di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Sguardi che bruciano. Un’estetica della vergogna nell’epoca del virtuale, Meltemi, Milano 2023, pp. 282, € 22,00

Sull’universo tecnolgico-mediale e su quanto questo rimodelli la percezione e, più in generale, la vita degli individui è stato scritto parecchio negli ultimi tempi e in tutte le sfumature possibili comprese tra le visioni apologetiche e quelle apocalittiche. Il volume di Federica Cavaletti esamina una questione scarsamente indagata: l’esperienza della vergogna nell’epoca delle tecnologie mediali contemporanee. Se la vergogna è un’emozione “dello sguardo” di soggetti altri, tale sguardo può “continuare a bruciare”, come suggerisce il titolo del volume, prolungando i suoi effetti tramite oggetti e contesti. Le tecnologie contemporanee, capaci come sono di procurare appagamento estetico così come sensazioni di disagio, nel loro essere (anche) “tecnologie dello sguardo” non possono che incidere sull’esperienza della vergogna.

Proponendosi di resistere tanto alle sirene tecnofobiche, quanto a quelle tecnottimistiche, Cavaletti affronta dunque l’incidenza di tali tecnologie consapevole di come queste se da un lato accrescono la nostra visibilità agli occhi degli altri, dall’altro potenziano il nostro sguardo su noi stessi, consentendoci di guardarci ed eventualmente modificarci dal di fuori. I social media e le comunità digitali, così come la realtà virtuale, ad esempio, tendono a prestarsi ad entrambe le funzioni: mettono in vetrina la nostra immagine, sottoponendola così a sguardi altrui, ma ci consentono anche di intervenire su tale immagine.

A differenza di quanti sostengono che nell’attuale contesto di vetrinizzazione tecnomediale, l’esperienza della vergogna tenda a disancorarsi dal suo statuto e dal suo significato morale e relazionale per legarsi soprattutto al giudizio sull’apparenza, dunque a perdere di profondità, Cavaletti si dice convinta del fatto che la vergogna resti ancora oggi un’esperienza tutt’altro che depotenziata, palesandosi piuttosto nella sua variante “scopofobica”, determinata dalla presenza di un sguardo altrui, o di un suo surrogato oggettuale, percepito come giudicante ed i media interattivi contemporanei non possono che accentuare tutto ciò.

Nei media interattivi la condizione di trovarsi a essere oggetto dello sguardo altrui è indubbiamente ulteriormente accentuata. Che l’interlocutore sia un essere umano o una macchina, in tutti i modi replica e modifica più o meno palesemente le dinamiche proprie dei rapporti della vita reale. Se da un lato l’interattività tecnologica può accentuare le esperienze di vergogna proprie della vita concreta, dall’altro, sostiene Cavaletti, questa offre opportunità di «resistenza agli attacchi dello sguardo altrui e di affermazione di un senso di sé irrobustito e rinforzato».

Chi elude gli standard di aspetto “conformi” alla collettività facilmente è oggetto di reazioni avverse. L’universo tecnolgico-mediale contemporaneo «offre uno spazio di presentazione di sé alternativo: la società parallela, per così dire, del web, e in particolare delle comunità virtuali. Si tratta di spazi online accessibili a una moltitudine di utenti, che si trovano ad agire in tempo reale mentre svolgono attività di vario tipo».

Chi intende far parte di una comunità virtuale è tenuto a creare una propria rappresentazione virtuale, o avatar, dunque, nel caso «si trovi a possedere nella vita reale un corpo che lo espone a esperienze di vergogna» ha la possibilità «di sperimentare con il proprio aspetto in modo inedito: riproponendolo quale esso è nella realtà, e provando a manifestarlo in un contesto a rischio ridotto (in quanto in grado di escludere, se non altro, l’aggressione fisica); oppure [di alterarlo] radicalmente, per vestire dei panni completamente nuovi».

Insomma, secondo la studiosa le comunità virtuali permettono di rielaborare «il rapporto con il proprio corpo e con sé stessi, e con la vergogna connessa a questo aspetto». Affinché ciò sia possibile, però, ricorda Cavaletti, occorre che le piattaforme tecnologiche permettano di plasmare avatar “non conformi”, e ciò, al momento, non è sempre garantito.

La studiosa si sofferma anche sul «nesso (supposto) tra caratteristiche corporee e caratteristiche della personalità» che inducono alcuni individui ad espandere il senso di vergogna determinato da un tratto fisico “non conforme” alla “non conformità” dell’identità nel suo complesso, dunque a pensare «di potere “correggere” quest’ultima attraverso un intervento di “correzione” del corpo». Esistono tecnologie in grado di andare in questa direzione, come ad esempio quelle indossabili; si pensi agli smartwatch che permettono il monitoraggio di diversi parametri corporei o la stessa realtà virtuale che consente il rispecchiamento e la manipolazione visiva dell’aspetto di un individuo.

Difendersi da forme di aggressione – es, il “body shaming” – attraverso strumenti tecnologici wearables rischia di condurre il soggetto a una sorveglianza autoimposta votata all’assoggettamento a standard di adeguatezza assoluti mortificanti chi non riesce, o non vorrebbe, raggiungerli. «La posta in gioco, nell’utilizzo di tecnologie di questo genere, non è tanto il rapporto delle persone con il loro corpo materiale, quanto quello con la loro immagine corporea». Quanto tali correzioni siano in grado di determinare un beneficio lenitivo reale al senso di inadeguatezza o quanto invece finiscano per «soggiogare gli individui a vincoli ancora più insidiosi» è oggetto di approfondimento da parte di Cavaletti.

La studiosa analizza anche circostanze e modalità di interazione con le tecnologie contemporanee caratterizzate in «senso solidale, prosociale, eventualmente terapeutico». Rispetto al mondo fisico extramediale, la flessibilità del digitale e del virtuale, sostiene Cavaletti,

fornisce opportunità molto più ampie di sperimentazione e di messa in discussione dello stato di cose esistente. Posta questa condizione di base, diventa possibile lavorare alla realizzazione di una società virtuale che sia improntata al concetto di cura […]; che dunque venga incontro all’esigenza delle persone di venire rappresentate per come sono, o per come ambiscono a essere, senza che questo sia intralciato da interfacce o ambienti ostili. Abitare corpi virtuali in linea con i nostri desideri può davvero […] innescare cambiamenti positivi nel rapporto che intratteniamo con il nostro corpo e con la nostra identità concreti. È quindi indispensabile permettere che questo possa accadere, e che possa accadere per tutti.

Affinché ciò sia possibile, sottolinea l’autrice, è però necessaria un’opera di reale alfabetizzazione tecnologica e mediale e una reale accessibilità ai mondi virtuali e agli strumenti che ne consentono la fruizione. Quanto e come si possa incidere attivamente affinché chi detiene le piattaforme e le tecnologie lo consenta è questione che tocca tutti coloro che riescono a sottrarsi tanto alle sirene tecnofobiche, quanto a quelle tecnottimistiche.