di Giovanni Iozzoli
Commentare il risultato referendario dell’8 e 9 giugno può essere facilissimo o complicatissimo, a seconda del punto di vista che si sceglie. È operazione molto semplice, se l’obiettivo è la polemica contro il gruppo dirigente Cgil; è faccenda più complessa se si usa il referendum per capire come diavolo è cambiato questo paese negli ultimi 15 anni.
L’operazione referendum nasce in una fase della storia della Cgil in cui Landini presume di avere di fronte un avversario solidissimo – Giorgia e il centro destra unito – contro il quale è socialmente pericoloso andare al fronteggiamento – e già questa sopravvalutazione è frutto di una lettura miope dei rapporti di forza. Attraverso la suggestione referendaria si pensa di “traslare” su un piano diverso lo scontro col governo, tanto temuto quanto inevitabile: il vis-à-vis sembra meno pericoloso se si sposta dalle piazze alle urne. Da qui l’idea di ricomporre tutta l’opposizione politica e sociale nel contesto di una nuova stagione referendaria a trazione Cgil – per chiudere definitivamente con le macerie lasciate dal renzismo e dal moderatismo pre-Schlein.
La partita sembra giocabile perché l’altro quesito che si profila, in materia di autonomia differenziata, potrebbe contribuire alla formazione di una specie di blocco nazionale e sociale referendario: i territori industriali del nord a difesa dell’art 18, uniti al rifiuto meridionale dell’autonomismo spinto di Calderoli. Nelle aspettative, si sarebbe riproposta la suggestione antica del “nord e sud uniti nella lotta”, in opposizione al simmetrico schieramento territoriale evocato dal duo Lega-FdI.
Naturalmente il pronunciamento salomonico della Corte Costituzionale – che ha smussato la legge Calderoli e liquidato il relativo quesito – ha fatto saltare un cardine fondamentale di questa chimerica strategia. A quel punto non si poteva che andare avanti a testa bassa sulla strada tracciata: il referendum sarebbe servito comunque a Landini per riempire il vuoto d’iniziativa confederale, oltre che alla Schlein nella eterna contesa interna coi notabili irrequieti del PD. La vera e propria stagione referendaria è cominciata così: sostenuta da una cordata azzoppata e claudicante.
Man mano che passavano i mesi la Cgil si orientava con sempre più testardaggine sulla via referendaria – definita solennemente “la nostra rivolta” da gruppi dirigenti quasi sollevati dall’idea di giocarsi tutte le loro carte sul tavolo referendario, bypassando pericolosi scenari di piazza. Nel mentre proseguiva la vertenzialità di categoria, nella solita modalità spezzettata e incoerente – quasi mai dignitosa -, mentre ogni evento, ogni energia, ogni risorsa veniva riversata nel calderone della campagna elettorale.
Da questo ragionamento si evince che la scelta del referendum ha rappresentato comunque un ripiego – l’ennesimo – a fronte di un mondo del lavoro di cui ormai la Cgil diffida. Si sceglie la via delle urne perché non si intravedono altre strade o strumenti realistici di contrapposizione nei confronti di un governo che ha totalmente e definitivamente azzerato ogni rituale concertativo. Il referendum è la presa d’atto che non si poteva più andare avanti con il tradizionale e innocuo sciopero di fine d’anno e – nello spirito sostanzialmente eclettico di tutta la sua carriera – Landini ha pensato di uscire dall’impasse attraverso “la mossa del cavallo” referendaria.
Ma la paura dei lavoratori – delle persone che dovresti rappresentare e organizzare -, quella diffidenza che spinge il sindacato su un terreno così inusuale e impervio, è giustificata? È la cattiva coscienza di un sindacato che ha tanto da farsi perdonare? È un dato storico reale, l’impossibilità del conflitto sociale? Grandi domande, a cui il gruppo dirigente confederale come al solito non risponde. Si imbocca la strada della consultazione e si va avanti a testa bassa: in questo modo si guadagna tempo, si smuovono le acque, si occupa la scena mediatica e si spera in un qualche miracolo referendario che rovesci i sondaggi impietosi.
Ora, a babbo morto, col disastro del 30,5% già servito, grande sarebbe la tentazione di fare fuoco sul quartier generale di Corso d’Italia. Ma bisogna stare attenti perché – sempre restando alle metafore maoiste – stavolta il cane che affoga, rischierebbe di portarsi sott’acqua tutto il precario baraccone sindacale. Senza alcuna “uscita a sinistra” visibile, dentro questa potente crisi di rappresentanza.
E poi non sarebbe eticamente corretto, scaricare tutto su Landini. Come migliaia d’altri delegati, chi scrive ha fatto le assemblee in fabbrica, volantinato, convinto i lavoratori recalcitranti a votare; non ha esercitato obiezione di coscienza e non aveva la palla magica per sapere in anticipo la misura della sconfitta, molto più pesante delle peggiori aspettative. E questo vale più o meno per tutti, nella sinistra di classe e sociale: abbiamo dato indicazione di andare alle urne e di votare, ci abbiamo messo la faccia nostra nei posti di lavoro e nelle piazze, quindi credo che un pezzettino (in quota parte) di questa sconfitta vada condiviso equamente. La partita l’hanno scelta i gruppi dirigenti ma poi ce la siamo giocata tutti. Punto.
Piuttosto approfittiamone per trarne qualche lezione, né rancorosa né malinconica. A partire da un dato che è solo una conferma storica: i gruppi dirigenti della Cgil sono totalmente inadeguati, in questa fase, soprattutto nello sforzo di ricollocazione del sindacato confederale dentro la moderna realtà sociale italiana. La generazione di dirigenti cresciuta politicamente negli “anni d’oro” della concertazione rappresenta oggi un peso e un elemento di ritardo per il sindacato. Possono vincere nei congressi anche con il 99% dei voti, ma non ne imbroccano una. Per anni hanno accuratamente evitato – contro Renzi, contro i tecnici, contro la Meloni – qualsiasi “scontro finale”, anche quando si giocava sul proprio terreno, quello segnatamente sindacale. Si arrivava sempre a fare l’ultimo passo indietro prima di giungere all’impatto critico e a esercitare concretamente il rapporto di forza (a proposito dei quesiti: nel 2014 lo sciopero generale contro il Jobs Act fu proclamato a legge già approvata).
E allora, ci si chiede, come sia stato possibile scegliere di andare alla conta finale – e conta matematica, per di più – proprio su quel terreno referendario che il sindacato conosce poco e di cui non controlla alcuna variabile. Com’è stato possibile scegliere di misurarsi sul totale del corpo elettorale, anziché sul tuo proprio corpo sociale? Eppure c’era disponibile la stagione dei diversi rinnovi contrattuali di categoria che, se giocata con intelligenza confederale, avrebbe potuto porre unitariamente al centro dell’agenda politica del paese la questione salariale – oltre che mettere mano all’eterno annoso problema della riunificazione/accorpamento di contratti (e categorie). Avresti fatto il tuo dovere di sindacato, forzato il vecchio inservibile modello contrattuale, riguadagnato punti agli occhi della massa dei salariati avvelenati da anni di deflazione delle retribuzioni reali, che ormai tutti riconoscono come la vera emergenza nazionale.
Il problema della Cgil è che non è più attrezzata per reggere nemmeno il “minimo sindacale” del conflitto distributivo che un’organizzazione riformista dovrebbe sostenere. La cultura e la memoria del conflitto – le pratiche, le parole d’ordine, la capacità di costruire vertenza ed esercizio di forza – non sono un’eredità nominale: se non si trasmettono con continuità alle generazioni successive di militanti e quadri, vanno disperse e basta.
Ed è quello che è accaduto negli anni della concertazione alla Cgil – una mutazione genetica che ha prodotto un corpaccione elefantiaco e confuso, per di più senza opposizione e senza dibattito interno.
L’altra lezione da trarre è ancora più desolante. Noi non conosciamo più il paese reale in cui viviamo. Non riusciamo a misurare il disastro della deindustrializzazione dei territori, della precarietà di massa, della deriva civile. Enormi pezzi di paese sopravvivono a sé stessi, in totale rottura con ogni appartenenza “nazionale e democratica”: le periferie metropolitane, le aree interne, il sud profondo dell’abbandono e della speculazione turistica. Qui l’articolo 1 della Costituzione non esiste: nulla è “fondato” sul lavoro, che è diventato invenzione quotidiana, sempre precaria spesso illegale o paralegale; e l’Italia non si rivela mai come “una e indivisibile”, in questo mosaico di sfighe e solitudini in cui si salva solo chi può. Non ci sono più la spesa pubblica e i partiti che ne mediavano i flussi, a tenere insieme questa mucillagine senza identità e senza speranze. Il voto è l’unico terreno su cui non riuscirai a parlare mai a questi milioni di italiani in libera uscita. Anche perché il PD si rivela sempre più una “bad company” che brucia e rende inattendibile qualsiasi slancio, idea o sforzo.
Certo, c’è un dato di “tenuta” rispetto ai milioni di elettori che hanno scelto di recarsi comunque a votare per il campo sociale del lavoro. Ma confondere le dinamiche referendarie e quelle elettorali non ha senso. I cittadini che hanno votato sono i primi a manifestare diffidenza e sfiducia verso l’abborracciata compagnia che li ha portati alle urne. Siamo sul crinale storico che divide depressione e speranza – e tutt’intorno a noi echi di guerra che a ragione dovrebbero indurci a scrivere sulle nostre bandiere: socialismo o barbarie!
Un progetto politico popolare, non settario e davvero antisistemico, è l’unico terreno su cui provare a ricomporre un blocco sociale del cambiamento. Idem per un moderno sindacalismo confederale di classe, combattivo e indipendente, che – pur senza disprezzare o svalorizzare l’esistente – è tutto da ricostruire da capo. Tanta ammirazione per chi continua ad avere voglia di cimentarsi nell’una e nell’altra impresa.
PS. Per favore, a proposito del quinto quesito, quello sulla cittadinanza, non attacchiamo la solita solfa sul razzismo, l’ignoranza etc. Chi ha votato NO è “gente nostra” e al di là del tecnicismo del quesito, ci ha voluto dare un segnale preciso: “non siamo contenti, non ci piace come sono state gestite le cose negli ultimi vent’anni, attenti perché per il momento rimaniamo ancora sul terreno democratico (e abbiamo votato SI sugli altri 4), ma se ci fate incazzare vi mandiamo affanculo; trovate alla svelta delle risposte su come gestire il casino che sono i nostri quartieri popolari o le risposte le cercheremo altrove”.
Evitare pudicamente di affrontare l’argomento non risolverà i nostri problemi.