di Paolo Lago e Gioacchino Toni
[Lo scritto che segue riprende alcune tematiche approfondite in un libro in fase di ultimazione dedicato alla messa in scena delle banlieue nel cinema francese].
Facendo riferimento alla produzione cinematografica francese, a partire dagli anni Ottanta, in ambito critico, si è teso a distinguere tra film en banlieue, ambientati nelle periferie, e film de banlieue, in cui compaiono rappresentazioni di soggettività periferiche, di scissione rispetto a un corpo unitario, capaci di offrire punti di vista altri – periferici, appunto – rispetto a quelli egemonici.
Caratteristiche ricorrenti nel cinema francese che sin dagli anni Ottanta del secolo scorso ha inteso occuparsi delle periferie sono gli agglomerati urbani popolari, la varietà etnico-culturale di chi vi risiede e la spazialità chiusa e cementificata. A questi si aggiungono elementi secondari, più o meno presenti, come il ricorso all’abbigliamento sportivo griffato, la musica rap e la cultura hip-hop, il traffico di cannabis, gli spostamenti ferroviari, il linguaggio gergale, la presenza di gruppi di giovani sfaccendati e annoiati nelle aree pubbliche, il confronto con la polizia e la diffidenza nei confronti dei media.
Ripercorrendo lo sviluppo di questo cinema si possono cogliere tanto le trasformazioni delle periferie e della composizione sociale che le abita, quanto l’intenzione di disinnescare gli stereotipi delle rappresentazioni mediatiche attraverso opere intime e anti-spettacolari o insistendo sulla complessità del tessuto sociale.
In molti di questi film la periferia tende a essere identificata soprattutto da un contesto urbanistico-architettonico alienante e dalla centralità riservata a un soggetto maschile, giovane, di discendenza straniera e deviante, lasciando per tutti gli anni Ottanta e Novanta nell’ombra le figure femminili che inizieranno a conquistare importanza soltanto con il nuovo millennio sebbene, non di rado, costrette a mascolinizzarsi nei costumi e negli atteggiamenti per ritagliarsi spazio in un universo strutturato al maschile.
L’eterogeneità delle opere che hanno affrontato l’universo delle periferie francesi e i loro abitanti rende difficile definire un corpus unitario. Djinn Carrenard, regista autodidatta di origini haitiane, ad esempio, ha fatto ricorso alla definizione di cinéma guérilla per indicare quel tipo di opere sulle periferie realizzate da chi vi proviene ricorrendo a pratiche di autoproduzione a bassissimo budget1.
Al cinema delle/sulle periferie francesi “Radio France” ha dedicato nel 2012 una serie di documentari radiofonici intitolati Génération HD, ou l’explosion d’un cinéma urbain in cui è stato messo in luce come il diffondersi di macchine da presa digitali ad alta risoluzione a costi contenuti abbia consentito a numerosi/e film-maker privi/e di disponibilità economiche importanti di realizzare opere audiovisive sulle periferie.
Uno studio sistematico delle produzioni sorte in seno alle banlieue si deve alla giornalista e critica cinematografica franco-burkinabe Claire Diao2 che a tal proposito ha introdotto l’etichetta Double Vague intendendo sottolineare la doppia cultura (francese e di origine) di tali autori e autrici delle periferie e il fatto che tali produzioni sembrano travolgere, come un’onda, la convenzionalità del cinema francese.
Per comprendere il valore sociale di tali film Carole Milleliri3 ha invece indagato il ricorso all’etichetta cinéma de banlieue da parte della stampa francese per designare un genere che pur nella sua instabilità è stato recepito nell’arco di tre decenni a partire da alcune precise caratteristiche narrative, estetiche e tematiche.
Nel periodo compreso tra gli anni Ottanta e la metà del decennio successivo, riferendosi ai film girati nelle periferie francesi con budget modesti da registi spesso esordienti e provenienti dal medesimo contesto sociale messo in scena, la stampa ha spesso evidenziato la loro capacità di dare nuova visibilità alla componente giovanile maschile delle banlieue. Sebbene non ancora identificati come cinéma de banlieue, la critica ha guardato a questi film sottolineando l’importanza da loro assegnata agli ambienti periferici e alla composizione etnica e sociale che li abita, tutti elementi utili a comprendere meglio i cambiamenti in corso nella realtà francese.
L’etichetta di film sur la banlieue con cui è stata accolto il lungometraggio Hexagone (1994) di Malik Chibane, girato nel sobborgo parigino di Goussainville, ha annunciato l’emergere di quello che, a partire da L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz sarebbe poi stato usuale definire cinéma de banlieue. La critica cinematografica francese ha colto nei film prodotti negli anni Novanta la presenza di una profondità psicologica estranea alle rappresentazioni mediatiche delle periferie, e un’indubbia capacità di mostrare l’ingiustizia sociale, l’indifferenza delle istituzioni, la brutalità poliziesca e il disprezzo subito da chi vive le periferie da parte del resto dei francesi. Con il passaggio al nuovo millennio, poi, la critica ha notato un’inedita attenzione nei confronti dei personaggi femminili e ha colto la volontà di non limitarsi a rappresentare le periferie come soli spazi di oppressione, ma anche come terreno fertile per una possibile emancipazione culturale e sociale.
Allargando lo spettro dei film esaminati al di là di quelli realizzati da chi proviene dalle periferie, film come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras hanno il merito di proporre non solo una riflessione sui rapporti tra centro e periferia ma anche sulle molteplici strutture di potere con cui gli abitanti delle banlieue devono fare i conti quotidianamente.
Tutti e tre i film si prestano ad essere analizzati attraverso l’ottica dello spazio. In essi emerge una netta contrapposizione tra lo spazio del centro della città e quello della periferia. Quest’ultima può essere considerata come una vera e propria “eterotopia”, un termine coniato da Michel Foucault per indicare una sorta di “spazio altro”, separato dal normale contesto quotidiano4. Ciò significa che la stessa quotidianità della banlieue sfugge alla ‘normale’ quotidianità dello spazio cittadino. Se, infatti, i lembi di centro parigino che vediamo, ad esempio, ne L’Odio, sono connotati dalla ripetitività della produzione e del consumo e attraversati da un movimento incessante (le persone che camminano per le strade illuminate, il traffico di automobili) legato ai ritmi del lavoro e del tempo libero, le banlieue sono il regno di un tempo che scorre inesorabile e inconsolabile nella sua perdita incessante, una temporalità scandita dai ritmi nomadici del vagabondaggio e del passaggio da una situazione più o meno legale ad un’altra.
La macchina da presa di Kassovitz ci mostra dei giovani che sembrano danzare sulle cristalline volute del tempo, il quale si palesa nella sua forma meccanica più opprimente, un orologio immaginario che scandisce i vari momenti della giornata, dal mattino alla notte fino ai primi momenti del giorno successivo a quello in cui inizia l’azione, sfolgoranti nel loro tragico epilogo. L’eterotopia della banlieue è perciò connotata anche da un’eterocronia, da un tempo altro, in quanto, dice Foucault, «l’eterotopia funziona appieno quando gli uomini vivono una sorta di rottura assoluta con il proprio tempo tradizionale»5.
Le banlieue sono uno spazio di rottura del tempo tradizionale inquadrato nelle logiche cittadine e borghesi incentrate sul ritmo della produttività. I banlieusard sono esseri umani di rottura, non appartengono alla temporalità del centro cittadino. Essi fanno parte di una classe sociale liminale che già nei primi decenni dell’Ottocento, a Parigi, è stata emarginata perché accentratrice di paure e di orrore: come ricorda lo stesso Foucault, «con l’epidemia di colera del 1832, che comincia a Parigi per diffondersi in tutta l’Europa, si cristallizzarono un insieme di paure politiche e sanitarie suscitate dalla popolazione proletaria o plebea»6. E, continua lo studioso, «a partire da quest’epoca si decise di dividere lo spazio urbano in settori ricchi e settori poveri»7.
Le banlieue sono separate perché in esse è presente il germe della malattia di un tempo ‘altro’, non fondato sul lavoro e sulla produzione; nell’ottica del centro, i giovani delle periferie sono ‘malati’ e segnati dal rifiuto del tempo tradizionale. Le banlieue sono le spirali irradiatrici di una malattia che si può diffondere al cuore pulsante della produttività: ecco perché devono essere tenute lontane e segregate, mentre i loro abitanti, quando si recano nel centro, devono essere immediatamente rinchiusi o allontanati, come succede ai protagonisti del film di Kassovitz.
Le periferie sono il nuovo deserto abitato dai nomadi, sono il nuovo Oriente magico e corruttore che, nell’ottica imperialistica della Londra vittoriana, avrebbe potuto minare il nucleo pulsante dell’impero. Non è un caso che il vampiro Dracula, che sovverte i ritmi di sonno e di veglia facendo della notte il suo regno ribelle, giunga proprio a portare la sua malattia nel centro stesso di quell’impero, la già ricordata Londra governata dalla regina Vittoria, dalla quale partono sempre nuovi commercianti e nuovi eserciti per assoggettare l’ozioso Oriente. Come nota Edward Said, per un viaggiatore di lingua inglese del XIX secolo, l’Oriente era sinonimo di India, possedimento della Corona britannica e «attraversare il Vicino Oriente significava per lo più essere diretti alla principale colonia di Sua Maestà»8.
Quando si trovano a solcare le periferie, i ‘cittadini’ si comportano nello stesso modo del viaggiatore in questione: nella loro ottica, le banlieue sono un territorio sottomesso e assoggettato, indubitabilmente ‘inferiore’ al centro della città. In questo modo si comportano i giornalisti che, sempre nel film di Kassovitz, percorrono in automobile le strade della periferia a caccia di scoop sui recenti scontri avvenuti fra banlieusard e forze dell’ordine. Incontrando i tre giovani protagonisti del film, i giornalisti televisivi fanno loro domande sugli scontri considerandoli inequivocabilmente colpevoli. Non a caso, uno dei tre, Hubert (Hubert Koundé), dirà che i giornalisti si muovono nello spazio della banlieue come all’interno di un gigantesco zoo, rimanendo a bordo della loro auto per proteggersi dagli animali feroci. Le banlieue sono infatti degli anelli concentrici che costituiscono una sorta di zoo, una ‘riserva’ nella quale sono stati relegati gli indesiderati dal centro.
Lo spazio della periferia può essere analizzato anche per mezzo delle teorie che Deleuze e Guattari espongono in Mille Piani: uno “spazio liscio”, connotato come il deserto abitato dai nomadi, che si oppone allo “spazio striato” della città, percorso dal controllo e dal nomos, la legge reticolare che geometricamente lo suddivide9. Il controllo, sotto le sembianze di pattuglie di polizia, attraversa continuamente gli spazi desertici delle periferie, li controlla, cerca di sottoporli ad una ‘striatura’ continua. Lo vediamo ne L’Odio ma soprattutto ne I Miserabili, realizzato da un autore che viene dalla periferia messa in scena, incentrato sulle vicende di tre poliziotti in pattuglia attraverso la banlieue. Nonostante i poliziotti siano ormai conosciuti da tutti gli abitanti, essi cercano costantemente di mimetizzarsi assumendo le modalità di comportamento tipiche dei banlieusard e aspirando ad una vera e propria metamorfosi. Come notano Deleuze e Guattari, del resto, lo Stato, fin da tempi remoti, non ha una propria macchina da guerra e cerca di appropriarsi di quella che i due studiosi chiamano “macchina da guerra nomade”, cioè l’apparato di combattimento proprio dei nomadi del deserto10.
Chris (Alexis Manenti), il capopattuglia, si comporta spesso in modo arrogante e violento con gli adolescenti di origine africana che incontra nelle vie della banlieue e la stessa pattuglia ha stipulato degli accordi non scritti con i banlieusard più anziani che controllano il territorio. La pattuglia della polizia non è altro che una delle numerose bande che scorrazzano per le vie periferiche: fra di esse vi è anche quella degli zingari, proprietari di un circo dal quale è stato rubato un cucciolo di leone da Issa, un ragazzino di colore appartenente alla banlieue. Gli zingari minacciano una vera e propria guerra contro quest’ultima se il leoncino non verrà loro restituito. Da adesso in poi, i tre poliziotti, per scongiurare un conflitto dagli esiti terribili, saranno esclusivamente impegnati nella ricerca del piccolo leone che si trova da qualche parte nel quartiere. Non è un caso che nel film, per le vie periferiche, si aggiri adesso il cucciolo di un animale feroce al quale sono probabilmente accostati i giovani e i ragazzini del quartiere che, nelle sequenze finali, tenderanno un’imboscata alla pattuglia. Ecco che, per certi aspetti, si realizza ciò che aveva pensato Hubert ne L’Odio: gli spazi della banlieue sono un enorme zoo nel quale si aggirano belve feroci. Trasformandosi in banda armata, tramite le pattuglie lanciate come schegge impazzite attraverso le periferie, lo Stato cerca di controllare e reprimere, come scrivono Deleuze e Guattari, sia il “vagabondaggio di banda”, sia il “nomadismo di corpo”11.
Lo scontro fra le due “macchine da guerra”, quella nomade e quella dello Stato, è descritto ampiamente in Athena. Dopo un assalto dei banlieusard al commissariato di polizia per vendicarsi dell’uccisione di un ragazzo, si scatena una vera e propria guerra che assume tonalità epiche. Nella prima parte del film vi è una compenetrazione continua fra i due spazi, quello del centro e quello della periferia. Frammenti di “spazio liscio” si staccano da esso per dirigersi verso lo “spazio striato” mentre quest’ultimo risponde facendo frequenti incursioni verso il ‘deserto’ nomadico. Nella seconda parte, invece, lo “spazio liscio” si fa fortezza e sembra trasformarsi esso stesso in polis, in cittadella autorganizzata e fortificata. I ragazzi delle periferie, schierati in un vero e proprio esercito predisposto alla battaglia, assumono chiare connotazioni da eroi epici (un rimando all’epica e al mondo classico in genere è riscontrabile anche nello stesso titolo del film). La macchina da presa offre adesso inquadrature dal respiro epicizzante che trasformano i giovani emarginati e ‘sottomessi’ della periferia in eroi, un po’ come aveva fatto Pasolini con Accattone (1961), in cui a commentare il vagabondaggio del protagonista attraverso le borgate vi è la musica ‘alta’ della Passione secondo Matteo di Bach.
D’altra parte, Pasolini non è nuovo a questo tipo di modalità stilistica: già in Ragazzi di vita (1955) aveva trasformato le avventure di giovani ladri e prostituti in vicende dalle tonalità epiche. L’immaginario quartiere di Athena si trasforma allora in cittadella fortificata, nell’antica rocca che fa da sfondo non solo a molti racconti epici ma anche a molte tragedie. Karim (Sami Slimane), il giovane capo della rivolta nonché fratello del ragazzo ucciso, potrebbe apparire quasi come una versione maschile di Antigone, l’eroina di Sofocle che, nell’omonima tragedia, sfida il potere di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice.
All’interno del quartiere, trasformatosi in fortilizio, ci sono i suoi miti abitanti, soprattutto anziani e giovani donne di origine africana ma anche, probabilmente, irachena, iraniana o pakistana, che, con i loro bambini in braccio, assieme alle donne più anziane (fra i quali spicca la madre di Karim e degli altri suoi fratelli, ferita dalla perdita di un figlio), possono assumere i tratti delle lamentatrici funebri presenti nel coro di diverse tragedie antiche. Un altro elemento tipicamente tragico è poi il topos della “casa che crolla”, poiché il quartiere verrà devastato dalla guerriglia, mentre la famiglia di Karim alla fine della vicenda appare letteralmente dilaniata.
Il quartiere, come già notato, assume in questi momenti i caratteri tipici di un’eterotopia poiché appare come un luogo nettamente separato dall’esterno, una vera e propria spazialità arroccata in sé stessa. Tali connotazioni assumono ancora tonalità epiche e tragiche, fino ad assomigliare a quelle che caratterizzano le rocche antiche asserragliate e poi espugnate fra cui indubbiamente spicca la città di Troia, raccontata dall’Iliade e dall’Ilioupersis. Il quartiere, arroccandosi in sé stesso, dimostra anche la sua totale separazione ed esclusione rispetto allo spazio circostante fino a trasformarsi, quasi, in “eterotopia di deviazione” nella quale, secondo Foucault, «vengono collocati gli individui che hanno un comportamento deviante rispetto alla media o alla norma richiesta»12.
Nei tre film analizzati, perciò, le periferie possono essere definite come degli “spazi lisci”, nettamente separati, che lo Stato cerca in ogni modo di “striare”, di rendere somiglianti a sé stesso eliminando peculiarità e differenze. Queste ultime, però, continuano inevitabilmente a sussistere e gli spazi nomadici e lontani delle periferie vengono stigmatizzati ed emarginati dal centro pulsante del potere che sembra non riuscire a comprendere le profonde esigenze dei loro abitanti. E i film in questione narrano le lotte senza fine fra centro e periferia le quali assumono connotazioni mitiche, oniriche, epiche e tragiche pur rimanendo, alla fine, terribilmente reali.
Djinn Carrenard, J’ai fait un film avec 150 euros: mon manifeste guérilla de l’auto-production, in “L’OBS – Le Nouvel Obs Le Plus”, 3 novembre 2011. ↩
Claire Diao, Double Vague. Le nouveau souffle du cinéma français, Au Diable Vauvert, Vauvert, 2017. ↩
Carole Milleliri, Le cinéma de banlieue: un genre instable, in “Mise au point”, 3, 2011. ↩
Cfr. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020, pp. 307-316. ↩
Ivi, p. 313. ↩
M. Foucault, La nascita della medicina sociale, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 236. ↩
Ibid. ↩
Cfr. E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 171. ↩
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2010, pp. 451-458. ↩
Cfr. ivi, p. 426. ↩
Cfr. ivi, p. 439. ↩
M. Foucault, Eterotopie, cit. p. 312. ↩