di Roberto Sturm

La_bomba.jpgMarco Codebò, La bomba e la Gina, Round Robin Editrice, 2011, pp. 194, € 13,00 (edizione cartacea), € 4,99 (eBook)

La memoria e la sua persistenza sono gli elementi imprescindibili per far sì che continuino a vivere in noi e nelle generazioni a venire gli orrori commessi dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale, specialmente nel momento in cui certa politica sostiene l’esigenza di riscrivere la Storia, equiparando i caduti partigiani ai loro nemici o cavalcando le tesi negazioniste. Quando scompariranno l’ultimo partigiano o l’ultimo internato nei campi di sterminio nazisti, ci rimarranno solo le storie.
Come quella raccontata da Marco Codebò, legata a filo doppio all’eredità del fascismo, una storia che ben conosciamo ma che è sempre utile ricordare: ne La bomba e la Gina c’è tutta la stagione di attentati volti ad alimentare la strategia della tensione, dal 1969 al 1984. Un disegno eversivo di cui l’autore vede l’inizio nel 1947 quando, a Portella della Ginestra, gli uomini del bandito Giuliano massacrarono dodici contadini accorsi per festeggiare il Primo Maggio. Le altre date sono tristemente note: le due bombe scoppiate alla Fiera Campionaria e all’Ufficio Cambi della stazione di Milano, il 25 aprile del 1969; le dieci bombe sistemate su altrettanti treni nella notte dell’8 agosto e i diciassette morti della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre dello stesso anno; le quattro vittime di via Fatebenefratelli a Milano, nel 1973; le otto morti di piazza della Loggia Brescia e le dodici dell’Italicus, nel 1974; la carneficina (85 vittime) della stazione di Bologna, nel 1980; i diciassette morti del rapido 904, nel 1984. Era ed è evidente il disegno eversivo di smantellare le lotte del movimento operaio e di quella parte della società italiana più progressista.


È per questo che il romanzo di Marco Codebò, professore di Letteratura e lingua italiana alla Long Island University di New York, La bomba e la Gina, è importante. Parte da lontano, l’autore, e non certo senza una ragione: nel 1940, a Ventotene, il confino fascista più duro, il vicedirettore Marcello Guida comunica al prigioniero Sandro Pertini che la sua condanna è prorogata di cinque anni. Ritroveremo Guida (il trasformismo non è una dote nata recentemente, pare) questore di Torino, poi trasferito a Milano nel 1969, sempre con lo stesso incarico. Destino vuole che sia l’anno dell’attentato di piazza Fontana. E coincidenza vuole che il 15 dicembre, Giuseppe Pinelli, anarchico, dopo tre giorni di interrogatori, minacce e torture volti a fargli confessare il coinvolgimento di Pietro Valpreda e degli anarchici, voli dalla finestra del quarto piano della questura. Nel 1975 la sentenza D’Ambrosio chiude il caso con l’assoluzione degli agenti accusati di omicidio volontario: Pinelli è precipitato a causa di un “malore attivo”.
Codebò si muove agilmente su un terreno complicato e insidioso, mescolando cronaca, memoria e invenzione con uno stile accattivante, con un movimento narrativo senza soluzione di continuità tra i diversi punti di vista dei personaggi, arricchendo la vicenda di particolari che rendono credibili gli accadimenti immaginari come quelli reali. Ed è proprio la credibilità uno dei punti di forza del romanzo, sostenuta dal prezioso lavoro di documentazione dell’autore: si mette così in rilievo una storia piena di contraddizioni, di omissis, di connivenze, di verità nascoste, di uno Stato che sguinzaglia i suoi servi più beceri — terrorismo di destra e criminalità organizzata — per conservare lo status quo, a qualunque costo.
L’autore ha dichiarato che la scelta di aprire il racconto richiamando il famoso articolo di Pasolini, pubblicato sul Corriere della Sera il 14 Novembre 1974 (“Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 21 dicembre 1969”) è legata al fatto che “quella frase rappresenta ancora il massimo di verità a cui si è arrivati su Piazza Fontana: lo sappiamo tutti chi è stato ma non possiamo dirlo. Quindi in realtà non sappiamo un bel niente”. Pasolini, e qui richiamiamo in causa (polemicamente, s’intende) il caso o le coincidenze, fu ucciso nel novembre dell’anno successivo, in circostanze mai chiarite definitivamente. Una sorta di “chi tocca i fili muore”…

Nel 2005 si chiude, il settimo processo sulla strage.
Non ci sono colpevoli e i parenti delle vittime vengono condannati al pagamento delle spese processuali: una maniera chiara per ricordare a tutti l’impunità del potere politico e che i suoi tentacoli sono ancora al loro posto e rivolti verso di noi.