di Franco Pezzini

L’esorcista nel caleidoscopio

Avevo intrapreso un viaggio a Londra, per sfuggire all’inquietudine interiore e dedicarmi senza interferenze alla scienza. […] Mi chiesero subito di fare mirabilia, come se fossi un ciarlatano, e rimasi un po’ scoraggiato, perché, a dirla francamente, lungi dal pretendere di iniziare altri ai misteri della Magia Cerimoniale, mi ero ritratto dal fronte delle sue sfinenti illusioni. Inoltre, tali cerimonie richiedevano attrezzature costose e difficili da reperire. Mi seppellii quindi nello studio della Cabala trascendente e non mi preoccupai oltre degli adepti inglesi.

 

1854: il mago francese Éliphas Lévi, all’anagrafe Alphonse Louis Constant, cristiano (non è stato ordinato prete solo perché all’ultimo si è innamorato di un’allieva del catechismo, e il suo direttore spirituale gli ha consigliato di risolvere prima la delicata situazione) e poi massone, nonché socialista libertario, arriva in Inghilterra, accolto dallo scrittore Edward Bulwer-Lytton e da un corteggio di appassionati e cultori di esoterismo. Un po’ stizzito per le attese che questi gli caricano addosso, neanche fosse un imbonitore di stramberie magiche, in generale Lévi sconsiglia le evocazioni e spinge i discepoli verso una magia essenzialmente speculativa: tuttavia si lascia convincere – appunto dopo la fornitura di “attrezzature costose e difficili da reperire” da parte di un’agiata vecchia signora, cioè un gabinetto magico completo – a evocare l’ombra del grande teurgo Apollonio da Tiana, e probabilmente la vede come occasione di crescita personale per incontrare un sommo filosofo. Nell’opera Dogme et Rituel de la Haute Magie, offrirà dell’episodio una memoria di grande fascino e tra l’altro di rara onestà: la descrizione di un’evocazione che lui controlla solo fino a un certo punto e apre a una dimensione altra, una dimensione all’insegna della morte e che lascia diversi. All’apparire dell’ombra il mago prima sprofonda in un dormiveglia, poi ha la sensazione di cogliere risposta alle proprie domande e la risposta è “dead”/“morto”: qualcosa che ha in fondo più i caratteri di una catabasi interiore che di un vero sensazionalismo sovrannaturalistico. Maugham farà narrare l’episodio al vilain Haddo nel suo romanzo Il mago (1908), e ne trarrà ottimi spunti narrativi su un terreno dove le dimostrazioni valgono pochino e qualcosa dell’aldilà passa nella nostra anima.

Ma coi tempi che corrono, l’antico teurgo non smette di apparire ben oltre i limiti del gabinetto magico di Lévi. Il suo principale anfitrione inglese, Bulwer-Lytton l’ha menzionato in The Last Days of Pompeii e in Zanoni (1834 e 1842); all’epoca dell’evocazione, Flaubert sta già meditando sul suo lisergico La tentazione di sant’Antonio, dove Apollonio epifanizza in forma allucinatoria solo diversamente disturbante davanti all’attonito eremita; e infinite altre chiamate dai morti del “Cristo pagano” incalzeranno tra letteratura ed esoterismo.

Curioso pensare alla mirabolante avventura nell’immaginario di un personaggio storicamente documentato del I secolo dopo Cristo, recuperato a polemiche religiose tardoantiche e all’immaginario esoterico ottocentesco eppure ancora piuttosto sfuggente. Si sta parlando di Apollonio di Tiana, “mago e stregone abilissimo” secondo Dione Cassio, o piuttosto sapiente maestro di vita, come lo celebra Filostrato in una biografia commissionata dall’imperatrice Giulia Domna (e ultimata, sembra, dopo la morte di lei avvenuta nel 217) nell’età meticcia dei Severi: una figura di filosofo, mistico e taumaturgo il cui occhio indagatore, attraverso un caleidoscopio di maschere ed epigoni, resterà a incalzare i mostri del fantastico di consumo come già la Lamia letteraria di Keats. Infatti, proprio l’episodio (notissimo, e più volte riletto nei secoli) della liberazione di un discepolo corinzio da un’insidiosa seduttrice disincarnata si raccorda in termini diretti con tutta una prassi di caccie al mostro letterarie e cinematografiche – in particolare di caccie alla vampira, attraverso le più note elaborazioni di Le Fanu e Stoker. Il profilo di Apollonio, dunque, presenta un rilievo particolare in riferimento all’incubazione di motivi e suggestioni poi infinitamente richiamati.

Lo splendido, policromo testo filostrateo (mi baso qui sull’edizione Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di Dario Del Corno, Adephi, Milano 1988), atipico quale biografia e non totalmente rispettoso dei canoni del romanzo, sarebbe tratto primariamente dall’ipotetico diario d’un Damis di Ninive, sorta di Sancio Panza o di Watson per l’immenso interlocutore lungo il filo delle sue peregrinazioni: dove l’itinerario nella sapienza – nel segno del fascino di nuove latitudini teosofico-sincretiste e (forse) di un’onesta conservazione di parole ed echi del vero Apollonio – si sposa inestricabilmente a quello nel meraviglioso, nutrito di esotismo ed erudizione dal chiaro sapore d’intrattenimento. Caratteri, questi, che certo rispondono e in qualche modo compensano culturalmente il malessere di un’epoca, a fronte di strutture sociali e politiche affette da gigantismo e in continua crisi e di tutto un mondo-labirinto oppressivo e angosciato: e d’altro canto non si riducono a una facile deriva nel mirabile/misterico, riproponendo invece in termini originalissimi un’eredità peculiarmente greca di curiosità, ricerca della sapienza e amore per la libertà. Al punto che, con accenti non scontati in un’opera di committenza imperiale, il maestro spirituale Apollonio dagli straordinari poteri legati all’ascesi – e non alla magia in senso becero, sottolinea Filostrato – si mostra insieme campione della libertà individuale contro i tiranni.

 

Nella scena del processo di Apollonio davanti a Domiziano, l’opera (…) trova il suo colpo d’ala. (…) Prima e durante la prigionia il sapiente ha animosamente sostenuto la sua polemica antitirannica; quando Domiziano dichiara di assolverlo ma vuole trattenerlo presso di sé, egli scompare prodigiosamente, sottraendosi al suo potere. Alla rivendicazione della libertà spirituale corrisponde la liberazione fisica.

[Dario Del Corno, Introduzione a: Filostrato, op. cit.]

 

Colui che già in precedenza, alla domanda del feroce Tigellino sul perché non temesse Nerone, aveva risposto: «Perché il dio che ha concesso a lui di ispirare paura, a me ha concesso di non provarla» (il prefetto del pretorio Eliano, amico di Apollonio, “finì per convincersi che quell’uomo non avrebbe provato paura nemmeno se gli avessero levato contro la testa della Gorgone”), afferma anzi di esorcizzare demoni e fantasmi nello stesso modo in cui affronta gli uomini malvagi ed empi. Alla sapienza serena del Tianeo si dissolvono le angosce, dileguano malattie e demoni, si rialzano morti veri o presunti – al punto da permettere la collocazione della sua immagine nel larario dell’imperatore Severo Alessandro con quelle di Abramo, Orfeo e Gesù, e addirittura un arruolamento postumo quale contraltare pagano di quest’ultimo (benché non siano mancate neppure forzature in senso opposto, come quella improbabile a profeta di Cristo presentata da Giorgio Sincello). Certo le interpretazioni contraddittorie – mago/stregone o sapiente illuminato – offerte di Apollonio in età antica possono ricondursi a una complessa unità in letture e travisamenti della figura storica dell’iniziato pitagorico e delle sue pratiche ricche di simboli arcaici: e d’altro canto esse vedranno nel tempo continue riproposizioni, tra esaltazioni devote del santo pagano e denigrazioni rabbiose a visionario, fanatico o arcimpostore.

La complessità del quadro sembra peraltro riflettersi sulla stessa, estrema varietà di incontri/scontri tra Apollonio e minacciose entità sovrannaturali. Filostrato inizia dunque mostrando il sapiente, in viaggio tra il Caucaso e l’Indo, affrontare un’empusa (protovampira “che prendeva ora questo, ora quell’aspetto, e talvolta svaniva nel nulla”) con una munita batteria d’insulti, e ordinare ai compagni “di fare lo stesso, poiché questo è il rimedio contro un incontro di tal genere” – tanto che “l’apparizione se ne fuggì stridendo, come fanno i fantasmi”.

Più avanti, in India, al Tianeo è sottoposto un caso di possessione da parte d’un demone “di indole beffarda e menzognera”, sedicente spettro d’un morto inquieto e forse innamorato del bellissimo sedicenne in cui ha preso dimora, che il teurgo però esorcizza con un infuocato scritto di minaccia: se la curiosa dignità apotropaica d’una lettera minatoria si fonda sull’idea del peso magico della scrittura, in realtà tutto l’episodio rivela una robusta consonanza antropologica – e una plausibilità storica in relazione al vero Apollonio – con resoconti di possessioni ed esorcismi repertoriati persino in anni recentissimi, anche in Italia (per un quadro recente, cfr. Domenico Scarfoglio e Simona De Luna, La Possessione Diabolica, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2003).

D’altra parte non meno inquietante, per le eco di caccia al mostro-untore d’una prassi plurisecolare (e insieme magari, ai nostri occhi moderni, di leggenda metropolitana nutrita di paura e simboli irriconosciuti), è l’episodio che Filostrato colloca a Efeso devastata dalla pestilenza: il Tianeo smaschera sotto cenci da mendicante addirittura il demone del contagio, che lapidato dai cittadini lascerà a terra un corpo canino grande quanto “un enorme leone” – certo un richiamo ai cani sacri della neolitica Signora della morte e poi di Ecate, e insieme, forse, alle teratomachie di quell’Eracle cui Apollonio s’era rivolto in preghiera (come poi terrà a sottolineare nel testo di autodifesa davanti a Domiziano). Con Ecate, del resto, si confonde o connette quale inviata o accompagnatrice anche Empusa («colei che afferra, viola, si introduce a forza»), figura orrifica di aspetto variabile – giovenca, mula, cagna o donna bellissima, eventualmente luminosa come il fuoco ma con un piede di bronzo e l’altro in sterco di mulo – e tipo/matrice di un’intera specie di demoni succubi assimilati alle lilim («figlie di Lilith») palestinesi dalle natiche d’asino: e appunto un’empusa sarebbe, come abbiamo visto, lo spettro esorcizzato da Apollonio durante il viaggio in oriente. Se sull’equivoco rapporto tra singolo e legione, pluralità caotica ed emanazione di larve aggressive, la demonologia occidentale s’interrogherà per secoli, già i documenti antichi faticano a distinguere le empuse dalle lamie, altre pericolose sfiancatrici di maschi in cui si moltiplica similmente la canina Lamia: laddove poi i caratteri mostruosi e distruttivi di Empusa rammentano quelli di Medusa in una comune contiguità/identificazione con Ecate, l’utilizzo folklorico e persino parodistico della prima la confina in differenti – e meno illustri – ambiti mitici. Sembra probabile che la demonologia filostratea rilegga con una certa libertà i dati tradizionali (un po’ come avverrà secoli dopo nello scarto tra il vampiro del folklore e quello dell’esoterismo colto: cfr. qui), ma la fama seduttiva delle empuse – come il carattere licenzioso del demone possessore del giovane indiano – contribuisce a evocare lo spazio di un eros nero, vampirico e distruttivo contro il quale Apollonio e i suoi epigoni si misureranno per secoli. Lo spazio del mostro sembra aprirsi lì.

Filostrato prosegue narrando come nella Troade il teurgo intavoli una conversazione piacevolmente urbana con il temuto fantasma di Achille, ad Atene liberi un altro invasato da un demone dissoluto e appunto a Corinto salvi da una fine miserabile il bel venticinquenne Menippo di Licia, indirizzatogli con altri discepoli dal filosofo cinico Demetrio.

La vicenda è nota e repertoriata in ogni studio su vamp e vampire, ma è opportuno riproporla brevemente. A Menippo si accompagna una donna “bella ed elegante”, in apparenza straniera e ricca, che l’ha abbordato su una strada isolata e gli si concede nella propria casa in un sobborgo: però Apollonio, dopo aver lungamente osservato il discepolo (e su questo sguardo dovremo tornare) lo spiazza con parole inattese. “«Tu invero» gli disse «sei un bel giovane, e le belle donne ti cercano: ma accarezzi un serpente, e un serpente accarezza te»”. Il teurgo rincara la dose sostenendo che Menippo non può sposare la donna, e gli chiede se davvero è convinto dell’amore di lei – al che il discepolo ribatte, in termini pragmatici, che si comporta proprio come una donna innamorata. Menippo conferma anzi che le nozze saranno celebrate presto, fors’anche l’indomani, ed è interessante osservare come il tempo delle nozze, nei rapporti col mostro (dal folklore fino al cinema) rivesta un’importanza particolare: non solo, evidentemente, quale momento esistenziale forte in senso generico, ma come delicata fase di passaggio in cui il mostro tende l’agguato e che insieme custodisce – una sorta di terzo incluso che si contrappone ai partner (coppia o singolarmente presi) ma insieme ne è specchio oscuro, doppio e guardiano della soglia, non solo in relazione alla sessualità. Apollonio attende dunque il banchetto nuziale, e lì domanda a chi appartenga la ricchezza della sala, sentendosi rispondere da Menippo che tutto è proprietà della donna.

 

Riprese allora Apollonio: «Conoscete i giardini di Tantalo, che ci sono pur senza esistere?» «Sì, dai racconti di Omero,» risposero «dato che non siamo mai discesi nell’Ade.» «Di tal genere fate conto che sia anche tutto questo fasto» disse Apollonio «perché non è realtà, bensì apparenza di realtà. E affinché comprendiate ciò che dico, quest’ottima sposa è un vampiro [lett.: un’empusa], come quelli che la gente chiama fantasmi e streghe. Questi esseri s’innamorano, e il loro amore è rivolto ai piaceri del sesso, ma soprattutto alla carne umana: e con quei piaceri allettano coloro che essi vogliono divorare».

 

Invano la donna cerca di tacitarlo e di ridicolizzarlo: ricchezze e servitori si dissolvono “agli scongiuri di Apollonio” (il particolare, come vedremo, è importante) e a quel punto “lo spettro fingeva di piangere: pregava di non torturarlo e di non costringerlo a rivelare chi fosse” (le suppliche dello spirito impuro e la costrizione a rivelare il nome – cioè la forza propria del possessore – appartengono a tutta una tradizione esorcistica e sono documentate anche nei Vangeli).

 

Poiché quello [= Apollonio] insisteva e non lo lasciava libero, [la presunta donna] ammise di essere un vampiro, e di saziare Menippo di piaceri per poi divorarne il corpo. Era infatti sua abitudine cibarsi di corpi belli e giovani, poiché il loro sangue è più puro. Ho ritenuto necessario riportare per esteso questo episodio, perché è il più celebre della vita di Apollonio. Molta gente lo conosce, dato che accadde nel cuore della Grecia: ma viene tramandato in modo approssimativo, poiché ci si limita a dire che Apollonio a Corinto vinse un vampiro, ma poi si ignora che cosa questo facesse e che il fatto accadde a Menippo. Così lo racconta Damis, e io dalla sua storia l’ho ripreso.

 

Benché evidentemente, come si è visto, gli elementi ricalchino resoconti di genere, pare plausibile che l’episodio rielabori un autentico caso di esorcismo dell’Apollonio storico su un giovane fascinato (l’esame del teurgo sembra teso più a ricercare tracce psichiche che elementi di debilitazione fisica o i classici morsi vampirici della fiction): ma ciò che interessa è il forte radicamento del racconto in una prassi di liberazione spirituale. Tutto il testo filostrateo avalla esplicitamente l’interpretazione esorcistica, il richiamo a una liberazione che giunge essenzialmente dal Dio – come nel caso del demone-contagio di Efeso e appunto (sottolineerà Apollonio nella difesa davanti a Domiziano) in quello a Corinto, entrambi affrontati grazie a Eracle: non insomma grazie alle pratiche dei maghi, giacché simili “sciagurati sogliono […] dedicare tali atti agli abissi e alle divinità di sotterra, da cui Eracle va tenuto ben distinto, poiché è puro e propizio agli uomini […] e apportatore della loro salvezza”. Se però l’orizzonte è spirituale, il testo di Filostrato e in particolare la pagina corinzia già evocano in termini di elegante vivacità romanzesca una dialettica tra corpi, un filone che conoscerà via via enfatizzazioni più marcate: l’esorcismo dell’empusa (della quale Filostrato non racconta la sorte, ma che immaginiamo dileguata come qualunque altro demone ritualmente scacciato) diverrà insomma, nel tempo, una caccia al mostro-femmina dalle forti provocazioni fisiche.

I casi teratologici di Apollonio continuano con un neonato siracusano a tre teste (interpretato quale presagio della crisi politica postneroniana e delle brevissime avventure imperiali di Galba, Ottone e Vitellio), un’affascinante riflessione razionalistica sui giganti e il bizzarro episodio – ancora nel segno dell’erotismo nero – della doma di un satiro. In quest’ultimo, ambientato in Etiopia, Apollonio sta cenando coi compagni in un villaggio quando, all’improvviso, esplodono strilli di donne e grida di allarme degli uomini.

 

In effetti, già da dieci mesi il villaggio era frequentato dal fantasma di un satiro, che smaniava per le donne; e si diceva che ne avesse uccise due, di cui sembrava particolarmente innamorato. La compagnia era spaventata; ma Apollonio disse: «Non abbiate paura; sono i furori di un satiro che abita questi luoghi».

 

Egli però conosce il sistema per placare la creatura e fa versare quattro anfore di vino nell’abbeveratoio del villaggio, poi chiama il satiro “rimproverandolo con qualche formula segreta”: ed ecco il liquido scemare come bevuto da una presenza invisibile. A quel punto il Tianeo suggerisce di far la pace col satiro, che ha ormai smesso di far follie, e lo mostra addormentato in un vicino antro, “proibendo di percuoterlo o di offenderlo” (cfr. l’episodio taumaturgico di Tarso in cui è salvato dalla rabbia non solo il giovane infettato ma lo stesso cane aggressore, a mostrare una sensibilità di Apollonio simpaticamente umana). Se può stupirci la benevolenza verso la lasciva creatura fallica che ha ucciso due donne, a fronte del sarcasmo ostentato nei confronti del mostro-femmina divoratore di maschi, il contrasto non può che ascriversi entro un quadro culturalmente consolidato di simboli e istanze sessuali: Filostrato e probabilmente anche l’Apollonio storico restano tributari a un tradizione di simpatia verso il corteo di Dioniso e i ferini spiriti silvestri, e di ovvia diffidenza verso la legione oltretombale di Ecate. D’altro canto pare interessante la notazione aggiunta – “Se a qualcuno capita di leggere la lettera che [Apollonio] scrisse a un giovane intemperante, dove afferma di avere ridotto alla ragione il demone di un satiro in Etiopia, ricordi questo racconto”– che potrebbe denunciare anche in questo caso una fonte tecnico-esorcistica dell’episodio (la possessione di un uomo da parte d’uno spirito licenzioso?) in un’epistola attribuita allo stesso Tianeo.

Fin qui Filostrato: ma, come per un ennesimo prodigio, le gesta del grande teurgo continueranno a interpellare critica e fantasia dell’occidente mutando di continuo il significato degli atti, le intenzioni del protagonista, le tipologie di spiriti in gioco. Nelle singole riapparizioni, dunque, Apollonio diventa via via stregone o illuminato, cialtrone o santo, visionario o razionalista, in una giostra di volti alternativi che avrebbe divertito lui per primo; e d’altra parte, nella libertà delle riletture non stupisce realmente che del variegato quadro filostrateo si finisca col rammentare soprattutto l’episodio di Corinto.

(1-continua)