di Franco Pezzini

(qui, qui e qui le puntate precedenti)

Théophile e le visitatrici

La fiaba dell’esorcista brutale e della reificazione dello spazio dei sentimenti a un’economia banalizzante evocata da Keats in Lamia sarà ripresa in Francia con esempi anche più noti da uno degli eredi di Nodier, il grande Théophile Gautier. Raffinato cantore di seducenti femmine oltremondane – la marchesa de T*** di Omphale, Clarimonde di La morte amoureuse e Arria Marcella dell’omonimo racconto, fino alla protagonista di Spirite – Gautier riconduce però l’esorcismo alle coordinate del fantastico nero, quale teratomachia tra un anziano maschio odiosamente severo e un grazioso mostro-femmina di natura vampiresca.

Nel raccontoLa morte amoureuse”, pubblicato nel 1836 sulla “Chronique de Paris” (23 e 26 giugno), rivista con cui l’autore ha da poco iniziato a collaborare – e unito in seguito alla raccolta Une larme du diable (1839) e poi alle Nouvelles (1845) – gioca senz’altro, malinconicamente, il dato della scomparsa dopo lunga malattia dell’amante di Gautier, la misteriosa Cidalise vittima della tisi, avvenuta proprio nel marzo 1836. Frequentatrice del giro di Gérard de Nerval che ne evoca “gli occhi cinesi” e in precedenza partner del pittore Camille Rogier, Cidalise, apparsa nelle vite degli intellettuali del Cenacolo nel 1833, viene descritta “magra, pallida, con gli occhi bistrati”, “china come un salice piangente” e usa a parlar solo a monosillabi. Si è ipotizzato si identificasse in una Eugénie detta Jenny, baronessa D. – qualche traccia emerge in un Album Amicorum 1833-1865 (vendita di Sotheby’s, Parigi 16 dicembre 2008, n. 69) dove un disegno originale di Gautier, datato “Ott. 1833”, rappresenta una giovane donna in riposo su una poltrona con l’iscrizione: “La sua anima aveva rotto il suo corpo. V.H.” (Gautier richiama questo verso di V. Hugo come epigrafe alla sua poesia Une âme nelle sue Poésies). Si tratta molto probabilmente del ritratto di Cidalise (se ne conosce solo un altro di Rogier). Tale presenza evanescente e quasi pneumatica potrà avere un ruolo di qualche rilievo non solo nel racconto di quell’anno, ma in tutto un filone di fantasie di Gautier.

Vita a parte, in “La morte amoureuse” (per la traduzione qui utilizzata, cfr. Théophile Gautier, “L’amante morta”, in Id., Racconti fantastici, a cura di Goffredo Feretto, traduzione di Maria Gioia e G. Feretto, Ecig, Genova 1989 – riporto solo i nomi dei personaggi agli originali in francese) si avvertono gli imbarazzi del Diable amoureux di Cazotte, i richiami al filone delle amanti spettrali de La sposa di Corinto goethiana e delle Notti fiorentine di Heine (dello stesso anno), e naturalmente la lezione di Hoffmann, molto apprezzato in Francia.

 

Gautier inaugure une série de récits dans lesquels il s’attache à nier la séparation des belles mortes et des vivants. Il partage en effet la « croyance philosophique » exposée par Goethe dans l’acte d’Hélène du second Faust, selon laquelle la beauté des êtres et des choses subsiste éternellement dans un au-delà situé hors de l’espace et du temps. Gautier postule que cette beauté peut être rappelée à la vie par la seule force du désir: «l’amour est plus fort que la mort, et […] finira par la vaincre». Il affirme la toute-puissance du magnétisme, de la télépathie et de la sympathie, qui permettent aux âmes de s’attirer mutuellement, de se reconnaître, de se comprendre et de s’unir, en deçà du langage, par-delà les séparations spatiales et temporelles, et par-delà la frontière de la vie et de la mort. La belle Clarimonde peut ainsi revenir du passé pour aimer le jeune prêtre Romuald, et pour nouer avec lui un lien qui défie les limites assignées à la condition humaine. Ce lien, scellé par un double pacte – des fiançailles puis un blasphème –, autorise la morte à revivre l’amour avec un vivant, et le vivant à la suivre dans l’au-delà.

(Marie-Pierre Chabanne, “La Morte amoureuse, ange romantique de la Beauté, et les dispositifs pré-cinématographiques de Gautier”, in Le dépassement des limites. Au-delà de l’humain, a cura di Laurent Gourmelen, Presses universitaires de Rennes, Angers 2021)

 

E tuttavia, in modo piuttosto trasparente, sono soprattutto Lamia e Apollonio keatsiani che tornano qui a scontrarsi nei panni rispettivi di Clarimonde, defunta cortigiana di fatale bellezza, e del severo abate Sérapion; il ruolo di Licio è invece ricoperto dal narratore Romuald, mentre l’epoca (XVII-XVIII secolo?) e il luogo (la città di S***, plausibilmente in Italia) restano evocati in termini elusivi.

Il racconto si configura in effetti come una lettura puntuale della Lamia keatsiana in chiave vampiresca, ed è interessante dedicarvi qualche attenzione. Sérapion può idealmente additarsi quale primo teratomaco su sfondo moderno: l’ambientazione della vicenda in un mondo compiutamente cristianizzato introduce infatti una variabile fondamentale per il fantastico. Diversamente che nel mondo pagano di Lamia, la dialettica non si ferma all’orizzonte di salvezza o rovina qui e ora, nella prospettiva/miraggio di un infinito virtuale, dei sensi o della psiche, promesso dalla bella seduttrice: a muovere il teratomaco è anzitutto l’ansia per la salvezza dell’anima, nell’ottica di un infinito metafisico di cui l’inquietudine dell’Autore non riesce a contentarsi. Ciò che rilegge in modo nuovo (e, come vedremo, niente affatto scontato) le questioni sull’innocenza del mostro-femmina e sulla credibilità del teratomaco: a partire dal titolo, “La morte amoureuse”, che denuncia una simpatia tutta romantica per la vampira e le sue ragioni.

Nel racconto il sacerdote Romuald, folgorato il giorno dell’ordinazione dall’incontro con Clarimonde – una donna bellissima come sortita dai dipinti veneziani dei secoli precedenti, che sembra volerlo strappare alla cerimonia e poi lo avvicina per rampognare la sua scelta – cade in una crisi profonda: a confonderlo ulteriormente è l’invito da parte di lei all’indirizzo di un “palazzo Concini”. L’infelicità si lega cioè a un passo fatale commesso (in questo caso la scelta del sacerdozio) e al vano tentativo di sottrarvisi all’ultimo momento (il turbamento durante il rito): e Romuald sta appunto consumandosi nell’angoscia sul letto della propria stanza, quando si avvede che l’abate Sérapion lo “osservava attentamente”. Dell’abate non conosciamo l’età – anche se in relazione a Romuald e in considerazione del ruolo canonico si può considerare anziano – né il pregresso rapporto col giovane prete di cui dev’essere il direttore spirituale, ma lo sguardo è ancora quello diagnostico e inquisitivo di Apollonio. Giunto ad annunciare a Romuald la nomina a parroco, Sérapion lo ammonisce gravemente a non “prestare orecchio ai suggerimenti del diavolo” e a corazzarsi di preghiere e mortificazioni ascetiche. Merita ricordare in questa sede l’episodio di Éliphas Lévi che si ritira dal sacerdozio – per consiglio del direttore spirituale – proprio perché all’ultimo si è innamorato di un’allieva del catechismo: sarebbe suggestivo che Gautier avesse tratto di lì lo spunto per la fatale ordinazione di Romuald innamorato…

L’indomani lo stesso abate Sérapion parte col giovane – ancora travolto dal pensiero di Clarimonde, ma ora sospettoso di qualche manovra del Maligno – per la parrocchia di destinazione: e mentre con due mule si allontanano dalla città, Romuald nota un alto edificio brillare alla luce di un raggio di sole come in una veduta panoramica di Francesco Guardi o in un diorama e ne domanda il nome al compagno. “«È l’antico palazzo che il principe Concini ha regalato alla cortigiana Clarimonde: vi accadono cose terribili»”, risponde Sérapion, e in quel momento sulla terrazza dell’edificio compare una forma bianca in cui Romuald crede di riconoscere la donna. In quell’“unico raggio di luce” e lontano biancheggiare si gioca il paradosso del racconto, l’ambiguità della schermaglia tra vita e morte, tra i due infiniti in gioco: lo psicopompo Sérapion conduce l’Io narrante verso la regione della morte dal mondo, lontano dalle promesse luminose e terribili di Clarimonde.

È una prospettiva di mortificazione, di affermazione dell’eterno sulla vanitas da quadro del Seicento cui sembra all’inizio intonarsi la convocazione di Romuald, poche pagine dopo, al capezzale di una misteriosa dama in agonia – e che invece finirà sovvertita come varcando uno specchio incantato. Proprio un viaggio speculare al primo (al lento cammino con le mule insieme all’abate si contrappone uno scatenato galoppo su cavalli neri con un Moro dai ricchi abiti esotici) conduce infatti lo stranito parroco a un palazzo sontuoso e al bel corpo di Clarimonde ormai senza vita: e nel corso di una veglia dal sapore onirico, stremato da dolore, fantasie ed effluvi profumati, Romuald si avvicina alla morta e la bacia sulle labbra. A quel punto, come una principessa di fiaba, Clarimonde si risveglia per il tempo di promettergli che ora potrà tornare a visitarlo – e il giovane sviene.

Quando si riprende, nel letto della stanza al presbiterio, sono ormai passati tre giorni (dove il numero allude, in questo caso, a resurrezioni molto profane): e Romuald sta ancora meditando sui fatti accaduti quando all’improvviso piomba sul posto Sérapion, informato del suo malessere dall’anziana governante. Lasciamo la parola al parroco:

 

Sebbene questa premura dimostrasse affetto e interesse per la mia persona, la sua visita non mi procurò il piacere che, normalmente, avrebbe dovuto farmi. L’abate Sérapion aveva nello sguardo un che di penetrante e di inquisitore che mi metteva a disagio. Mi sentivo imbarazzato e colpevole davanti a lui. Per primo aveva scoperto il mio turbamento interiore ed io gliene volevo per la sua chiaroveggenza. Mentre mi chiedeva notizie della mia salute in tono ipocritamente dolce, continuava a fissare su di me le pupille gialle da leone e ad affondare lo sguardo nella mia anima come una sonda. […] La conversazione non aveva chiaramente alcun rapporto con ciò che l’abate aveva intenzione di dire. Alla fine, senza alcun preavviso, come si trattasse di una notizia della quale si fosse ricordato in quel momento soltanto e avesse timore di dimenticarla dopo, mi disse, con voce chiara e vibrante che risuonò alle mie orecchie come le trombe del giudizio: «La grande cortigiana Clarimonde è morta qualche tempo fa, al termine di un’orgia che è durata otto giorni e otto notti. Si è trattato di qualcosa di diabolicamente splendido. Vi si sono ripetute le stesse abominazioni dei festini di Baldassarre e di Cleopatra. In che tempi viviamo, buon Dio! I convitati erano serviti da schiavi negri che parlavano una lingua sconosciuta e che direi veri e propri demoni. La livrea più modesta poteva servire come abito di gala a un imperatore! Da molto tempo correvano strane storie su quella Clarimonde: tutti i suoi amanti sono morti in modo tragico e violento. Si diceva fosse una ghul, una donna vampiro, ma io credo fosse Belzebù in persona». Poi tacque e mi osservò con attenzione ancora maggiore per vedere quale effetto le sue parole avessero prodotto su di me. […] Sérapion mi indirizzò uno sguardo inquieto e poi aggiunse: «Figlio mio, è per me un dovere avvertirvi che avete un piede sull’abisso: state attento a non cadervi. Satana ha le unghie lunghe e le tombe non sono sempre sicure. La pietra sepolcrale di Clarimonde dovrebbe essere sigillata con triplice sigillo: a quanto si dice, questa non è stata la sua prima morte. Che Dio vi protegga, Romuald!»

 

Il discorso dell’abate è interessante, almeno a due livelli. Il primo dei quali riguarda evidentemente il contesto culturale e religioso di riferimento: Sérapion è il direttore spirituale di Romuald, e la prudenza a cui richiama non suona strana (si pensi a tutta una letteratura monastica sulla fuga dalla tentazione) né in sé biasimevole – anche se all’Autore, antidogmatico e aperto alle spiritualità alternative del suo tempo (con tutte le contraddizioni del caso, compresi i dogmatismi delle superstizioni che personalmente lo attanagliavano) quel mondo devoto risulta distante. Ma a ben vedere le parole di Sérapion non si risolvono nei termini generici di un tradizionale quadro esortativo: ed è a questo secondo livello che Gautier, tratteggiando il personaggio (per il quale non nasconde antipatia), lo innesta nella genealogia dei cacciatori del fantastico. Oltre allo sguardo incalzante dell’Apollonio keatsiano, di quel modello sono riproposte dall’abate la parola di rivelazione (sulla natura della terribile femmina) e la brutalità astrattiva e generalizzante, che dalla caratterizzazione senile traghetta a tutto un mondo di angosce visionarie. Così il tono dolce/preoccupato dell’abate prefigura quello di infiniti buoni vecchi del genere fantastico, vampiricamente accaniti su giovani donne-mostro rivali nel possesso del protagonista (maschio o femmina che sia); la stigmatizzazione di un legame tra mostruosità, sesso e sopravvivenze oltretombali già prepara l’azione dell’ammazzavampiri come fortemente, brutalmente moralizzatrice; il brontolio di Sérapion sui tempi sottolinea non senza ironia la senescenza del personaggio, mentre la diffidenza per il diverso (gli “schiavi negri”, la “lingua sconosciuta”) concilia le suggestioni d’epoca giocate da Gautier nel tessuto narrativo e la provocazione verso la ristrettezza di certo immaginario devoto. Alla dimensione illusoria che Clarimonde ha iniziato a dischiudere sembra anzi contrapporsi un’allucinazione di segno opposto, quasi a rendere impossibile un’oggettività del racconto e preparare la schizofrenia del narratore: i fenomeni precipitano in categorie demonologiche (i servi che “direi veri e propri demoni”, la cortigiana che “io credo fosse Belzebù in persona”), e le informazioni in incontrollabili voci e sussurri (“correvano strane storie”, “Si diceva”, “a quanto si dice”). Suggestivo è anche il sospetto che Clarimonde abbia già conosciuto altre vite e altre morti, che rilegge in chiave vampiresca la questione irrisolta in Keats circa precedenti esistenze di Lamia come donna, e insieme riconduce alle successive morti e reviviscenze dei primi vampiri ottocenteschi come Ruthven e Varney, richiamati alla vita tramite bagni di luna o complicità magnetiche di loschi dottori. In sostanza, quando Clarimonde ha approcciato per la prima volta Romuald poteva essere già morta e tornata in vita…

Per l’abate, l’accostamento di Clarimonde a Romuald trova unicamente motivazioni sordide e distruttive (gli amanti “morti in modo tragico e violento”, il “piede sull’abisso”, le “unghie lunghe” di Satana): anzi Clarimonde non esisterebbe neppure in quanto tale, non ci sarebbe spazio per un’identità autonoma e tanto meno per un sentimento di lei – come nell’interpretazione di Apollonio in Lamia. Proprio il divario tra le due parallele illusioni (i mondi allucinatori di Clarimonde e di Sérapion) e insieme – come vedremo – tra le ragioni dei due (taciute o malposte, e dunque incomponibili), dilanierà la vita del parroco: ma sarà l’astrazione generalizzante di Sérapion/Apollonio a precipitare Romuald da una schizofrenia del vissuto (ennesima ma originalissima rivisitazione del tema del doppio) alla finale e invincibile schizofrenia del rimpianto.

Il discorso di Sérapion non può sradicare i sentimenti di Romuald, cui Clarimonde poco tempo dopo apparirà nel sonno. Sta tornando nel mondo e nel corpo, ella annunzia, “per la potenza della volontà”, “perché l’amore è più forte della morte e la vittoria sarà sua” (“Povera ragazza!”, commenta Romuald con candore, senza mettere a fuoco la forza della ciangottante visitatrice): e a spiegare una simile passione – inusuale in una “grande cortigiana” dalla liberissima vita – giunge la sua confidenza di aver amato il giovane prima ancora di incontrarlo, come un sogno riconosciuto in chiesa, troppo tardi, durante l’ordinazione. Se il lettore può interrogarsi sulla sincerità di tale giustificazione, non può sfuggire che si tratta, ancora una volta, di un richiamo a Lamia e al suo particolarissimo colpo di fulmine per lo sconosciuto Licio. La cifra è quella del sogno, della visione: e a Romuald è appena sfuggito dalle labbra di amare Clarimonde quanto Dio, e appunto come in sogno (quello cinese, magari, dell’Imperatore e della farfalla) si spalanca al giovane una vita parallela e un onirico sdoppiamento di personalità – di giorno parroco tormentato, di notte vanesio gentiluomo e appassionato amante di lei in una Venezia incantata. Il palazzo di Lamia è ormai dilatato a tutto un mondo alternativo di piaceri e di bellezza, che nessuna irruzione di Apollonio può violare perché saldamente radicato nell’intimo del discepolo: e le cose stanno procedendo così da qualche tempo, quando all’improvviso Clarimonde si ammala, e le risorse dell’Altrove non bastano a curarla. L’infinito virtuale si arrende alle sue fragili coordinate naturali, e sarà solo un casuale sanguinamento di Romuald, cui la dama si attacca a suggere con frenesia, a guarirla inopinatamente: ma la sorpresa di Clarimonde a quella scoperta spiazza il lettore almeno quanto il protagonista. Se non si tratta di simulazione, la meraviglia può riguardare il potere risanatorio/alimentare del sangue in sé (quasi Clarimonde apprenda solo via via le possibilità e i vincoli della propria condizione), o piuttosto il fatto che ne basti così poco a far vivere la non-morta: comunque l’episodio è sufficiente a suscitare i dubbi di Romuald. Assillato dagli ammonimenti di Sérapion nella vita diurna (“«Non contento di perdere l’anima, volete perdere anche il corpo! Disgraziato giovane, in quale trappola siete caduto!»”), anche in quella notturna il parroco vede moltiplicarsi domande e sospetti: e fingendo di aver bevuto il vino in cui Clarimonde aveva versato una polvere misteriosa, riesce ad ascoltare il soliloquio di lei che angosciata gli sottrae qualche nuova goccia di sangue, pungendogli il braccio con uno spillo mentre lo crede narcotizzato. L’episodio, che insieme allarma (Clarimonde è un vampiro) e rasserena (Clarimonde lo ama e non vuole distruggerlo) – notiamo che tali posizioni hanno diviso i critici di Lamia tra colpevolisti e innocentisti – , finirà tuttavia col far precipitare gli eventi.

Se Sérapion/Apollonio astrae (per di più in modo grossolano) depauperando la comprensione del particulare, l’amore di Clarimonde e il suo rapporto specialissimo con l’amato, la situazione in questo caso è anche più complicata che in Keats. Anzitutto per ciò che riguarda Romuald/Licio, che qui non solo è devastato da una schizofrenia tra piani diversi di esistenza, ma narrando in prima persona espone il racconto a tutti i possibili dubbi di fraintendimento e cedimento all’inganno (il soliloquio angosciato di Clarimonde è simulato per tranquillizzarlo, sapendo di essere ascoltata? E l’intera Venezia incantata non costituisce la fantasticheria di un uomo progressivamente dissanguato, in cui i nessi causali svaporano in desideri e illusioni?). Ma la complessità è maggiore anche da parte di Clarimonde/Lamia, non riducibile alle due possibilità alternative di donna innamorata e mostro divoratore, ma addirittura sfaccettata in una inafferrabile molteplicità, quasi dalla proiezione di una lanterna magica:

 

Possedere Clarimonde voleva dire possedere venti amanti, possedere tutte le donne, tanto era mutevole, sempre diversa, un vero camaleonte. Vi faceva commettere con lei le infedeltà che avreste commesso con altre, assumendo completamente il carattere, l’atteggiamento e il tipo di bellezza della donna che sembrava piacervi. […] Era molto ricca e non voleva che amore, un amore giovane, puro, risvegliato da lei, che doveva essere il primo e l’ultimo.

 

Si tratta in fondo di quella stessa molteplicità nel contesto di un amore primo e ultimo che spingerà Gautier per tutta la vita al medesimo incontro ideale: una donna metamorfica, di accesa sensualità o spiritualizzata dolcezza, emersa dalla fragilità dell’impossibile (poche spanne di stoffa tessuta in Omphale, la polvere di un calco pompeiano in Arria Marcella, qui semplicemente una tomba) per spalancare una dimensione più appagante della realtà..

Certo all’inseguimento e all’amore di Clarimonde non sembra attagliarsi l’interpretazione in malam partem evocata da Le Fanu in Carmilla, il continuo ritorno della vampira via via amante e assassina: ma il racconto non può che attestarsi alla lettura emozionata e innamorata del narratore, senza cercare di provare o di astrarre. Come invece farà Romuald nella sua stessa identità alternativa di gentiluomo, ammettendo che la quantità di sangue succhiatagli è minima e “la donna […] compensava del vampiro” ma insieme che “Sérapion aveva ragione”: l’astrazione generalizzante (categorie di specie, quantità, misure) ripiega ormai l’esperienza incantata verso un irreversibile tramonto. Il sacerdote infatti è in preda agli scrupoli più tormentosi e la sera lotta invano per non addormentarsi, mentre l’abate gli “faceva veementi esortazioni e […] rimproverava duramente la debolezza e il poco fervore”: e per liberare Romuald, decide di condurlo a disseppellire la morta e contemplarla nell’orrore della dissoluzione. Lo sguardo dell’esorcista o la parola di rivelazione non sono più sufficienti: occorre il ludibrio autoptico e (come vedremo) il gesto, la brutalità pornografica di una procedura materiale. Il parroco accetta, ormai esasperato, e i capoversi che seguono – senza dubbio i più gotici del testo – costituiscono idealmente la matrice per innumerevoli catabasi del vecchio ammazzavampiri.

 

L’abate Sérapion si munì di una zappa, di una leva e di una lanterna e, a mezzanotte, ci dirigemmo al cimitero […] «È proprio qui», disse Sérapion e, posata la lanterna, fece scivolare la leva fra gli interstizi della lapide e cominciò a sollevarla. La pietra tombale cedette ed egli si mise al lavoro con la zappa. Io lo guardavo, più nero e silenzioso della notte stessa: curvo sul suo funebre lavoro, grondava sudore, ansimava e il suo respiro affannoso pareva il rantolo di un agonizzante. Era uno strano spettacolo e chi ci avesse visti dal di fuori, ci avrebbe creduti dei profanatori di tombe, dei ladri di sudari piuttosto che dei preti di Dio! Lo zelo di Sérapion aveva qualcosa di duro e di selvaggio che lo faceva somigliare a un demonio piuttosto che a un apostolo o ad un angelo. Il suo volto, dai tratti austeri e nettamente stagliati dal riflesso della lanterna, non aveva nulla di rassicurante. […] Nel mio intimo consideravo abominevole sacrilegio l’azione di Sérapion ed avrei voluto che dalle nere nubi che si muovevano pesantemente su di noi uscisse un triangolo di fuoco per incenerirlo.

 

Proprio tale scena di profanazione, nel contesto di una novella che unisce una vampira e il tema di una doppia vita diurna/notturna, potrebbe aver suggerito a Gautier il nome del terribile abate, con un’allusione all’antologia Die Serapionsbruder di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, 1821: nel racconto più noto, Vampyrismus, l’allarmante Aurelia propina ogni sera un narcotico al coniuge per poi andarsene al cimitero a disseppellire e sbranare cadaveri (si tratterebbe dunque di una specie di gula – cfr. il discorso qui di Sérapion “On a dit que c’était une goule, un vampire femelle”, inteso però genericamente – più che di vampira in senso stretto), e appunto il dialogo tra i “Fedeli di San Serapione” costituisce una sorta di cornice con estesi accenni al tema vampiresco.

I due profanatori giungono così alla bara dove il corpo intatto della bella Clarimonde reca ancora una piccola goccia rossa all’angolo della bocca.

 

Sérapion, a quella vista, s’infuriò. «Eccoti demonio, cortigiana impudica, bevitrice di sangue e d’oro!», e asperse d’acqua benedetta il corpo e la cassa, sulla quale, con l’aspersorio, tracciò una croce. Non appena la povera Clarimonde fu toccata dall’acqua santa, il suo corpo divenne polvere: non restò più che un miscuglio orribilmente informe di cenere e di ossa semicalcinate.

«Ecco la vostra amante, signor Romuald! – disse l’inesorabile prete, indicandomi le tristi spoglie –. Sarete ancora tentato di andare a passeggio al Lido o a Fucina con la vostra bella?» Io abbassai la testa: un enorme vuoto si era creato dentro di me.

 

Come Lamia, Clarimonde scompare sotto l’esorcismo del nemico: incalzato dalle astrazioni, l’incanto fragile dell’infinito virtuale collassa. Più che una vittoria del bene sul male, la scena descritta dal coinvolto narratore evoca i confini “naturali”, esistenzialmente noti, di ogni risveglio violento dall’esperienza unica – a qualunque sentimento o gloria essa attenga, e con un rimpianto che sembra conservare (come ombra, o negativo fotografico) qualcosa di quello stesso infinito e parlarne il linguaggio. Ma parole e gesti non sono sufficienti all’esorcismo: e occorre un segno materiale delle categorie di Sérapion, l’acqua santa, perché il bel corpo sia ricondotto alla polvere. Senza riuscire a dilavare da Romuald il dolore, e ad evitargli un’ultima apparizione dell’amata.

 

«Sciagurato! Sciagurato! Che cosa hai fatto! Perché hai dato ascolto a quello stupido prete? Non eri felice? Che male ti avevo fatto perché tu violassi la mia tomba e mettessi a nudo le miserie del mio nulla? Ormai ogni contatto fra le nostre anime e i nostri corpi è definitivamente interrotto. Addio, mi rimpiangerai!» Si dissolse nell’aria come il fumo e non la rividi mai più.

 

Nell’ambiguità oggettiva dell’esperienza narrata, l’apparizione rappresenta per il lettore quanto più assomiglia a una risposta definitiva sull’onestà dei sentimenti della morta vivente Clarimonde. E se il vivente morto Romuald potrà ora giungere a una qualche “pace dell’anima”, l’orrore che resta, assai più che nelle macabre memorie cimiteriali, è quello esistenziale dell’irreversibile rimpianto.

La ricerca di una Bellezza dal volto di donna, la frustrazione di non riuscire ad aderirvi in pienezza e anzi di lasciarla sfuggire, il divario incolmabile tra realtà e ideale, lo sgomento per la morte e il tempo impietoso e un “personale, intimo dissidio tra esuberanza e disincanto” (Ludovica Cirrincione d’Amelio) rappresentano elementi privilegiati e quasi ossessivi della produzione di Gautier tra il 1834 e il 1845 – e tuttavia continueranno a emergere anche in opere successive, con un’avvertenza persino più convinta delle ragioni dell’Altrove.

È il caso di Arria Marcella, 1852, dove il mondo incantato si trasferisce nella Pompei dell’impero di Tito: ancora una volta c’è una bella non-morta, la cui natura vampiresca rimane oggetto di semplice ipotesi e ancora richiama a Lamia,  e un anziano esorcista del suo stesso mondo antico. Nel racconto infatti, stavolta in terza persona, il sensibile viaggiatore Octavien in visita notturna alle rovine precipita inaspettatamente nei giorni animati precedenti l’eruzione pliniana: e complice la suggestione di un calco – l’impronta di un seno di donna nel coagulo della cenere, rinvenuto nella villa di Arrio Diomede – il giovane avrà la ventura di incontrarne nientemeno che il modello originale. In apparenza la bellissima Arria Marcella (tale il nome della signora) nota il giovane a teatro e lo induce a raggiungerla nel lusso della propria villa: ma presto Octavien apprenderà come quella Pompei vividissima non appartenga esattamente al passato storico. Infatti la giovane donna non reca cibo alle labbra, e beve unicamente “un vino rosso scuro, simile a sangue rappreso” (cfr. Théophile Gautier, Arria Marcella – Ricordo di Pompei, in Id., Racconti fantastici, cit.), sollevandone la coppa con un braccio “freddo come la pelle di un serpente o il marmo di una tomba”. Confessando poco dopo a Octavien:

 

«Oh! […] Quando, al museo, ti sei fermato a contemplare quel pezzo di lava indurita che conserva la mia forma e il tuo pensiero si è appassionatamente rivolto a me, il mio spirito lo ha percepito, nel mondo in cui mi aggiro, invisibile agli occhi del volgo. La fede crea il dio e l’amore la donna. Non si è veramente morti se non quando non si è più amati: il tuo desiderio mi ha reso la vita; la potente evocazione del tuo cuore ha cancellato la distanza che ci separava!»

Il concetto di evocazione amorosa, di cui parlava la giovane donna, faceva parte delle teorie filosofiche di Octavien, teorie che non siamo lontani dal condividere. In verità nulla muore, tutto sempre esiste: nessuna forza può annullare ciò che una volta è stato. Ogni azione, ogni parola, ogni forma, ogni pensiero cade nell’oceano universale delle cose e dà luogo a cerchi che vanno allargandosi fino ai confini dell’eternità. La raffigurazione materiale sparisce soltanto agli sguardi volgari e gli spettri che se ne allontanano popolano l’infinito.

 

Se tale è la natura delle belle ospiti di Gautier, si comprende come Sérapion possa biasimarne, prima ancora che un’eventuale sete di sangue, proprio la propensione pagana al ritorno e il vitalismo carnale. E infatti Octavien ha appena proclamato alla donna eterno amore (letteralmente: “ciò di cui sono ben certo è che tu sarai il mio primo e il mio ultimo amore”, espressione che richiama quella usata da Romuald per Clarimonde: “non voleva che amore, un amore giovane, puro, risvegliato da lei, che doveva essere il primo e l’ultimo”) quando qualcuno interrompe l’idillio.

 

Improvvisamente gli anelli di bronzo della tenda che chiudeva la stanza scivolarono sull’asta e un vecchio, dall’aspetto severo, ricoperto da un ampio mantello scuro, comparve sulla soglia. La barba grigia era divisa in due bande, come quella dei Nazzareni, e il viso pareva solcato dalla sofferenza delle macerazioni; una piccola croce di legno nero gli pendeva dal collo e non lasciava dubbi sulla fede da lui professata: apparteneva alla setta appena sorta dei discepoli del Cristo.

[…] «Arria, Arria – disse l’austera figura, in tono di rimprovero –, il tempo della vita non è stato sufficiente per la tua dissolutezza al punto che ora i tuoi amori infami travalicano anche i confini di secoli che non ti appartengono? Non puoi lasciare i vivi nel loro mondo? La tua cenere non si è dunque ancora raffreddata dal giorno in cui moristi, senza pentirti, sotto la pioggia di fuoco del vulcano? Duemila anni di morte non ti hanno dunque ancora calmata e le tue braccia voraci attirano ancora sul tuo petto di marmo, privo di cuore, i poveri sciocchi inebriati dai tuoi filtri?»

«Grazia, Arrio, padre mio. Non mi tormentate nel nome di quella cupa religione che non è mai stata la mia. Io credo nei nostri antichi dei che amavano la vita, la gioventù, la bellezza, il piacere: non mi fate precipitare nuovamente nel pallido nulla. Lasciatemi godere quest’esistenza che l’amore mi ha restituito!»

«Taci, empia, non parlarmi dei tuoi dei che sono demoni. Libera quest’uomo incatenato dalle tue impure arti di seduzione; non attirarlo più fuori dal cerchio della vita che Dio gli ha tracciato; torna nel limbo del paganesimo con i tuoi amanti asiatici, romani o greci. Giovane cristiano, allontanati da questa larva che, se potessi vederla com’è veramente, ti sembrerebbe più ripugnante di Empusa e di Forchia». […] «Mi obbedirai Arria?» gridò imperioso il gran vecchio.

«No, mai», rispose Aria, con gli occhi scintillanti, le narici dilatate, le labbra frementi, stringendo il corpo di Octavien con le belle braccia di statua, fredde, dure e rigide come il marmo. […]

«Allora, sciagurata, dovrò ricorrere alle maniere forti e rendere il tuo nulla palpabile e visibile a questo ragazzo ammaliato». E pronunciò, con tono autoritario, una formula d’esorcismo che fece sparire dalle guance di Arria le tinte rosate che il vino nero del vaso di murra vi aveva fatto salire.

In quell’attimo, la campana lontana di un villaggio della costa o di un borgo sperduto negli anfratti della montagna fece udire le prime note dell’Angelus. Un rantolo di agonia uscì dal cuore spezzato della giovane donna. Octavien sentì allentarsi le braccia che lo tenevano avvinto, mentre i drappi che la coprivano si ripiegavano su se stessi, come se la forma che li sosteneva si fosse afflosciata.

L’infelice nottambulo non vide più accanto a sé, sul letto del piacere, che una manciata di cenere mista a poche ossa calcinate, fra le quali brillavano bracciali, monili d’oro e resti informi come quelli che vennero ritrovati durante lo scavo della casa di Arrio Diomede: lanciò un urlo tremendo e perse conoscenza.

Il vecchio era scomparso: il sole si stava alzando e della sala tanto sfarzosa non restava che un rudere.

 

In modo anche più evidente che nel La morte amoureuse, l’Altrove – esotico nel tempo e nello spazio, a marcare la distanza dalla meschinità quotidiana in una fuga che in realtà è immersione in più profonde regioni interiori e anteriori – vedrebbe finalmente appagato il cultore della Bellezza: ma a distruggerlo basta l’interpello del tempo, la riconduzione alle categorie del “cerchio della vita”, di cui l’esorcista risulta garante. Di fronte a quelle istanze generali e astratte, normative, la Bellezza inseguita collassa nel grottesco (l’Empusa dell’antico esorcismo filostrateo a monte della trascrizione keatsiana di Lamia) e resta annichilita: e la minaccia di Arrio alla figlia, “dovrò… rendere il tuo nulla palpabile e visibile”, richiama la scelta di Sérapion di mettere – come rimproverava Clarimonde – “a nudo le miserie del mio nulla”. Laddove però il turista Octavien non poteva sperare (o piuttosto temere) in un padre spirituale che lo salvasse imponendogli una simile autopsia, è paradossalmente proprio l’effrazione temporale di Arria Marcella a permettere all’esorcista del passato (il passato storico, del tempo impietoso) di raggiungerla e annientarla. Anche se poi nulla, neppure un matrimonio in apparenza perfetto, potrà liberare Octavien dal ricordo di quell’abbraccio.

Nell’incontro continuamente impedito, ostacolato, esorcizzato con la donna dell’Altrove, il brio e l’amarezza sembrano però abbandonare via via le riserve verso il vampiro: e in un’opera più tarda, come in un estremo sussulto di ribellione, Gautier riuscirà finalmente a sfuggire al Sérapion interiore. Nel romanzo breve Spirite, 1866, sei anni prima della morte, il protagonista Guy de Malivert potrà infine unirsi all’incantevole entità che l’ha chiamato dall’oltretomba, proclamando non solo le consolidate convinzioni dell’Autore su un approccio di Bellezza all’immortalità, ma, tramite echi del classico Swedenborg e sirene dello spiritismo montante, le nuove attenzioni all’occulto del fantastico europeo.