di Gioacchino Toni

La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è un grande baraccone di cui si narra sulla stampa e sugli schermi più per le passerelle sul tappeto rosso e dintorni che non per i film presentati. Recentemente i media hanno dato ampio risalto al film documentario Chiara Ferragni – Unposted (2019) realizzato da Elisa Amoruso, presentato durante la kermesse lagunare e incentrato sulla figura della giovane fashion blogger, recitando la parte di chi si stupisce sia per la presentazione veneziana che per il successo ottenuto al botteghino: oltre 160 mila biglietti staccati in tre giorni di proiezione, per un incasso di oltre un milione mezzo di euro, con le sale piene di giovanissimi più abituati a stare sui social e a vedere film sulle diverse piattaforme che non ad entrare in una sala cinematografica. Già questo ultimo fatto meriterebbe qualche riflessione sulle modalità, sempre più solitarie, di fruizione del cinema nell’età della convergenza tra Studios, Broadcaster televisivi, DVD, tv multi-channel ed internet.

Per dare un’idea del giro d’affari che ruota attorno ai cosiddetti influencer di moda, secondo un’inchiesta del 2017 del quotidiano Daily Telegraph1 i più celebri, come Huda Kattan e Cameron Dallas, che vantano sui 20 milioni di follower su Instagram, guadagnano fino a 18 mila dollari per ogni loro post. Se poco interessa della vita della blogger star italiana celebrata dal film, vale però la pena spendere qualche breve nota sul backstage, per così dire, di questa “imprenditrice digitale”, come ama definirsi, tratteggiando quell’universo che l’ha cresciuta e che le ha consentito di diventare una star contemporanea che sembra altrimenti essere nata dal nulla. Per delineare il dietro le quinte di questa infestante influencer, può essere utile passare sommariamente in rassegna le recenti trasformazioni del sistema produttivo, delle modalità di consumo e di narrazione che hanno riplasmato il mondo della moda.

«L’abito è sempre stato il tramite di una rappresentazione pubblica, ma le dimensioni del pubblico sono passate dal salotto alla sala da ballo, poi alla città, per finire al mondo globale, e contemporaneamente dal rotocalco e dal grande schermo hollywoodiano al piccolo schermo della tv, fino al portatile e ubiquo schermo del cellulare e della nuova televisione degli anni Duemila, Instagram e Pinterest, con il relativo proliferare dei selfie più o meno professionali».2

Mentre negli anni Cinquanta, sostiene Nicoletta Polla-Mattiot, l’immaginario della moda si nutre sostanzialmente di icone hollywoodiane, le riviste dell’epoca che si occupano di moda si preoccupano ancora di spiegare come si rivolta un cappotto o come si realizza un abito in casa. Nell’Europa del dopoguerra, alla ridotta produzione di haute couture si affianca l’industria della confezione che realizza un tipo di abbigliamento massificato a prezzi contenuti ma decisamente di qualità scadente. Con il miglioramento economico di un vasto strato sociale che, pur non potendo permettersi l’haute couture, non si accontenta di prodotti anonimi e di bassa qualità, nasce il prêt-à-porter3 che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, conquista il mercato grazie alla sua capacità di amalgamare creazione di moda, produzione e sistema di vendita controllato direttamente, in alcuni casi attraverso boutique monomarca.

«L’affermazione del Made in Italy, la rivoluzione del prêtà-porter (prodotto di qualità in serie, creatività individuale coniugata al processo industriale) segna un passaggio epocale e modifica la diffusione della moda, e insieme alla diffusione, il suo racconto. Gran parte del successo degli stilisti e del total look coincide e si deve al mito creato, tessuto e amplificato proprio dal boom delle riviste patinate. Il linguaggio evolve dai figurini e dall’illustrazione ai grandi servizi in studio e in location (destinazioni esotiche e produzioni internazionali), a cui poi seguirà l’epoca delle top model, delle maxi campagne pubblicitarie, degli investimenti ipertrofici».4 È nella possibilità d’accesso allargato e immediato che, sostiene la studiosa, «s’incardina la svolta della moda da fenomeno d’élite e di differenziazione di classe a libertà identitaria [ed il timore dell’anonimato] si supera rafforzando ciascuno la propria personalità, per minima che sia»5 in un difficile equilibrio tra rassicurante omologazione e desiderio di differenziazione.

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta l’inserto domenicale del New York Times trasforma, pubblicandole, le immagini di semplici passanti in icone contemporanee. Il fotografo Bill Cunningham, che ha documentato per mezzo secolo la moda nelle strade newyorkesi, «è stato un grande precursore, non tanto per la capacità di cogliere le tendenze, quanto per il modo di comunicarle, per il rivoluzionario ribaltamento dell’apparato semantico […]. A lui si deve far risalire la storia dei fashion blogger, che oggi rappresenta un giro d’affari gigantesco […]. The Sartorialist apre ufficialmente i battenti nel 2005. Brian Boy comincia a postare foto di gente comune, eleggendo l’uomo della strada ad arbiter elegantiarum o almeno a trend setter: diventa quasi subito un caso. “La mia sola strategia quando ho aperto il blog era quella di fotografare stili e persone in un modo che ispirasse i designer”. L’osservazione è interessante: non è più il designer che impone il suo stile e la sua creatività, è la strada, è la metropoli che lo ispira. “La rete è la grande equalizzatrice”, dice ancora Brian Boy».6

Se i primi siti internet di moda fanno la loro comparsa attorno alla metà degli anni Novanta, lo snodo fondamentale nella storia della moda digitale si deve alla realizzazione dei fashion blog all’inizio del nuovo millennio. «Il rapido ricambio di informazioni è diventato in generale un tratto caratteristico dei fashion media online. Non solo questi hanno reagito alla popolarità della blogosfera attraverso il lancio dei loro blog, ma hanno anche assunto le qualità di velocità e immediatezza attraverso la creazione di sezioni che chiaramente rientrano nella tendenza delle notizie veloci».7

Gli spazi sul web dedicati alla moda si strutturano attorno alla rapidità, all’immediatezza ed alla frequenza. Se la rapidità è un tratto caratteristico della moda, insieme alla propensione all’effimero, «i fashion media hanno sempre dovuto riflettere, e insieme sostenere, questa evanescenza attraverso il costante aggiornamento delle loro pagine, giacché le riviste di moda sono esse stesse la materia prima della moda».8

Con internet è stato impresso un ritmo prima impensabile alla circolazione delle notizie sui media e i blog hanno del tutto destrutturato la tempistica dell’informazione tradizionale nata col proliferare dei quotidiani nel secolo dei Lumi, attraverso quella che Hartmut Rosa indica come la loro «ricorrenza in tempo reale di riscontri virtuali».9

Dunque, anche nell’ambito della moda la tempistica sui blog ha subito un’accelerazione senza precedenti, come dimostra l’aneddoto riportato da Agnès Rocamora che racconta di come nell’estate del 2011 una nota fashion blogger si sentisse in dovere di scusarsi per l’inattesa interruzione di aggiornamenti sul suo blog che non pubblicava post da tre giorni. «Che si sentisse obbligata a scusarsi mi colpì come dimostrazione della ridefinizione del tempo che il settore della moda sta sperimentando; un tempo nuovo, definito dall’accelerazione della circolazione di beni materiali e simbolici».10

Le modalità comunicative adottate dai fashion blog ricalcano quelle di una società mercificata e consumista in cui il tempo scorre in maniera sempre più veloce e che non permette a chi visita le pagine di soffermarsi su di esse più di tanto (molto difficilmente si arriva a dedicare un minuto ad una pagina visitata). Lo stile adottato è perciò estremamente sintetico, contraddistinto dalla presenza di refusi, di abbreviazioni e da un tono informale, tutti elementi che contribuiscono a conferire ai blog un’aria confidenziale e conversazionale che ben si adatta, rafforzandola, ad una società contemporanea votata all’effimero e alla rapidità.

Riprendendo le inflessioni di Roland Barthes sulla moda, scrive Nicoletta Polla-Mattiot che ciò che fanno i media che si occupano di moda è raccontare, semantizzare, gli abiti: «costruire la tessitura, insieme visiva e narrativa, che scompone, reinterpreta e ricompone la libertà d’azione dello stile e delle sue evoluzioni»11 L’attuale società dell’istante, incurante com’è del passato e del domani, vive del qui e ora e ciò è perfettamente testimoniato dalla caducità delle creazioni di moda ad obsolescenza programmata sempre più breve. Scrive Rolan Barthes che ogni moda nel momento in cui si presenta si palesa come rifiuto di ereditare, come sovvertimento nei confronti della moda precedente.12 E in una società che ama dimenticare il passato e non pensare troppo al futuro, la moda si rinnova incessantemetne in tempi sempre più brevi.

«Nell’era di snapchat, dove i filmati durano il tempo di essere visti, anche la moda sembra parcellizzare la sua funzione di interprete del momento presente al giorno e all’ora (non più al semestre, all’avvicendarsi di autunno-inverno e primavera-estate, com’è stato in passato. D’altronde, le geo grafie internazionali del fashion hanno da tempo cancellato la stagionalità delle collezioni). Da alcuni anni si parla sempre più insistentemente di “see now buy now”, un ripensamento delle sfilate che consenta di acquistare immediatamente il prodotto, non appena visto, azzerando totalmente il tempo dell’attesa. Anche questo è un portato del contesto (di Internet, dei social, di Youtube, dello streaming che rende accessibile a tutti gli show)».13

I ritmi si sono fatti talmente rapidi che da qualche tempo le sfilate vengono trasmesse online in diretta e vi sono aziende che permettono di acquistare abiti già nel corso della visione dell’evento. Tale velocità ha portato la studiosa Lidewij Edelkoort, nel suo Anti_fashion Manifesto,14 a ritenere che ben al di là delle obsolescenze programmate, che caratterizzano qualsiasi oggetto di consumo, è la moda stessa ad avviarsi a divenire “obsoleta” nel senso che sta implodendo su se stessa autonegandosi.

Con il fenomeno dei fashion blogger gli obiettivi dei fotografi a caccia di immagini nelle settimane della moda si trovano ad avere a che fare con soggetti disposti a tutto pur di essere fotografati. «È la look-at-me fashion, il celebrity circus delle persone “famose per essere famose”. A poco a poco, la spontaneità dello street style è diventato product placement. Questa è l’ultima evoluzione del fenomeno di semantizzazione e interpretazione dei codici vestimentari […] Il product placement ha trasformato i fashion blogger in influencer (di fatto venditori)».15

Vi è stata una trasformazione radicale del racconto della moda nell’epoca dei social, secondo Polla-Mattiot alla costruzione di un linguaggio stilistico personale si è sostituita la personalizzazione: «il contenitore prevale sul contenuto. L’oggetto-moda, debolmente significante in sé, non è semantizzato dal contesto e dalla relazione spazio-temporale con esso (che sia la metropoli d’appartenenza o il percorso narrativo-stilistico di una sfilata o di un brand), ma dal personaggio. La costruzione del racconto, con un suo sviluppo narrativo, è parcellizzata nell’estemporaneità del selfie».16

Con tale eccesso di significazione, tutto diventa equivalente, perciò insignificante e per fare in modo che la moda non risulti obsoleta prima ancora di diventare moda – sostiene Polla-Mattiot, riprendendo Lidewij Edelkoort – bisognerebbe forse saper «tornare alla cosa, alla sua cosità autosufficiente, al segno prima del suo interprete [che dovrebbe tornare ad essere] solo strumento e tramite, non sostituto del contenuto».17


  1. “The highest-paid Instagram influencers, including one star who gets £14,000 per post”, Daily Telegraph, 19 luglio 2017. 

  2. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, in D. Baroncini, Moda, metropoli e modernità, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 132. 

  3. Il termine, nato in Francia già sul finire degli anni Quaranta, può dirsi codificato dalla rivista Vogue nel 1956, quando dedica un intero numero a questo nuovo tipo di proposte di moda. 

  4. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit., p. 133. 

  5. ivi, p. 134. 

  6. ivi, p. 135. 

  7. A. Rocamora, I nuovi fashion media e l’accelerazione del tempo della moda, 2013, in C. Evans e A. Vaccari (a cura di), Il tempo della moda, Milano-Udine, Mimesis, 2019, p. 65. 

  8. ivi, p. 66. 

  9. H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino, 2015 

  10. A. Rocamora, I nuovi fashion media e l’accelerazione del tempo della moda, op. cit., p. 63. 

  11. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit. p. 128. 

  12. R. Barthes, Sistema della moda, Einaudi, Torino 1970. 

  13. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op.cit., p. 131. 

  14. Lidewij Edelkoort, ANTI_FASHION, a manifesto for the next decade, Trend Union, Paris 2015 

  15. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit., p. 136. 

  16. ivi, p. 137. 

  17. ivi, p. 137.