di Marco Sommariva

L’8 giugno 1976 fu ucciso Francesco Coco, il primo magistrato a cadere sotto i colpi delle Brigate Rosse. Insieme a lui furono uccisi gli uomini della sua scorta: Giovanni Saponara e Antioco Deiana. Il triplice omicidio avvenne poco distante dalla stazione ferroviaria di Genova Piazza Principe, sulla scalinata di Santa Brigida, a una manciata di metri da quello che oggi è l’ingresso del Count Basie Jazz Club, un circolo Arci che si occupa di promozione sociale e culturale. Il locale si trova all’interno delle fondamenta dell’antico convento di Santa Brigida che risale al 1400, ed è reso a dir poco suggestivo dalle pareti in pietra e il soffitto ad archi. Da oltre dieci anni salgo sul loro palco con spettacoli fatti di monologhi e canzoni, che hanno come denominatore comune il sottoscritto – i musicisti spesso cambiano – l’antifascismo come argomento portante e il fatto che la metà delle persone che mi promette – a volte, anche per mesi – di far parte del pubblico all’ultimo momento non si presenta, a volte senza neppure disdire la prenotazione online gratuita.
L’ultimo spettacolo al Count Basie l’ho tenuto il 25 aprile scorso – era un venerdì – e, nonostante le disdette ancor più numerose del solito, per fortuna il locale era pieno. Stavolta, però, è successa una cosa strana; forse complice l’importanza della data che sarebbe stata ricordata e festeggiata quella sera, quasi tutti mi hanno scritto per giustificare l’assenza, e incredibilmente tutti mi hanno scritto la stessa cosa, pur non conoscendosi tra loro: “Non riusciamo a venire, siamo troppo stanchi” – e questo nonostante ci fosse un intero fine settimana alle porte.
Mi sono chiesto da cosa poteva dipendere tutta questa stanchezza che piega le persone, e ho pensato potesse essere la stessa stanchezza già denunciata nel 1908 da Anatole France ne L’isola dei pinguini, quando parla di un popolo stanco di un governo che lo rovina e non fa nulla per lui, di un governo ogni giorno travolto da nuovi scandali, di una repubblica che annega nella vergogna, una repubblica ormai perduta; poi ho pensato alla stanchezza citata da Elizabeth Gaskell in Nord e Sud – un romanzo che uscì a puntate su un settimanale edito da Charles Dickens, fra il 1854 e il 1855 – quando parla di una stanchezza dovuta al trambusto frutto di tutti coloro che si avventano l’uno sull’altro durante la loro corsa alla ricchezza.
Ho pensato anche che forse fossero stanchi della fatica di pensare, come scriveva Jack London in John Barleycorn; di certo, come diceva Steinbeck ne La battaglia, è tutto difficile quando si è stanchi. Eppure, le lotte dei lavoratori iniziate oltre un secolo e mezzo fa per ottenere otto ore per lavorare, otto ore per dormire e otto ore per educarsi, avrebbero dovuto portarci a usufruire della terza e ultima tranche per leggere, scrivere, studiare, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, partecipare a movimenti e associazioni di carattere sociale e politico, dedicarsi alla famiglia e socializzare in genere, eccetera. E allora come mai siamo sempre circondati da gente stanca, specie dopo una giornata lavorativa? Stanchi per l’eccessivo carico di lavoro, stanchi per la ripetitività della mansione svolta, stanchi per l’ostilità dell’ambiente lavorativo, stanchi perché consapevoli d’essere inutili rotelle di un ingranaggio che potrebbe stritolarti in qualsiasi momento. In effetti, siamo sempre tutti un po’ stanchi. Chi più chi meno.
E stanchi ci addormentiamo su un divano davanti a uno schermo che ci inzuppa con una doccia di luce di cui sembriamo non poter più fare a meno. A questo punto, mi verrebbe da dedurre che Qualcuno s’è fatto furbo e invece che toglierci quelle otto ore libere ottenute con lo scopo di istruirci, ricrearci e magari fare gruppo, ce le ha lasciate ma riducendoci incapaci di goderne, usufruirne, esaurendo prima ogni nostra energia, spegnendoci; l’obiettivo d’impedire il risveglio delle masse sarebbe comunque raggiunto, e pure senza dare troppo nell’occhio con eventuali scioperi e manifestazioni a cui, tra l’altro, partecipa sempre meno gente e quasi esclusivamente soltanto i diretti interessati dal problema, senza alcuna solidarietà esterna.

La Casa dello studente di Genova è oggi sede del Mueseo della Resistenza europea ed è dedicato al comunista tedesco Rudolf Seiffert

Torno allo spettacolo dello scorso 25 aprile perché il giorno precedente un conoscente, ridendo allegramente, prendeva in giro i professori di suo figlio che avevano portato l’intera classe in gita alla Casa dello studente di Genova, per la Festa della Liberazione. Rideva perché convinto fosse questa una gaffe colossale: “Cosa c’entra la Casa dello studente con la storia della Liberazione?”, e giù risate e scrollamenti di testa.
Molto brevemente, durante gli anni finali della Seconda guerra mondiale la Casa dello studente divenne sede della Gestapo; comandata da Friedrich Engel – a quei tempi si faceva chiamare Siegfried, ed era noto come “il boia di Genova” – fu luogo di tortura di prigionieri politici, partigiani e antifascisti genovesi in genere. Testimonianze dei prigionieri sopravvissuti riportano il probabile uso delle caldaie dell’edificio come forno crematorio per smaltire i corpi di chi moriva durante le torture.
Rendendomi conto che il conoscente non sta assolutamente scherzando, ma è convinto delle sue ghignate, provo a raccontargli qualcosa e lui – mio coetaneo, un sessantenne nato e cresciuto a Genova – mi risponde: “Non lo sapevo”. Dopodiché balbetta qualcosa circa la sua stanchezza.
Perché racconto questo? Perché temo che mentre ci addormentiamo sconvolti davanti a una fonte di luce artificiale, fra le tante cose abbiamo perso anche la possibilità di spendere qualche minuto per informarci sulle nostre radici, su quanto è successo nella nostra città: magari semplicemente cliccando su Wikipedia.
E qui mi torna in mente il buon vecchio Jack London quando, in Martin Eden, scriveva: “Non aveva visto un giornale in tutta la settimana e, cosa strana per lui, non sentiva il desiderio di vederlo. Le notizie non lo interessavano. Era troppo stanco e sfiancato per interessarsi a qualcosa”.
E dato che a un certo punto ho intravisto nei muscoli facciali del mio conoscente qualcosa che mi ricordava una miscela d’imbarazzo e paura – chissà, forse s’era spaventato della sua ignoranza – ho pensato a Raymond Chandler quando ne Il lungo addio scrive: “L’uomo medio è stanco e spaventato, e un individuo stanco e spaventato non può permettersi il lusso di avere ideali. Deve procurare il cibo alla propria famiglia”.
L’uomo medio non può permettersi il lusso di avere ideali: bingo!
Sbaglierò, ma chi ha il potere in mano e deve guardarsi bene dal non perderlo, è riuscito nell’impresa; quella di toglierci le otto ore per la nostra educazione senza toglierle effettivamente: ci stanca a tal punto da renderci incapaci d’istruirci e, pregni d’ignoranza, non realizziamo neppure quali fregature quotidianamente ci tirano, gl’inganni in cui cadiamo ogni giorno, figuriamoci se siamo capaci di sposare degli ideali! – insomma, il delitto perfetto.
È intorno alla risoluzione di un delitto che nasce Regno a venire, l’ultimo romanzo di James G. Ballard: con la speranza di scoprire l’assassino, il pubblicitario Richard Pearson si reca a Brooklands, una cittadina come tante tra Londra e l’aeroporto di Heathrow, alcune settimane dopo l’omicidio del padre ucciso in un enorme centro commerciale, il Metro-Centre, un complesso di magazzini, alberghi, piscine e centri sportivi, con una propria televisione via cavo che trasmette pubblicità, dibattiti e partite di calcio, hockey e rugby.
Protetto da un’inquietante rete di omertà, il principale indiziato viene rapidamente rilasciato dai magistrati locali; al centro del mistero è il Metro-Centre, tempio del consumismo più sfrenato, dove convive una passione ossessiva per gli sport e un violento nazionalismo: gli attacchi alle comunità d’immigrati sono all’ordine del giorno e gli incontri sportivi sembrano raduni politici: “La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce” – scrive Ballard.
Il consumismo smodato sembra sul punto di mutare in una nuova forma di fascismo che parrebbe poter aiutare un’Inghilterra apatica: “un vero senso di comunità, la gente lo trova negli ingorghi stradali” – ancora Ballard.
Annoiata dalla propria vita, la gente ha necessità d’andare oltre il consumismo e così, mentre club di tifosi marceranno per le strade sventolando le loro bandiere e i loro simboli aspettando un nuovo leader che li guidi verso la terra promessa, Richard frequenterà un gruppo di persone decise a fermare il fenomeno prima che s’espanda ma, come pubblicitario, verrà anche attratto dal potere del Metro-Centre: “Sono cose che fanno parte della vita delle persone. Il consumismo è l’aria che abbiamo dato loro per respirare” – sempre Ballard, ovviamente.
Questo romanzo del 2006 racconta molto bene quanto ci siamo deformati e com’è stato possibile creare un popolo di mostri che, senza accorgersene e senza neppure capirne il motivo, un giorno ha deciso di gettarsi volontariamente dell’acido sul viso.
Ballard ci racconta così la nostra mostruosità, dicendoci che siamo un popolo addormentato che possiede tutto. Il parcheggio è la nostra più grande esigenza spirituale; riteniamo aeroporti e centri commerciali delle attrazioni turistiche; si sta diffondendo una forma soft di fascismo, un odio silenzioso e disciplinato; siamo invasi da intrusi che pensano solo a guadagnare;  vogliamo essere convinti a comprare emerite schifezze; finiremo con l’essere circondati da supermercati aperti tutta la notte; celebriamo le vittorie calcistiche come ultima speranza di violenza; il mondo consumistico è un enorme amnesia del passato; nei centri commerciali viviamo un eterno presente fatto di compere e privo di un’idea di futuro; gli stessi centri commerciali sono incubatrici di violenza, dei nuovi gulag dove la pena è lo shopping; riusciamo a entrare in contatto con la realtà solo quando ci ammaliamo; i tifosi non sono tifosi ma militari razzisti e dettano legge; al giorno d’oggi onestà e franchezza vengono scambiati per subdoli stratagemmi e ci vuole del coraggio per compiere una buona azione; la maggior parte delle persone non ha proprio nulla da dire; il consumismo chiede di rispettare la regola del più forte; non riusciamo più a crescere, siamo tutti bambini; la gente ha un enorme bisogno di autorità; non c’è quasi più nessuno ad avere un briciolo di senso civico; il pericolo più grande è la noia e, anche per questo, le persone adorerebbero qualsiasi cosa; chela gente si rifugia in superstizioni e irragionevolezza; crediamo di poter scegliere, ma è tutto già deciso; tutti si sentono soffocare e, anche per questo, c’è fame di violenza in giro; potrebbe nascere una nuova democrazia dove si vota alla cassa di un supermercato anziché alle urne; l’emozione comanda anche perché la ragione è andata a farsi benedire; c’è sempre bisogno di nuovi nemici; alle persone la sola politica rimasta è comprare; il consumismo è l’ultimo rifugio dell’istinto religioso; non abbiamo più una spina dorsale e per questo adoriamo i codici a barre; desideriamo noi stessi diventare merce proprio come quando ci addormentiamo davanti a una luce artificiale sullo scaffale del nostro divano.
Dimenticavo, fra le mille cose che Ballard ci dice col romanzo Regno a venire c’è anche quella che premiamo il grilletto perché ci annoiamo tanto, e credo sia vero anche questo. Oggi.
Sottolineo oggi perché non credo fosse la noia, nel corso della Storia, ad aver fatto decidere di premere più volte il grilletto. Credo fossero mossi da degli ideali. Ideali che potrebbero esser nati e stati curati durante le otto ore conquistate un secolo prima per la nostra educazione. Poi qualcuno deve aver capito che narcotizzando quelle ore s’azzerava qualsiasi lotta armata, fisica e metaforica, e allora… vai di cloroformio! Tutto quel cloroformio che tanto bene elenca Ballard nel suo romanzo. Qualcosa, però, dev’esser andato storto nei piani di chi persegue il Regno, visto che io sono ancora qui a lottare sparando, come al mio solito, raffiche di parole. E se a breve chiuderò il pezzo, nessuno si illuda: non lo faccio di certo perché mi son stancato.
Perché anche se ogni tanto mi cala la palpebra, ricordo bene cosa scrisse Albert Camus in Ribellione e morte: “Le nostre grandi virtù finiscono per stancarci. L’intelligenza ci umilia e talvolta sogniamo di qualche felice barbarie nella quale la verità si possa raggiungere senza sforzo. Ma di questo si fa presto a guarire; ci siete voi [nazisti] a mostrarci dove si va a finire con sogni di questo tipo e allora ci correggiamo” – era il luglio del 1943.
Insomma, per farmi tacere non basterà radere al suolo la striscia ligure, occorrerà riaprire la Casa dello Studente e farmi passare per qualche camino e magari, mentre sarò nel vento di tramontana, sentirò riecheggiare le risate del mio conoscente.