di Gioacchino Toni

Luciano Di Gregorio, Le catene dello smartphone. Rischi e implicazioni psicologiche della rivoluzione digitale, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 196, € 18,00

Quando si pensa al processo di ibridazione tra esseri umani e macchine si tende a porre l’accento su quanto queste ultime si stiano umanizzando perdendo di vista quanto gli umani, sottoposti a un processo di “aumentazione” e “correzione”, si stiano rendendo sempre più simili agli apparati tecnologici. Insomma, ci si preoccupa scarsamente di quanto l’essere umano tenda ad assumere le modalità di funzionamento delle macchine digitali e delle logiche strutturanti l’universo social che indirizzano «a un pensiero calcolante e binario, meccanicistico, tipico del mondo della tecnica, che riduce le cose del mondo, le relazioni e finanche le persone stesse, a qualcosa che può funzionare o non funzionare per noi, che può sfavorire o incrementare un potenziale risultato, che ci può permettere di raggiungere un obiettivo con il minimo dispendio di risorse e il massimo della soddisfazione» (p. 39).

Ricorrere ad una app di incontri sentimentali, ad esempio, significa rimettersi alle capacità di calcolo e prevedibilità dei risultati di un algoritmo. Più in generale, lo strumento digitale tende a sostituire il rapporto diretto con la realtà, suggerendo/imponendo correttivi o sostituendosi agli umani nella valutazione di una situazione o di altri esseri umani.

Si tende a cercare nell’apparato digitale, nello smartphone, nello specifico affrontato da Di Gregorio, uno “scudo protettivo” per difendersi dalla complessità del mondo e delle relazioni con altri umani quando queste vengono percepite come troppo impegnative e coinvolgenti. Di fronte a un rapporto richiedente un coinvolgimento emotivo importante, sempre più spesso si preferisce rifugiarsi nelle relazioni fittizie a distanza proprie di un universo social che, con le sue amicizie e relazioni interpersonali surrogate, si rivela meno faticoso e impegnativo.

Quando la realtà, percepita come sempre più incomprensibile nella sua complessità – che in questa fase storica può assumere la forma di un conflitto armato di cui fatichiamo a capire le motivazioni, di un disastro ambientale di cui preferiamo celare le cause, di una pandemia e così via –, genera angoscia, le immagini e i video veicolati dall’universo dei social possono rappresentare una comoda via di fuga dal confronto diretto con la realtà.

È come se dallo schermo dello smartphone si venisse proiettati attraverso i social in mondi altri fatti «di amenità, di oggetti di consumo, di ricette di cucina, di felicità e di successo» in cui si celebra la banalità quotidiana fatta «di azioni ripetute e ordinarie ma vendute sul Web come straordinarie» (p. 41). Il display dello smartphone può venire in soccorso per stemperare lo stato di allarme e di ansia generato magari dalla visione di immagini di una realtà cruda in cui ci siamo imbattuti involontariamente e fuggevolmente tramite altri media.

Di Gregorio prende in considerazione alcune delle funzioni psicologiche che svolge lo smartphone in determinate circostanze tentando di comprendere come questo influenzi il pensiero e la cognizione del mondo e della realtà, come possa «limitare l’orizzonte cognitivo riducendolo a una dimensione sociale domestica che possiamo immaginare di padroneggiare a nostro piacimento» (p. 42).

Attraverso qualche post condiviso sui social, con tanto di raffica dopaminica di gratificanti like, il soggetto tende a vivere l’illusione di sentirsi al centro di eventi collettivi, anche sovranazionali, di poter condizionare attivamente problematiche politiche e sociali su cui, in realtà, non ha modo di incidere realmente. Lo smartphone e lo scambio di opinioni sui social sembrano poter ridimensionare e semplificare la complessità del mondo rendendolo non solo apparentemente più comprensibile, ma anche influenzabile dalle posizioni critiche condivise. «Il consumo in comune di immagini del mondo, in realtà, non significa che noi abbiamo fatto esperienza di quel mondo, ma se mai che abbiamo fatto solo la conoscenza, attraverso opinioni condivise con altri, di un mondo che il più delle volte non riusciamo a comprendere e tanto meno a padroneggiare» (p. 42).

Al di là dell’illusoria sensazione di poter padroneggiare gli eventi più o meno catastrofici attraverso i social, questi ultimi possono anche servire al soggetto per parlare di sé, mettendo le sue problematiche al centro del mondo (social) celando tutto ciò che non sembra riguardare la dimensione personale. Rifugiarsi in un universo ridotto alla parzialità personale, giusto allargato a vite simili, come si trattasse dell’intera realtà sociale abitata, rappresenta secondo Di Gregorio «un’altra di quelle funzioni psicologiche di negazione/alterazione della realtà che ci offre lo smartphone e che può servire a separarsi occasionalmente, o per tempi molto prolungati, da una realtà circostante che appare troppo angosciante e distopica, per essere osservata e compresa» (p. 43).

Tale funzione psicologica di negazione/alterazione della realtà attivata dall’uso social dello smartphone non solo tende ad escludere ciò che circonda il soggetto, ma crea anche l’illusione della padronanza di una realtà ridimensionata e aggiustata a piacimento sulla Rete. «Agiamo come se avessimo noi il potere mediatico di selezionare i contenuti che ci possono dare soddisfazione ed eliminare quelli negativi che ci possono deprimere o amareggiare» (p. 43).

La trasformazione digitale della società, non solo sta eliminando i contatti fisici tra le persone e sta riducendo una parte dei nostri rapporti diretti di lavoro, […] non solo cancella i rapporti con funzionari di servizi pubblici e privati […], ma sembra che voglia portare ciascuno di noi a poter svolgere la maggior parte delle attività, a stabilire delle relazioni interpersonali mediate, più o meno importanti che siano, in qualunque luogo ci troviamo, cioè mentre siamo in mobilità. Non credo che saremmo tanto in errore, o peggio ancora considerati paranoici, se avanzassimo il sospetto che ci sia in atto, ormai già da alcuni anni, un processo di colonizzazione e di standardizzazione degli umani in modo tale che i loro comportamenti interpersonali e sociali, registrati e categorizzati dalle macchine digitali in base agli orientamenti al consumo, i gusti e le passioni, vadano pur se personalizzati tutti in un’unica direzione, un solo uni-verso governato da macchine portatili che ci accompagnano a ogni passo che facciamo, con le quali interagiamo in media ogni cinque minuti. A breve, tutti noi guarderemo il mondo da un’unica cornice panoramica che coinciderà con il display di un cellulare o con lo schermo di un tablet (pp. 14-15).

Senza giungere a demonizzare l’uso della tecnologia, dalla sua prospettiva di psicologo, psicoterapeuta e gruppoanalista, lo studioso indaga le problematiche psicologiche che si affiancano alla diffusione dell’universo digitale e alle semplificazioni che questo offre. Quanto è diffuso, quanto è sistematico e in quali fasce di popolazione – sociali, anagrafiche, culturali e di genere – il ricorso allo smartphone ed ai social sopra tratteggiato? Quanto la scelta di un determinato social è compiuta per seguire il gruppo sociale di riferimento e quanto si è condizionati dai creatori di questi network che intercettano sistematicamente i gusti, le passioni, le tendenze al consumo indirizzando le scelte di vita? Di tutto ciò si occupa Le catene dello smartphone di Luciano Di Gregorio.