di Sandro Moiso
Alèssi Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 184, 10 euro
Posso assicurare che nessuna delle persone che hanno vissuto questa avventura, dal 1984 al 1992, ha mai rinnegato se stessa – mentre abbiamo visto tanti di quei militanti che volevano illuminare le masse arrivare a occupare posti di responsabilità nell’amministrazione del disastro in corso. Tutti, ciascuno a modo suo, siamo rimasti afferrati dalla rivolta e dall’inquietudine che un tempo dimoravano in noi. (Alèssi Dell’Umbria)
Occorre iniziare dalle ultime righe e dall’ultima pagina di Fuori la grana o vi ammazziamo!, titolo letteralmente rubato ad una scritta comparsa su un muro di Marsiglia agli inizi degli anni ’80, per comprendere appieno il significato di un testo straordinario, provocatorio, irridente e unico come l’esperienza di cui traccia il percorso e la storia, sia collettiva che individuale. Un’autentica, e spesso esilarante, storia di vite fuggiasche per scelta e di rivolte sociali spontanee e imprevedibili.
Storie in cui la tradizione millenarista si sposa con uno sguardo disincantato, maturo e attualissimo sulle contraddizioni del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e del contemporaneo disfacimento della classe operaia europea, delle sue ultime lotte e delle sue sconfitte. Lotte e sconfitte, come nel caso di quelle dei minatori inglesi in epoca tatcheriana, che mescolavano tra loro forti tradizioni identitarie frammiste ad una fiducia nel ruolo dei sindacati che avrebbe contribuito a bruciarle. Sia sul fronte del lavoro che su quello politico.
Una storia, quella del collettivo francese Os Cangaceiros, di cui l’autore è stato a lungo uno degli esponenti, in cui la scelta della fuga è dettata, ancor prima che dalle finali indagini poliziesche, da una voglia di vivere tesa a superare tutti gli ostacoli che gli attuali rapporti di produzione sociali ed economici frappongono alla realizzazione di un’esistenza libera, totale e felice.
In questa scelta si è manifestata apertamente una passione politica non dettata dall’ideologia e dai racket politici e sindacali che se ne sono fatti portavoce, ma da una necessità autenticamente biologica e collettiva che il termine fin troppo abusato di biopolitica non è sufficiente per riassumerne tutte le sue implicazioni sociali, culturali, economiche e, soprattutto, di vita, lotta e rivolta.
Una necessità di allontanamento dalle leggi del Capitale e dei suoi servi, anche quando apparentemente schierati su “posizioni di classe”, che si manifesta non in comportamenti codificati una volta per tutte, come le regole dell’”impegno politico” vorrebbero imporre attraverso il “racket partito” o le sue emanazioni aspiranti marxiste, ma in esplosioni improvvise, individuali e collettive, con un’energia che per decenni ha trovato la sua pubblica e più facilmente identificabile manifestazione nel rock’n’roll e nella musica che affonda le sue radici nel delta del Mississippi: il blues.
«Abbiamo sempre vissuto più o meno in fuga», afferma Alessi mentre racconta le disavventure e le indagini poliziesche che sul finire degli anni Ottanta pesarono sui membri attivi del gruppo. Ma rifiutando le logiche utilitaristiche, spesso messe in atto dai latitanti delle organizzazioni armate, che finivano, pur «mantenendo tutte le dovute proporzioni, nella logica puramente militare di una truppa che vive a spese del paese e dei suoi abitanti», Os Cangaceiros scelsero una particolare forma di fuga che:
invece, deve essere pensata in una prospettiva rivoluzionaria, non in una prospettiva utilitarista che rischia di farci diventare sordi nei confronti del mondo. Il che presuppone anche che la fuga non sia vissuta come un dato contingente (una volta nel mirino degli sbirri, bisogna scappare in fretta e furia e trovare un rifugio costi quel che costi), ma come l’elemento stesso in cui ci si muove, come un rapporto al mondo che si costruisce con pazienza e ostinazione. Allora la fuga non viene vissuta come una conseguenza fastidiosa, ma come l’essenza stessa del proprio agire. Hegel ha detto che essere liberi significa muoversi nel proprio elemento. La fuga era il nostro elemento1.
Una fuga che, anche se rivisitata nelle pagine finali del testo di Dell’Umbria, non faceva altro che sottolineare come per il capitale e i suoi servi, di ogni colore politico, sia proprio la libertà collettiva di coloro che dovrebbero invece solo e sempre adeguarsi alle loro leggi a costituire il crimine fondamentale, cosa che fa sì che siano la repressione e la carcerazione gli unici strumenti con cui lo Stato risponde a tale innata necessità della specie2. Strumenti che Os Cangaceiros, nel periodo intercorso tra la formazione del gruppo nel 1984 e la scelta di sciogliersi nei primi anni Novanta, sempre denunciarono e contribuirono a sabotare con mezzi alla portata di tutti.
Una scelta che, nonostante il tentativo dello Stato francese e dei suoi governi di accomunarli alle formazioni armate, fece in modo che i suoi appartenenti, spesso nomadi per scelta o per necessità, rifiutassero sempre non tanto la logica delle armi quanto piuttosto le logiche politiche imposte dall’uso delle armi alle formazioni clandestine militarizzate.
Puntare un’arma può effettivamente semplificare una situazione, ma al prezzo di altre complicazioni molto spesso più pesanti da assumere… In ogni caso, negli anni Settanta abbiamo visto troppe sbandate finite nel sangue per non sapere che dal momento in cui si prendono le armi, l’improvvisazione e il dilettantismo si pagano sempre cari. I combattenti dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che uscivano allo scoperto all’inizio del 1994, si erano invece preparati metodicamente per anni prima di fare irruzione armati nelle città del Chiapas. Ma di queste armi, hanno sempre cercato di farne un uso strategico, ovvero meditato.
Non avevamo una posizione di principio riguardo il ricorso alle armi. Ciò che rifiutavamo in modo assoluto, era l’avanguardismo militante delle organizzazioni impegnate nella lotta armata. Se gente così diversa, – come per esempio Jacques Mesrine, i tre di Nantes, e più tardi l’EZLN, – ha fatto ricorso alle armi, tutti agivano a proprio nome e non a nome degli altri. Visto che alcune azioni contro la costruzione dei 13.000 avrebbero potuto richiedere l’uso delle armi, a causa soprattutto della presenza di vigilanti, avevamo affrontato la questione in occasione di una riunione nel 1989. Ma è bastata una mezz’ora di discussione affinché prevalesse l’unanimità: una decisione favorevole ci avrebbe trascinati rapidamente in una spirale impossibile da controllare, soprattutto in un contesto in cui gli sbirri non aspettavano altro. Nella nostra posizione, avevamo altre possibilità per agire. Appropriarsi di competenze e abilità in diversi campi ci sembrava molto più cruciale. Perché le questioni cosiddette “tecniche” ponevano anche questioni sociali e politiche3.
Il riferimento all’Esercito Zapatista di Liberazione non è affatto casuale, poiché proprio quell’esperienza agli occhi dei Cangaceiros francesi mostrava come l’azione politica, e militare, non fosse possibile lontana dalle radici su cui si appoggiava e, allo stesso tempo, dimostrava come le rivolte un tempo ritenute millenaristiche, arretrate e comunitarie, alle quali alcuni membri del gruppo avevano già dedicato nel 1987 una vastissima ricerca4, siano sempre state sottovalutate e sottostimate nella loro reale portata dagli “oggettivisti” della tradizione marxista e leninista.
Era il controfuoco che avevamo voluto accendere prima della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese. Così, risalendo il tempo delle rivolte e delle insurrezioni schiacciate, ma non squalificate, andavamo controcorrente rispetto all’evoluzionismo storico. Alcuni di noi avevano letto anche il libro di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania. Il problema era che quella stessa visione progressiva della storia che aveva impedito a Engels e a Marx di cogliere il cuore razionale della rivolta luddista, aveva impedito loro di cogliere anche quello del millenarismo, che restava ai loro occhi una forma di rivolta arcaica. Era d’altronde la vulgata che riprendeva Eric Hobsbawm ne I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. In pratica, tutte queste rivolte che nel sud della Spagna, così come in Italia, assumevano carattere di imminenza radicale, venivano considerate come delle forme immature, fatalmente condannate dall’evoluzione generale della società verso la modernità. Tale visione, che si ritrova anche nel suo libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, aveva la capacità di farci innervosire ancora di più visto che millenarismo e messianismo vi si ritrovavano oltraggiati in nome del partito staliniano, che agli occhi di Hobsbawm era la realizzazione della Ragione e dei Lumi. Solo il libro di Ernst Bloch, Thomas Münzer, teologo della rivoluzione, scoperto mentre redigevamo L’incendio millenarista, metteva in primo piano lo spirito rivoluzionario millenarista della guerra dei contadini in Germania.
Si trattava, in fondo, di rendere giustizia a tutta una serie di movimenti e di sedizioni che avevano attraversato l’Europa per un periodo di cinque secoli… Attraverso il gesto di tornare a prima della Rivoluzione francese, intendevamo proiettarci oltre quest’ultima, oltre quell’orizzonte insuperabile di cui gli stalinisti così rispettosi delle istituzioni repubblicane e i socialdemocratici convertiti al liberalismo si apprestavano a cantare le lodi. Ma le rivolte millenariste esprimevano esigenze anti-borghesi totali, immediate e senza compromessi, laddove invece la Rivoluzione francese consacrava il regno della borghesia5.
Non solo, poiché di quelle rivolte spesso la ricerca storica, anche di parte, ha sottolineato solo le contraddizioni e le aspirazioni apparentemente utopiche e/o religiose, senza peraltro considerare che proprio la soltanto apparente utopia della libertà e dell’autogestione comunitaria delle terra, del lavoro e dei suoi frutti costituiva la più radicale e intransigente rivendicazione materiale del bisogno di comunismo.
Non nella teoria di qualche gruppo o racket politico che si pretende in grado di dirigere le “masse”, ma nell’azione diretta e collettiva delle comunità in rivolta che finivano con l’andare ben oltre i temi sventolati inizialmente dai loro capi e promotori. Così come afferma Marco Natalizi in un suo studio sulla rivolta di Pugačëv nella Russia governata dall’imperatrice Caterina II nel XVIII secolo:
Di per sé, rilevare che le decisioni prese dalle guide di un movimento sono spesso foriere di conseguenze inattese non è certo una scoperta; ma il punto da evidenziare qui è che i ribelli incaricati di redigere i primi proclami […] non erano affatto consapevoli di introdurre novità sostanziali sul piano “politico” e che furono piuttosto l’impossibilità di gestire la rivolta come una scorreria e la necessità dell’assedio e della guerra di posizione a far sì che la loro azione si trasformasse in un esperimento di ingegneria sociale in cui le diverse istanze politiche e culturali confluirono, in un dialogo tra culture, sino a dar vita alla “visione” dei ribelli. E ciò per dire di una “folla” di uomini – costretta a fermarsi, a darsi un’organizzazione, a motivare i nuovi venuti – le cui credenze, sotto la spinta delle circostanze, vennero a poco a poco trasformandosi, nei diversi proclami e manifesti, in un’autonoma e peculiare concezione – secondo il punto di vista popolare – esercizio del potere: la storia di uomini che per sopravvivere e combattere dovettero pensare un’organizzazione […] e nel farlo, ripensarsi6.
Ma ancora non basta, poiché per Os Cangaceiros riscoprire il millenarismo oppure la novità costituita dalle rivolte e rivoluzioni indigene, come quella delle popolazioni del Chiapas, significava anche ricollegare il presente e l’attualità ad una storia spesso rimossa che diventava anche rimozione del tempo con cui occorreva ricollegarsi proprio per vivere pienamente e non essere poi costretti a scrivere come Roman Jakobson nel 1930:
Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente [motivo per cui] secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto7.
Questa visione è quella che ha fatto sempre in modo che i Cangaceiros, ribaldi ancor prima che rebeldes, di cui ci parla Alessi Dell’Umbria in questo testo a metà strada tra saggio e autobiografia collettiva, prendessero parte a molte delle rivolte e delle manifestazioni, spesso violente, che agitarono le due sponde della Manica negli anni Ottanta, senza però mai aver la pretesa di dare loro ulteriori contenuti o di spingerle oltre i limiti che gli stessi partecipanti si davano di volta in volta. E senza mai dimenticare che la vita deve essere vissuta in ogni suo momento, molto al di là o al di qua delle parole d’ordine politiche.
Non volevano esse avanguardie i compagni e le compagne dell’autore, ma nel vivere una vita libera dalla schiavitù salariale ebbero modo di riflettere sui danni che quelle stesse rischiavano di mettere in moto ogni qualvolta cercavano di mettersi alla testa delle proteste oppure sull’opera di imbonimento che i vari partiti e sindacati di Sinistra svolsero nei confronti delle richieste e delle intenzioni reali che stavano alla base di quei movimenti, spesso inizialmente spontanei.
Tutte azioni e scelte, quelle dei racket estremisti, sindacali o socialdemocratici, che non potevano far altro che portare a cocenti sconfitte e delusioni che, insieme al lento e inesorabile trionfo dello spettacolo della merce e delle illusioni proprietarie, avrebbero finito col far transitare il soggetto un tempo proletario, operaio e ribelle europeo nelle file della destra razzista e nazionalista.
Creando così, allo stesso tempo, un immaginario scontro istituzionalizzato tra Destra e Sinistra con cui lo sviluppo di movimenti come Podemos oppure France Insoumise non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza e la mancanza, oggi, di un reale e condiviso movimento antagonista radicale oppure la sostanziale sottomissione alle esigenze della Nazione e della sua Economia dei gruppi che vorrebbero esserne i rappresentanti formali.
Sono 183 le pagine che compongono questo agile e denso manuale di sovversione e liberazione della vita sociale. Pagine in cui i suggerimenti sul come truffare, un tempo, le banche per vivere senza bisogno di lavorare in maniera coatta si mescolano a quelle per i sabotaggi a ferrovie e cantieri per aiutare i reclusi in lotta oppure a riflessioni fulminanti e importanti sulla composizione di classe, le culture di strada e sul rifiuto delle cariche istituzionali e universitarie così come di un’istruzione classista e di quasi tutta la ricerca prodotta nelle sedi del potere ad essa riconducibili.
Così le impressioni successive agli scontri dei minatori inglesi sotto la Tatcher si mescolano a quelle relative alle rivolte dei giovani immigrati e punk di Brixton, oppure agli scontri degli hooligans con la polizia in ogni angolo d’Europa o dei giovani che si oppongono alla chiusura oraria di un pub o all’apertura di un nuovo e devastante cantiere per una grande e velenosa opera desinata a distruggere vita umana e ambiente. Magari scientificamente motivata dal “progresso”.
Ma ci sono molte altre considerazioni che qui non possono essere tutte affrontate insieme, mentre il Jim Morrison di «We wanti the world and we want it now!» rimane lì come un faro ad illuminare la via tra gioie, sconfitte, amarezza e speranza che nessun progetto carcerario o politico istituzionale potrà mai contribuire a cancellare del tutto perché, come si afferma ancora nel testo, la memoria, per esser davvero tale, è sempre rivolta al futuro.
Note a margine
Per approfondire i temi affrontati in questo libro, si consiglia la visione della video-intervista ad Alèssi Dell’Umbria, realizzata nel marzo 2025 al bar de la Plaine a Marsiglia, dal titolo: L’histoire d’Os Cangaceiros. Banditisme, sabotages et théorie révolutionnaire, disponibile online sul sito lundi.am.
Dello stesso autore oltre al già citato Incendio Millenarista è stato pubblicato in Italia anche Il rogo della vanità, autoproduzioni fenix, Marsiglia Torino Parigi, primavera 2009 (Edizione originale francese: C’est de la racaille? Eh bien j‘en suis!, edizioni L’echappée, Marsiglia, maggio 2006).
A. Dell’Umbria, Fuori la grana o vi ammazziamo!, Edizioni TABOR, Valsusa 2025, pp. 120-121. ↩
Si veda in proposito l’opuscolo: Un crimine chiamato libertà, edito in Italia nel 2003 dalle edizioni l’arrembaggio e NN, in cui sono raccolti alcuni testi pubblicati sul secondo numero della rivista «Os Cangaceiros» nel novembre 1985, dedicato alle rivolte dei detenuti francesi del maggio 1985, insieme ad altri sempre prodotti dall’omonimo collettivo francese ↩
A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 169-170. ↩
Yves Delhoysie – George Lapierre, L’incendio millenarista. Tra apocalisse e rivoluzione, Malamente – Tabor, Urbino – Valsusa, 2024. ↩
A. Dell’Umbria, op. cit., pp. 97–98. ↩
M. Natalizi, La rivolta degli orfani. La vicenda del ribelle Pugačëv, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 97. ↩
R. Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Giulio Einaudi editore, Torino 1975, p. 42. ↩



