di Gioacchino Toni
Andrea Rabbito, Pictorial Trump. Il ruolo politico delle nuove immagini, Introduzione di Ruggero Eugeni, Postfazione di Roberto Revello, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 180, € 14.00
«Il pubblico […] si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede». Così scriveva negli anni Cinquanta del secolo scorso Roland Barthes (Miti d’oggi, 1957) a proposito del wrestling, uno «spettacolo eccessivo» costruito su di una successione di attrazioni immediate non necessariamente connesse tra loro e in cui «non c’è problema di verità».
Come scrive Ruggero Eugeni nell’Introduzione al volume di Andrea Rabbito, non è difficile vedere nel wrestling il modello comunicazionale di Trump: «Spettacolarità, eccesso, immediatezza, presenza scenica, montaggio velocissimo di gesti enunciazionali, sostituzione della verità con l’efficacia» (p. 13).
Incurante della verità, Trump adatta gli eccessi spettacolari al contesto delle immagini algoritmiche contemporanee che in lui, scrive Eugeni,
funzionano in quanto modelli efficaci del mondo e quindi strumenti di orientamento delle scelte collettive perché trasformano il mondo non solo in immagine, ma nel suo proprio spettacolo. Le immagini algoritmiche vengono cioè messe al servizio di una spettacolarizzazione quotidianamente ripetuta del mondo; una spettacolarizzazione sguaiata che rilancia ossessivamente il ruolo di potere del Presidente; e il cui livello di probabilità scompare a fronte del lancio eclatante, di quella “verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita” di cui parla Baudelaire nella citazione che apre l’articolo di Barthes (p. 13) .
Rabbito guarda alla costruzione e alle strategie di utilizzo dell’immagine come simbolo del Potere da parte di Trump rapportandola all’ascesa dei nuovi media e delle nuove immagini contraddistinte da specifiche modalità di produzione, circolazione e fruizione. Per quanto possano apparire bizzarre, le modalità con cui l’attuale Presidente degli Stati Uniti si presenta ai media, dunque al proprio Paese e al resto del mondo, derivano da una strategia di immagine che, sin qua, sul fronte interno, ha saputo intercettare aspirazioni e frustrazioni presenti in una fetta consistente della popolazione con l’ambizione di plasmare, un poco alla volta, l’immaginario statunitense ben oltre il suo elettorato.
Rispetto al primo mandato, Trump non si è limitato ad adottare modalità e slogan sopra le righe in campagna elettorale per poi “normalizzarsi” una volta ottenuto il successo; pur tra mille contraddizioni, tra bluff, menzogne, repentini cambi di rotta, negazione dell’evidenza, ripensamenti e azzardi, il secondo mandato si è aperto all’insegna del mantenimento della radicalità espressa durante la ricerca del consenso per assicurarsi la vittoria.
L’immagine con cui Trump si presenta ai media è all’insegna della rottura rispetto alle consuetudini. Basti pensare alle messe in scena inusuali con cui è solito mostrarsi in conferenza stampa insieme a qualche collaboratore, nei colloqui con personalità politiche straniere o, persino, nel recente e surreale ricevimento della squadra di calcio di Elkann mentre, con i calciatori in piedi alle sue spalle, come nulla fosse, seduto, discute di scenari di guerra con i giornalisti. Si tratta di modalità utili a rafforzare l’immagine di Potere di Trump e, al tempo stesso, capaci di mettere a disagio gli interlocutori riducendoli a ruoli di manifesta subalternità. C’è del metodo in questa follia, certo, ma c’è pure tanta follia in questo metodo.
A differenza di William John Thomas Mitchell che distingue tra picture (immagini materiali) e image (immagini immateriali) – distinzione poi ripresa da Hans Belting secondo cui i diversi media trasformano l’image (mentale) in picture (fattuale) mentre quest’ultima, nel momento in cui viene fruita, diventa image nel corpo di chi la osserva –, Rabbito, nell’indagare il caso Trump, ricorre al lemma picture riferendosi sia all’immagine materiale che immateriale, «come pars pro toto, come termine che accoglie e racchiude la complessità del mondo delle immagini» (p. 17).
Sin dagli albori della sua ascesa imprenditoriale, Trump presta molta attenzione all’immagine di sé che diffonde, tanto da far coincidere i palazzi che realizza con sé stesso, con la sua picture. Oltre a marchiare gli edifici con il suo nome, come se si trattasse di bestiame, trasformandoli in strumento promozionale di sé, l’imprenditore statunitense, sottolinea Rabbito, tende a presentarsi come l’unico protagonista delle sue opere proponendosi non tanto come costruttore ma come creatore e realizzatore di sogni.
L’intento di Trump è sempre stato quello di «lasciare il segno», di «sfruttare le immagini per divenire esso stesso immagine, e divenire figura costante nel dialogo pubblico, incidendo sull’immaginario collettivo, fino a giungere a plasmarlo» (p. 25). L’immagine imprenditoriale con cui si presenta Trump in apertura degli anni Ottanta del secolo scorso coincide con quella decantata e sostenuta dall’America reaganiana, di cui, a distanza di decenni, riprenderà il celebre slogan “Let’s Make America Great Again”.
«L’edificio è il suo strumento, mentre il messaggio è la propria picture. Fuso allo strumento “edificio” è il “lusso”. Edifici di lusso e vita di lusso; sono le sue chiavi di accesso nella dimensione mediatica» (p. 43). Fedeli al principio del larger than life, le costruzioni e l’insistita presenza mediatica sono all’insegna dell’eccesso e della trasgressione, elementi utili a catturare l’attenzione soprattutto di chi si sente in balia delle limitazioni che la società impone.
Se Trump risulta affascinante perché mostra di saper realizzare i suoi sogni, non di meno a renderlo attraente è la sua condotta arrogante, insolente, spavalda, kitsch, fuori misura e incurante del politically correct. Consapevole di quanto una tale condotta e certe prese di posizione risultino fortemente divisive, Trump ha sempre giocato d’azzardo accettando il rischio e nel momento in cui la sua immagine di successo si affievolisce rilancia, anziché cambiare strategia.
La scelta dell’espressione accigliata di sfida voluta per il ritratto ufficiale in veste di nuovo Presidente degli USA rappresenta tutto questo; il punto di arrivo di un percorso. La volontà di offrirsi con un volto torvo e minaccioso esprime perfettamente la sua vittoria nel suo gioco d’azzardo, l’affermazione nell’esserci riuscito a farcela mantenendo intatta la sua picture, non scendendo a compromessi, a forme di levigatura, di ammorbidimento. Anzi, spingendo sempre più il limite (p. 47).
Dopo l’intermezzo di “Sleepy Joe” Biden, “Trump is back”, è tornato al posto che gli compete, alla Casa Bianca, insistendo e rilanciando con ogni mezzo necessario, a suon di eccessi e affermazioni sguaiate. Facendo un passo indietro rispetto alla reinsediamento al comando degli Stati Uniti, è dal cinico avvocato Roy Cohn, a cui si è rivolto nel momento del bisogno, che Trump impara ad agire sempre all’attacco, a negare tutto, persino l’evidenza, e a rivendicare la vittoria senza mai ammettere la sconfitta.
A tal proposito Rabbito parla di principio del versus del pictorial Trump, «perfettamente espresso e rappresentato dal trittico dell’attacco (e dell’odio) del neopresidente. Un trittico composto dal ritratto ufficiale realizzato per il suo ingresso alla Casa Bianca, dall’immagine-profilo dell’account Truth, dalla celebre mugshot, la foto segnaletica, scattata ad agosto del 2023» (p. 60). «Attaccare sempre e comunque, dunque. E la weapon picture diviene perfetto strumento d’espressione di questo principio» (p. 62).
Rabbito invita a cogliere come, in maniera inedita, nell’ultima campagna elettorale, l’attacco sia portato avanti in maniera sinergica anche da altri appartenenti alla sua cerchia, come Kristi Noem e J.D. Vance, con modalità a volte persino più marcate rispetto a quelle del leader. Da un certo punto di vista questi collaboratori svolgono un ruolo non dissimile da quello svolto in precedenza da Roy Cohn.
Quella di Trump è una politica feroce permeata sul principio dell’attacco dove chiunque appartenga alla sfera dell’Altro è un nemico. È una politica che intende scardinare lo stato di equilibrio finora raggiunto, per dettare nuove regole, per imporre un nuovo ordine, senza aver alcuna forma di esitazione nel recuperare, abbracciare e far primeggiare posizioni estremiste, razziste, complottiste, negazioniste che sino a oggi erano rimaste contenute e messe ai margini. E, a supporto di questa visione che si vuole promuovere, l’immagine continua a dimostrarsi la perfetta arma su cui puntare (p. 68).
A palesare l’allargamento del versus del pictorial Trump ad altre figure del suo entourage sono anche le celebri immagini dei saluti romani di Elon Musk, azione con cui quest’ultimo «ha dato vita alla perfetta picture che racchiude e mette in pratica, in maniera esemplare, la strategia del versus che Trump ha congegnato» (p. 68).
Il contesto è quello del secondo insediamento di Trump. Se la prima volta il vincitore delle elezioni aveva tenuto un discorso molto cupo volto a mettere in luce il lascito disastroso di chi lo aveva preceduto, nel secondo caso a prevalere decisamente sono il rancore e la sete di vendetta contro i traditori, la green economy, i clandestini, l’ideologia woke e i diritti LGBTQ+, la politica sanitaria, l’economia estera, il Dipartimento di Giustizia, gli stati esteri in generale ecc. Quest’ultimo discorso di insediamento esprime in maniera evidente il principio del versus appreso dall’avvocato Cohn.
Quella weapon picture di Trump, e il pensiero che essa racchiude, ha sollecitato Musk a dare vita a un’espressione violenta e provocatoria che diventasse iconica, che segnasse lo spirito di quell’ascesa al potere, che venisse racchiusa in un’immagine che fosse in sintonia con quella proposta dal Presidente, e che diventasse anch’essa un’arma. Un’arma che minaccia gli avversari e che, nello stesso tempo, sprona gli animi dei sostenitori (p. 71).
Una manifestazione di potere, quella espressa attraverso il saluto romano di Musk che, attraverso la duplicazione del gesto, rivolto a due settori differenti dei presenti, ha voluto ribadire l’intenzionalità dell’autore. Secondo modalità tipicamente trumpiane, l’immagine di Musk con il braccio teso ha espresso il suo messaggio negando poi l’evidenza nascondendosi dietro alla molteplicità di interpretazioni che si possono dare al gesto.
L’immagine a cui ha dato vita Musk non è soltanto in linea con la picture trumpiana ma ne è la piena manifestazione in quanto, sostiene Rabbito, «racchiude e mette in pratica la strategia elaborata dal tycoon lungo il suo percorso di ascesa al potere» (p. 77): attivazione della pictorial spiral (ottenere visibilità, esagerare, accumulare, sfoggiare, azzardare, rilanciare…), attaccare (minacciare, denigrare, appropriarsi, imporsi…), mentire e negare.
Attraverso il gesto Musk ha inteso provocare, divenire picture, ottenere visibilità per sé e per Trump. Un gesto che ha ottenuto attenzione mediatica internazionale e che «ha, secondo il principio della spirale, innalzato il potere del nuovo governo, in quanto ha esplicitato l’arroganza di chi lo compone, l’assenza di scrupoli, la pericolosa mancanza di limiti, per trasformarsi, tutto questo, in minaccia» (p. 78). Una minaccia che pretende reazioni di sottomissione da parte degli altri Stati, così da rafforzare il potere del governo statunitense, dunque incrementarne gli introiti economici per la cerchia del nuovo Presidente.
Dalla vicenda del gesto di Musk emerge come il secondo mandato di Trump sia contraddistinto anche da un sempre più evidente demandare ad altre figure del suo staff il ruolo di “cattivo” addetto al dirty work. «Musk agisce, in questo modo, come un vero e proprio anarchico Joker contemporaneo, risultando una perfetta variante della nemesi di Batman, con pari livello di intelligenza e di ricchezza di Bruce Wayne, disponendo, inoltre, anch’egli, un imponente arsenale di alta tecnologia» (p. 85).
Trump si rivela abile nel ricorrere a Musk come al suo fool, il suo giullare irridente e sopra le righe tenuto a compiacere il Re godendo però della massima libertà d’azione ed espressione. Basti pensare alle scenette nello Studio Ovale in cui al giullare è consentito di starsene in piedi con un berrettino in testa, indossare t-shirt adolescenziali con tanto di figlioletto al seguito libero di comportarsi come a casa propria. Situazioni che sintetizzano perfettamente il nuovo corso della politica statunitense voluto da Trump nel segno del disinteresse per le regole, i valori e le formalità, secondo un canone che ha raggiunto il suo apice con lo sguaiato assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori, molti dei quali, come ha scritto Matteo Bittanti (Reset. Politica e videogiochi, 2023), sembravano un’orda di gamer che, riposti joystick e controller, godevano dell’improvvisa possibilità di poter finalmente scatenare i loro istinti fuori dagli schermi in modalità first-preson.
Rabbito si sofferma anche sulle modalità con cui Trump ha gestito la restituzione mediatica di una questione concernente la sfera privata come la separazione da Ivana Marie Zelníčková. Il declino dei rapporti tra i due, coppia di successo incarnante l’estetica e i valori degli anni Ottanta, viene dato in pasto ai media dallo stesso Trump sia per riconquistare il centro della scena mediatica che per sviare l’attenzione dagli insuccessi economici.
«L’importante è essere al centro della scena; e tale centralità la si può più facilmente raggiungere attraverso un modo di essere controverso e scorretto perché capace di bucare lo schermo e attrarre con maggior forza l’attenzione altrui» (p. 93). Si tratta di un meccanismo applicato costantemente da Trump nella gestione della sfera privata come di quella pubblica, economica o politica. La vicenda della fine del rapporto con Zelníčková palesa anche il complesso rapporto di Trump con i media: da un lato ne cerca complicità nel veicolare ciò che gli torna utile a costo di ricorrere a menzogne, e, dall’altro, non appena si accorge di non riuscire ad ottenerla, li attacca violentemente accusandoli di diffondere falsità.
L’immagine dello Studio Ovale nel momento in cui viene inaugurato e promosso il White House Faith Office (Ufficio della Fede della Casa Bianca) conferisce a Trump un inedito ruolo di guida religiosa.
Trump appare, infatti, avvolto da un’aura divina; si offre come pilastro su cui gli uomini e le donne di fede trovano appoggio e sicurezza spirituali; su di lui, sulle sue spalle, sulle sue braccia, poggiano la propria mano i predicatori, nel mentre sono tutti raccolti in preghiera, con occhi chiusi e capo chino, come fossero ispirati da lui, trasportati altrove grazie a lui, e a lui si affidassero. Trump, in questo modo, non solo trasmette conforto e speranza, ma appare anche medium per una comunicazione con il trascendente (p. 98).
In linea con il primo principio del pictorial Trump, la sacred picture obbedisce all’intento di apparire e imporsi agli occhi dei credenti in Dio come in lui (“In God/Trump We Trust”). Per quanto tale immagine sembri trasmettere un messaggio di fede e di pace, in realtà, sostiene Rabbito, non è difficile scorgervi «una volontà guerrigliera di attacco, violenta e feroce, ma subdola, perché mascherata dalla percezione di un intento del tutto opposto» (p. 102).
Tra i principali obiettivi contro cui si dirige la sacred picture vi sono gli appartenenti a confessioni religiose diverse da quella giudaico-cristiana, la laicità dello Stato e tutto l’universo indigesto al radicalismo cattolico e protestante. Si tratta di un’immagine menzogna; dietro all’apparente natura di sacred picture, di sacralità, del messaggio di pace e di unione benedetto da Dio, si cela una weapon picture, una lie picture mascherante i reali propositi reazionari e di odio che si intendono perseguire in forma organizzata.
Altro elemento ricorrente nella strategia trumpiana è il vittimismo. Gli stessi attentati subiti da Trump a luglio e a settembre del 2024 sono stati utilizzati per confermare dell’odio di cui è oggetto. Un odio viscerale che, è stato sostenuto ad arte, sfocia in una sindrome da disturbo nei confronti di Trump (“Trump Derangement Syndrome”) tale da compromettere la capacità di giudizio delle persone. Il sapiente ricorso al vittimismo proietta Trump al ruolo di eroe temerario che non esita a mettere a rischio la propria vita per il Paese.
La rappresentazione vittimistica di Trump e della sua cerchia, oltre a conferire loro un’aura eroica, fornisce una sorta di lasciapassare per ogni eccesso stante il diritto a difendersi dall’odio altrui. «Nell’immagine menzognera che si intende proporre e diffondere, il violatore viene, dunque, descritto come vittima, e chi manifesta disappunto e richiede il rispetto delle regole, viene rappresentato come un violento carnefice, un oppressore che soffoca la libertà di espressione, lede i diritti, mina l’incolumità altrui» (p. 116). Si tratta, secondo Rabbito, di una distorsione menzognera del reale spinta sempre più in avanti azzardando il limite consentito facendosi scudo del vittimismo.
Il rischio di eccedere mette in moto una separazione netta di due mondi, che divengono inconciliabili tra loro. A uno schieramento a lui favorevole, se ne oppone uno avverso; per l’estremismo espresso dal tycoon, sia nei toni ma anche nei fatti, si genera un acceso malcontento da parte dei suoi oppositori; inimicandosi totalmente un’importante fetta della popolazione (pp. 117-118).
Oltre a produrre polarizzazione, l’estremismo di Trump contribuisce a creare una fascia di popolazione che, timorosa, tenta di ingraziarselo. Il ricorso alla menzogna consente a Trump non solo di attaccare gli avversari beffandosi della verità, ma anche di cambiare opinione, al bisogno, smarcandosi da accordi e dichiarazioni precedenti.
Tra i personaggi da cui Trump ha tratto ispirazione, inducendolo a entrare in politica, nel volume viene indicato anche il magnate del wrestling Vince McMahon, incline a porsi in forme aggressive e a ricorrere all’eccesso, alla menzogna e al politicamente scorretto al fine di catalizzare l’attenzione di un vasto pubblico. Caratteristiche che accomunano i due e che consentono loro di conquistare il centro dell’attenzione generale, dunque di attivare la pictorial spiral che, pur polarizzando le prese di posizione nei loro confronti, consente di imporre la propria picture.
Ad accomunare McMahon e Trump è certamente anche il ricorso alla menzogna più spudorata, che contraddice l’evidente realtà dei fatti, tanto da farne una studiata strategia di azione. Come nel wrestling si chiede al pubblico di sospendere l’incredulità e accettare come vero ciò che è finzione, altrettanto Trump chiede ai suoi sostenitori di reggergli il gioco e di accettare per vero tutto ciò che afferma, anche quando contraddice palesemente la realtà dei fatti. Occorre però sottolineare che diversi sostenitori di Trump non si limitano a far finta di credere a ciò che egli afferma, ma ne sono proprio convinti. Il tycoon si è rivelato particolarmente abile nell’individuare e piegare a proprio vantaggio credenze già presenti in alcuni settori della popolazione amplificandole e diffondendole.
L’individuazione del nemico, o la sua costruzione, per legittimare condotte prepotenti è una strategia diffusa tra i politici dell’estrema destra. «La sega elettrica proposta dal Presidente della Repubblica argentina Javier Milei è la perfetta rappresentazione simbolica di questo piano ed è funzionale a creare una weapon picture che esprima aggressività e opposizione contro tutto quello che – si dichiara – stia portando a picco la società. Attaccare il mondo politico che ha causato il declino e le ideologie che bloccano l’economia: questo è il motto che le destre di tutto il mondo, galvanizzate dalla vittoria di Trump, portano avanti» (p. 135).
Le modalità più rozze e roboanti si presentano come il mezzo più efficace per abbattere un ordine che si ritiene oppressivo ed ingiusto e più vengono amplificate tali percezioni, maggiore sarà la disponibilità dei sostenitori ad accettare linee di difesa estreme.
Trump ha […] lavorato sulla sua picture, l’ha imposta riuscendo non solo ad anestetizzare il giudizio critico della maggioranza nei confronti di quegli eccessi e di quelle scorrettezze che quell’immagine proponeva, ma rendendo perfino accettabile, con il passare del tempo, quel suo oltrepassare i limiti, quel suo essere irrispettoso, violento, bugiardo, per divenire espressioni di un modello da replicare; la picture trumpiana ha così inciso l’immaginario collettivo per attivare importanti modifiche, ha reso apprezzabile ciò che era condannabile; ha contribuito a dar vita a una trasformazione di forme di percezione e di pensiero che assecondassero il suo modello, per orientarle a divenire a sua immagine e somiglianza. Le sue espressioni, appartenenti a un modello di politica per lungo tempo messo ai margini, sono state tollerate, accettate e considerate vincenti, divenendo mainstream (p. 141).
Esiste, però, afferma Rabbito, anche una seconda anima che struttura l’espressione pictorial Trump, definibile Trump-turn, svolta a cui danno mirabilmente immagine i due ritratti ufficiali del Presidente. Dal volto di un sorridente affarista che si è buttato in politica scalando il successo fino ad insediarsi alla Casa Bianca, si è passati a un volto torvo, rancoroso e minaccioso di un politico che, tra le altre cose, ha sostenuto l’azzardo dell’assalto a Capitol Hill, una prova di «violenza vera che segna la fine dei giochi, la fine della simulazione» (p. 147), come del resto attesta la violenta caccia ai migranti irregolari in corso.
Rispetto al primo mandato, sottolinea Rabbito, è necessario per Trump alzare costantemente il tiro, così da sancire che davvero “The Storm Is Coming”, come hanno scritto con entusiasmo sull’immagine del Presidente gli attivisti di QAnon, prontamente rilanciata sui social dallo stesso. La weapon picture mentale veicolata da Trump rimanda sempre più a una weapon picture fattuale.
A differenza di precedenti pictorial turn, che pure non sono mancati nella storia, quello attuale, sostiene Rabbito, sta assumendo una forma del tutto inedita contraddistinta da una rivoluzione nel campo del visuale determinata dall’avvento della nuova immagine, una rivoluzione che stravolge l’intero assetto culturale e sociale, e perfino quello politico ed economico.
Questo è dovuto al fatto che la nuova immagine restituisce la realtà attraverso un processo che vede protagonista la macchina ed esclude la mano dell’uomo. Si attiva quella rivoluzione in cui l’immagine, per la prima volta, aderisce al reale, si offre sempre meglio come analogon perfetto – riprendendo l’espressione di Roland Barthes – del corrispettivo fattuale, proponendosi come oggettiva, attendibile, migliorando con estrema rapidità la propria qualità per suggerire, in termini sempre più soddisfacenti, l’illusione di immediatezza di ciò che propone (pp. 155-156).
Eccoci, dunque, alla vera novità che, secondo Rabbito, caratterizza la contemporaneità: la svolta del Trump turn viene a darsi insieme alla new pictorial turn, alla svolta portata dalla nuova immagine ed è in tale sovrapposizione e confluenza che si determina quello che lo studioso definisce pictorial Trump².
Trump contribuisce sia «alla trasformazione che attivano le nuove immagini nel sistema culturale-sociale-politico-economico» che «al mutamento che avviene in seno alle immagini in generale e, più in particolare, all’interno delle new pictures, in quanto si appropria delle inedite soluzioni offerte da queste ultime e realizza una messa in sistema di elementi che considerati inusuali, fuori dal consueto, stra-ordinari diventano parte di pratiche e fruizioni ordinarie» (p. 158).
Trump, insomma, «fa divenire ordinaria una straordinarietà della nuova immagine; dei caratteri di quest’ultima vengono estremizzati, vengono portati all’eccesso, vengono spinti fino ai loro limiti, per divenire la consuetudine» (pp. 157-158). In estrema sintesi, si potrebbe dire che Trump, nel suo secondo mandato, intende fare dell’anti-establishment il nuovo mainstream. Quando questo voglia/possa essere davvero nuovo dal punto di vista sostanziale, evidentemente, resta da vedere.
Pictorial Trump di Rabbito guarda a una miriade di immagini di Trump costruite e veicolate sapientemente come simbolo del Potere cogliendovi le specificità proprie dei nuovi media e delle nuove immagini, specificità concernenti non solo le modalità di realizzazione e diffusione, ma anche di fruizione. Certo, la fortuna e la durata del trumpismo dipenderanno da svariati fattori; per quanto l’immagine non sia tutto, di certo non è poco e non può essere sottovalutato il suo ruolo nella costruzione di immaginario.
Per quanto, in Italia, l’ascesa di Trump non possa che rimandare a quella di Berlusconi, non fosse altro che per il ruolo di outsider incarnato da entrambi e per l’importanza data dai due all’immagine nelle rispettive fortune, come scrive Roberto Revello nella Postfazione al volume, si tratta però di momenti, contesti e personaggi comunque decisamente differenti e parte importante della differenza risiede nel rapido sviluppo che intercorre tra le due ascese di quella nuova immagine dotata di caratteristiche specifiche e che Rabbito ha avuto modo e merito di analizzare come pochi altri in sue opere precedenti1.
Se l’ascesa di Berlusconi è legata all’universo neo-televisivo-generalista, l’ascesa di Trump è piuttosto legata al mondo digitale e alla nuova immagine. Pur nella consapevolezza delle enormi differenze tra l’universo statunitense e quello italiano, qualche analogia la si potrebbe trovare anche nel confronto tra Trump e Grillo-politico. L’ex comico italiano ha costruito la sua ascesa politica sfruttando soprattutto i media digitali – con tanto di Casaleggio come guru tecnologico, nelle vesti di un Musk minore – e, come nel caso dello statunitense, ha fatto ricorso a retoriche e modalità provocatorie, spavalde, esagerate e incuranti del galateo istituzionale. In Italia, all’accoppiata composta da sguaiata retorica anti-establishment e comunicazione digitale non ha mancato di ricorrere lo stesso Salvini.
Sarebbe riduttivo affermare che, dopotutto, tali esperienze italiane hanno avuto fiato breve, perché, al di là dell’affievolirsi del successo in termini elettorali delle compagini politiche che hanno fatto ricorso a retoriche anti-establishment e comunicazione digitale, queste hanno comunque lasciato il segno non solo nel panorama politico nazionale ma anche nell’immaginario collettivo.
Per quanto le ragioni dell’ascesa dell’alt-right, di Trump e dei suoi epigoni disseminati per il mondo siano evidentemente molteplici e legate ai rispettivi contesti, di certo, come ha mostrato il volume di Rabbito, al loro successo hanno contribuito tanto un uso efficace della nuova immagine e dei nuovi media che il ricorso a retoriche e modalità arroganti, insolenti, spavalde, esagerate e incuranti del politically correct, capaci, nella loro estraneità alla politica istituzionale tradizionale, di sparigliare il campo.
L’efficacia che tali retoriche e modalità anti-establishment hanno avuto nel contribuire a generare consenso per Trump e altri politici di destra ha indotto persino esponenti che si dicono della sinistra antistemica a pensare di potervi fare ricorso per conquistare la pancia della gente. Come si è sostenuto nel tratteggiare l’ascesa dell’alt-right statunitense, occorrerebbe «evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo»2.
Il reale delle/nelle immagini – serie completa
Andrea Rabbito, La meno-quasi e più-realtà. Genealogia delle nuove immagini e indagini dalla prospettiva dei visual culture studies, Con opere pittoriche di Andrea Mangione, Mimesis, Milano-Udine 2023. Su “Carmilla online” [qua]; Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Su “Carmilla online” [1] e [2]. ↩
Gioacchino Toni, La pillola rossa dell’alt-right – 1, “Carmilla online”, 10 Luglio 2023. ↩