e confini di ibrido. Il guinzaglio ben legato al collare del suo Cristoforo. E l’Uomo Scimmia sarebbe stato il primo, malcapitato ospite.

***

L’estate salentina arranca in oro liquefatto. Cola su campi rossi, sugli uliveti rugosi, si disfa nell’aria stanca di luglio, così rovente che, delle volte, gli orologi si fermano e le cicale interrompono il canto. La Contessa, capelli immancabilmente sciolti, distesa sul suo canapè Luigi XIV, ai piedi i due mastini tibetani, Brad e Pitt – trecentomila dollari ciascuno –, si lamenta dell’afa con Quinn Palmer, mentre fissa la piscina immobile, oltre la vetrata della finestra, dal secondo e ultimo piano.
«Quinn, quando ripari l’aria condizionata?».
«Stasera».
«E qui si schiatta, oggi pomeriggio?».
Quinn Palmer osserva quel volto così tirato che potrebbe lacerarsi. Vorrebbe sbuffare. Quando è stato assunto le condizioni erano ben altre. La padrona gli aveva comunicato che sarebbe stato investito del ruolo di guardiano. Gli piaceva, quella parola. Guardiano. Quante eco custodiva: un sentore di autorità, quasi un dirottamento del potere supremo, incarnato in quella settantenne minuta, dai capelli biondi e lunghi, bocca artificialmente carnosa – troppa bocca in quel viso ossuto – e occhi talmente tesi che conferivano al volto un’idea di lince, ripassati di spessa matita nera poi sfumata, come infossati in un teschio. Eccheccazzo, aveva pensato Quinn Palmer, devo prendere pure gli ordini da una donna? Non erano questi i patti: non lavorare dodici ore al giorno, tra riparazioni di idraulica, custodia e manutenzione. Ha ragione, Quinn. Fare la guardia si riduce ormai solo a un quinto del lavoro, tutto il resto è fatica. Ma viene ricompensato profumatamente, per i suoi servigi.
Dopo una vita di stenti mai digeriti per via delle ambizioni, dopo aver collaudato svariati generi di occupazioni balorde, a cinquant’anni era approdato in questa tenuta e la proposta si era rivelata come il miraggio del paese dei balocchi.
«Devi sorvegliare uno zoo, ti va? Ma prima mi aiuterai ad allestirlo» aveva minimizzato la Contessa, valutando trash il taglio a cresta dei capelli sale e pepe di lui, rasati alla maniera di un famoso boxeur.
Lui aveva annuito.
«Ti pagherò cinquemila euro al mese. Netti, puliti, in nero. Oltre a vitto e alloggio».
Una cifra così tutta intera non era nemmeno mai riuscito a metterla da parte. Per questo, anche ora che vorrebbe sbuffare, risponde ossequioso: «Rimedio subito, Contessa, l’aria condizionata. Entro un’ora avrà il suo fresco».
«Ecco, fa’ il bravo, ché devono arrivare gli ospiti».
Le volta le spalle per dirigersi al magazzino e recuperare la cassetta degli attrezzi. Mentre esce dalla stanza entra Tittina, la cameriera assoldata da un paese vicino. Si scambiano uno sguardo: speranzoso quello di lei, frettoloso quello di lui. L’uomo prosegue, convinto che di loro nessuno sappia nulla, lei con le farfalle nella pancia si gira a guardarlo da dietro.
Solida curva di spalle sotto la maglietta nera con davanti impresso il busto di Mickey Rourke nella locandina di The Wrestler, braccia potenti e il sinistro reso scuro dai numerosi tatuaggi: un’ancora, un volatile azteco, una scritta a serpentina che sale su fino all’ascella e reca, con ideogrammi giapponesi, una citazione la cui traduzione lui recita, a chi la chiede, con la voce sicura di un pistolero in un film western: Gli uomini veri non devono chiedere mai.
Tittina porge alla Contessa la coppa del succo d’alghe delle undici. Mentre l’aristocratica attacca all’orlo del calice le sue labbra esagerate, l’altra se ne esce con un filo di voce.
«Signo’, Quinn Palmer non mi parla».
«E cosa deve dirti?».
La cameriera si strofina le mani sul grembiule bianco, sopra la divisa fumo di Londra. La padrona ha già capito.
«Quante volte è successo?».
«Una» sussurra lei paonazza.
«Quando?».
La Contessa sorride. Vorrebbe dirle: E che ti credi, ragazza mia, per aver aperto una volta le cosce pensi che un buzzurro come Quinn Palmer ti sposi? A te, poi, con quella faccia da rospetta adolescente, i capelli crespi col taglio da scema, le gambe storte e le bracciotte da contadina? Ma deglutisce un’altra sorsata e pensa che il vero mistero non è perché Quinn Palmer si comporti così con lei, bensì perché se la sia scopata. S’informa quindi su luogo preciso e modalità di amplesso – quanto le piace il gossip, la sua dipendente è un tremito, è come se le farfalle che vorticavano in pancia le uscissero di botto fuori dalla bocca.
«La settimana scorsa, signo’, vicino allo Zoo».
«Come…?».
Tittina assume un’espressione smarrita, quella rincara:
«Come l’avete fatto?».
«Signo’». Si sfoglia tra le dita l’orlo del grembiule. «Non sono abituata a parlare di queste cose, mi vergogno. Non ho mai…».
La Contessa le fa il verso: «Non ho mai avuto il fidanzato io, lo so cosa mi vuoi ripetere».
Tittina scuote la testa, l’altra sembra spazientirsi.
«Allora, cos’avete fatto?».
Le guance della giovane si irrorano di scarlatto. Il ricordo le ingolfa la parola. L’estensione del fotogramma, la messa a fuoco della scena: tutto si era ridotto a pochi minuti, però lei preferiva riferirsi a essi come quella notte. E investire quell’uomo senza ritegno del ruolo di principe azzurro.