di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per il lavoro. Sembra quasi che la ‘mappatura’ della città attuata da Hirayama cerchi di plasmare, lentamente, un nuovo spazio urbano sottratto alle sempre più pervasive “smartificazione” e digitalizzazione. Spostandosi in auto, non mette in funzione apparecchi digitali o connessi ma ascolta esclusivamente canzoni rock americane degli anni Settanta riprodotte da musicassette. Il personaggio guarda quindi lo spazio urbano attraverso il filtro della musica ‘sporca’ proveniente da un apparecchio analogico: il suono, cadenzato dal fruscio del nastro, è infatti lontanissimo dalle algide riproduzioni digitali. Osservando le strade, i palazzi e gli scorci urbani tramite il filtro di una musica proveniente da un ‘altrove’ lontano nel tempo (sia quello a cui appartengono i cantanti e i gruppi rock che quello a cui appartengono le musicassette come oggetti) Hirayama compie una vera e propria decostruzione della Tokyo smart city contemporanea. Il protagonista di questo nuovo film del regista tedesco rimanda inoltre a molti altri personaggi del cinema di Wenders che ‘filtrano’ lo spazio urbano attraverso la musica che ascoltano nella loro auto: basti ricordare il Philip Winter di Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), il quale ‘rilegge’ le città attraversate anche per mezzo di uno sguardo musicale.

La lentezza e la metodicità che il personaggio dedica al proprio lavoro – considerato da chiunque come sordido o dequalificante – introduce la solennità del rito. La lentezza intende caricare di senso il tempo e lo spazio della contemporaneità, perduto nella macina di una comunicazione iperveloce. Come scrive Byung-Chul Han, “l’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’informazione e della comunicazione”1. La pulizia dei bagni pubblici rientra nella ritualità che investe la vita quotidiana di Hirayama: i suoi gesti, anche nel momento del lavoro, appaiono quasi venati di una sacralità perduta che si pone in netta contrapposizione con la velocità e l’inconsistenza che dominano l’esistenza degli individui contemporanei. Il protagonista di Perfect days è il costruttore di uno spazio alternativo a quello digitale e iperveloce contemporaneo. Anche nel momento della pausa pranzo dal lavoro, cerca di costruire una nuova spazialità urbana, cerca di sottrarre luoghi e spazi al magma fagocitante della contemporaneità. Si siede infatti sempre sulla stessa panchina, nello stesso parco pubblico, e scatta delle foto agli alberi con un apparecchio analogico, senza porre l’occhio dietro l’apparecchio rifiutando in tal modo di influenzare con il suo sguardo lo scorrere sempre uguale dei ritmi naturali e del movimento del vento tra le foglie degli alberi. La stessa ripetitività con la quale avvengono le azioni del personaggio lungo i giorni della settimana servono per instaurare una nuova temporalità, basata sul rito e su una concezione ‘sacrale’ dell’esistenza, che si oppone alla temporalità compressa e sempre preda di nuovi stimoli sensoriali degli spazi contemporanei. Gli spettatori che non hanno compreso o, peggio, si sono dimostrati infastiditi e annoiati da questa ripetitività di azioni, probabilmente appartengono in tutto e per tutto alla dimensione digitale e iperveloce contemporanea, e non si meritano di meglio. Wenders, con il suo film, ci mostra degli esempi di “immagini-tempo”, per utilizzare un’espressione di Gilles Deleuze: alla temporalità frantumata e veloce delle “immagini-movimento” si sostituisce quella lenta e ‘cristallizzata’ del rito2.

La ripetizione dei gesti e delle azioni domina anche i momenti in cui Hirayama, finito il lavoro, percorre in bicicletta gli spazi cittadini. Egli si muove quasi come un antico eroe epico che, spostandosi, attua una nuova lettura dello spazio3: sovverte, disarticola, smembra e ricostruisce in una dimensione sociale e culturale che si pone contro la concezione ipercontemporanea di smart city. Il personaggio si reca ai bagni pubblici per lavarsi, mettendo in atto un’altra azione rituale e conclude la sua giornata cenando in una tavola calda in una stazione, in mezzo a un frenetico passaggio di persone. Ecco che egli rilegge in modo diverso anche un luogo inserito nella velocità, nella spersonalizzazione e nella massificazione contemporanea. Dentro l’“inferno dell’Uguale”4, Hirayama si ritaglia un piccolo spazio in cui possono ancora valere gesti semplici e antichi, come bere e mangiare dopo aver scambiato sguardi e parole d’intesa con il padrone del piccolo locale. Anche il luogo dove si reca a mangiare nei giorni liberi dal lavoro si presenta come uno spazio dominato dai rapporti umani autentici, una piccola isola nel cuore spersonalizzato della metropoli: una padrona che sembra provenire dal Giappone più arcaico, degli avventori che condividono gioie e dolori e che concludono la serata cantando e suonando la chitarra. Nell’Uguale, egli cerca il Diverso sottraendosi agli obblighi sociali che rendono tutti gli individui uguali fra di loro: la ricerca del divertimento sfrenato, l’utilizzo di apparecchi ultramoderni e iperconnessi, la frequentazione di un certo tipo di ambienti, l’attenzione per le immagini digitalizzate e perfette. Il personaggio parla la propria città in modo diverso rispetto alla massificazione che la società tecnocapitalistica vorrebbe imporre. Come scrive Roland Barthes, infatti, “la città è un discorso, e questo discorso è un vero e proprio linguaggio; la città parla ai suoi abitanti e noi parliamo la nostra città, la città in cui ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola”5.

La città che Hirayama plasma col suo movimento si contrappone nettamente, ad esempio, agli spazi in cui si muovono i personaggi di Parasite (2019) di Bong-Joon-Ho. Non solo gli ambienti ipertecnologici ma anche quelli più poveri, nel film del regista sudcoreano, sono caratterizzati dalla presenza degli smartphone, utilizzati indifferentemente da tutti. Gli sfondi e gli ambienti di Perfect days, nei quali vive e si muove il protagonista, sono caratterizzati dalla materialità di oggetti profondamente reali: le musicassette, i vecchi libri, acquistati in una rivendita di libri usati fuori dai normali circuiti investiti dalla velocità del consumo, la stanza nella quale Hirayama attua il rituale della lenta lettura prima di addormentarsi, le scatole nelle quali vengono riposte le fotografie in bianco e nero scattate agli alberi, le piante e i bonsai di cui si prende quotidianamente cura. La Tokyo ‘costruita’ dal personaggio del film di Wenders assume un carattere profondamente umano: la decostruzione in senso anti-digitale non è rivestita di connotazioni distopiche come, ad esempio, nella serie tv Alice in Borderland, in cui la metropoli giapponese appare devastata e imbarbarita.

La lentezza e la ripetizione su cui insistono le immagini del film intendono quindi costruire una dimensione più umana, ‘detecnicizzata’ e ‘desmartificata’, in cui anche il tempo assume un carattere più lento e legato ad un’esistenza da riempire di significato minuto per minuto. Alla giovane nipote Niko, che si reca a fargli visita, Hirayama dirà infatti che “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”, a ribadire la necessità di trasformare ogni attimo in un irripetibile frammento di esistenza. Il personaggio si muove nello spazio urbano per creare – sembra – una dimensione di vita più autentica per sé stesso e per chi gli sta intorno, ricercando un contatto più autentico anche con la vegetazione che ancora riesce a sopravvivere nel magma di cemento della metropoli, non decostruita in inconsistenti immagini digitali, ma consegnata alla memoria in un tenue e cartaceo bianco e nero. Il movimento del personaggio appare perciò – ma questa proposta è solo una delle possibili chiavi di lettura del film – come una strenua lotta di sopravvivenza contro la smart city contemporanea.


  1. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2014, p. 28. 

  2. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989 e Id., L’immagine-movimento, trad. it. Ubulibri, Milano, 1984. 

  3. Cfr. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando Editore, Roma, 2009, p. 114. 

  4. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p. 10. 

  5. R. Barthes, Semiologia e urbanistica, in L’avventura semiologica, a cura di C. M. Cederna, trad. it. Einaudi, Torino, 1991, p. 265.